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IL GIOCO DELLE PARTI

31/12/2022

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“Scusa, ma tu l’hai mai visto il primo che arriva dopo l’ultimo? Cosa ultimo si chiama a fare, se dopo di lui arriva il primo?”

E’ l’indovinello – un po’ idiota, lo riconosco – con il quale mi piace stuzzicare i bambini fino agli otto anni, l’età nella quale, a dire di Jean Piaget, il padre della psicologia dell’Età Evolutiva, si consolida il pensiero cosiddetto “reversibile”. La capacità, in altre parole, di compiere alcune operazioni mentali elementari, sia di ordine spaziale sia di ordine logico e numerico, e della acquisizione di un certo numero di nozioni che formano la base del ragionamento comune (lunghezza, durata, classe, serie, ecc.)

​Idiota, l’indovinello, fino a un certo punto, in verità. 31 dicembre. Ultimo giorno dell’anno.
L’anno che finisce, che quattro stagioni ha visto transitare, alternandosi in sequenza.
A mezzanotte in punto, accompagnato da botti e brindisi, capiterà – atteso e puntualissimo, a spaccare il minuto secondo manco fossimo tutti a Greenwich – il primo.

Capodanno, il primo giorno del nuovo entrante.
Quindi auguri, abbracci e baci dentro auspici di benevolente cambiamento. In meglio, obviously.
Cambiamento. La cosa più facile del mondo, potrebbe sembrare.
E invece no.
Perché a fronte alcune parti di noi che vorrebbero trasformarsi, evolvere, crescere e maturare, altre si oppongono, strenuamente, attaccate come una cozza sullo scoglio.
Alcune parti di noi spingono sull’acceleratore, altre tirano il freno a mano.
Per qual motivo?
Perché cambiare costa, e per certi aspetti incute timore. Paura.
Meglio allora la sicurezza delle abitudini note, la comoda “comfort-zone” che tanto protegge e rassicura. A questo tendono, alcune “parti” di noi. A proteggerci.

“Parti”, si. E non stiamo parlando del disturbo schizofrenico, ma della normale quotidianità. Nonostante ci piaccia considerarci “uno”, arriva – inevitabile prima o poi – il momento nel quale ci scopriamo dentro non solo Dr. Jekill  e Mr. Hide, ma addirittura una vociante e tormentata assemblea condominiale. Stati d’animo e “voci” che sentiamo dentro, a volte in concorde sintonia, altre contrapposte e stridenti in quella sorta di lotta greco-romana del conflitto interiore.
Le “parti” non sono stupide. Nessuna, lo è. Cercano semplicemente un vantaggio. Tutti lo facciamo. Le due squadre principali? Chiamiamole esigenza di novità e bisogno di sicurezza. Curiosità versus protezione. Crescita contro mantenimento.

Due squadre. Come in una partita a calcio.
Come in politica, come nella società, come in famiglia.
Allora il mio augurio stasera è che siano 90 minuti - anzi dodici mesi - avvincenti. Da divertirsi, che nel piacere sta l’ingrediente per ogni successo. Quando ci divertiamo, le cose riescono bene. Non avvertiamo fatica; anzi lo sforzo - atletico e/o mentale - ci genera quel gusto, quella sorta di godimento che conduce alla soddisfazione per l’opera compiuta.

Che sia una partita divertente. Aldilà delle paure, dei timori, delle “incongruenze” che possiamo constatare.
Siamo umani, dopotutto.

Siamo umani, soprattutto.
​
Buon 2023!

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MECCANISMI DI DIFESA

27/12/2022

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Quando giocavo a calcio, mi piaceva stare all'attacco. Dallo spogliatoio, cercavo di uscire sempre con la maglia numero 7, o 9. Quelli dell'ala destra, o del centravanti (il ruolo prediletto). 
Oppure l'11, come Zibì Boniek, quel polacco col baffo che spazzava a carrarmato le difese avversarie. Giocava nella Juve, purtroppo, e per me - interista nel midollo - quest'amara e al contempo ammirata constatazione è ogni volta un'ammissione a malincuore, cui mi costringo.
Per non parlare del 10 di quegli anni, “Le RoI” Michel Platini.

L'attacco, e la difesa.
Che le difese, invece, sono importanti, mica no. Vitali, potremmo dire.
Pensa che ne sarebbe del corpo umano, senza sistema immunitario.

Anche in psicologia, se ne parla. 
Il primo fu Sigmund Freud (e chi, sennò?) che spiegò come gli esseri umani mettano in atto dei meccanismi di difesa – perlopiù inconsci – per proteggersi da emozioni spiacevoli come la rabbia, la paura, la vergogna, la tristezza. Emozioni legate a pensieri, esperienze, desideri, ricordi o eventi traumatici. 
Altri psicanalisti venuti dopo, come l'austriaco Otto Kernberg, tuttora vivente, hanno aggiunto un'ulteriore importante funzione a questi processi mentali i cui nomi sono: Scissione, Negazione, Proiezione, ecc.: quella di salvaguardare l'integrità del sé. In altre parole, di mantenere coerente e affidabile l'immagine che abbiamo di noi stessi.

Che vuol dire?
Proviamo con un esempio. 
Ti capita mai di svegliarti al mattino con un sentimento greve di tristezza, magari con delle lacrime che non si asciugano prima del caffè; o in preda a stati di agitazione, ansia, inquietudine a volte legati a immagini e ricordi ben definiti, altre volte incomprensibili e vaghi come la nebbia in Val Padana, che non si dissolvono se non a giornata già avviata, quando hai iniziato il lavoro o la routine della abituale quotidianità ha preso il sopravvento?
Ecco, ciò avviene perché il passaggio dallo stato di sonno (e sogno) nel quale le difese si abbassano - a volte annullano - alla realtà della vita vera, ci vede come gamberi senza guscio. Serve un po' di tempo perché i processi difensivi automatici si attivino, si accendano e re-inizino la loro opera di protezione. Scissione, Razionalizzazione, Negazione...
C'è una bella canzone – più propriamente una preghiera – di Franco Battiato che descrive divinamente questi sentimenti: “L'Ombra della Luce”.

Nel sonno ritorniamo bambini. Cioè esseri dipendenti (il bimbo piccolo lo è in tutto-e-per-tutto) dalle cure amorevoli della figura materna. Abbiamo fame/piangiamo/veniamo soccorsi. 
Mal di pancia/piangiamo /veniamo soccorsi. 
Così per ogni altro bisogno o emozione spiacevole, come la paura, la frustrazione, la rabbia.
Per un po' ci “illudiamo” che possa funzionare così, per tutta la vita.

Poi crescendo – di disillusione in disillusione, come nell'amore vero – diveniamo consapevoli che la vita è imperfetta. Essere umani, è cosa imperfetta. 
Un'operazione, questa accettazione della realtà, mica sempre facile. Ecco allora che ci facciamo scudo con le difese automatiche (e inconsapevoli: vediamo bene solo quelle degli altri) della Rimozione, della Proiezione, della Negazione, e così via. 

Che poi la cosa più curiosa (e più difficile da ammettere) è che gli atteggiamenti che più ci danno fastidio negli altri sono esattamente quelle parti di noi stessi che abbiamo negato o tenuto rimosse. 
Per educazione, per paura, per conformismo, per obbedienza.

Vuoi un esempio?
Pensa a quando critichi quella persona perché si veste (o parla, scrive, si relaziona) in quel modo. Che fastidio! E giù commenti, giudizi, perlopiù tendenti all'acido.

Se ci ascoltiamo davvero, tuttavia, se ci prendiamo del tempo per analizzarci un po' più nel profondo, ci sarà inevitabile scoprire una cosa sorprendente: che gli atteggiamenti di quella persona così “antipatica”, corrispondono esattamente a quelle “parti” di noi che abbiamo rimosso, soppresso, non esaudite. 
Di cui siamo invidiosi.
​
E' un grande insegnamento, questo, della psicanalisi.
Chi disprezza, compra, chiosa la saggezza popolare. 

Morale della favola: per tornare “integri” dobbiamo smettere di giudicarci. Lo facciamo inconsapevolmente attaccando gli altri; eppure si tratta - in realtà - di un tentativo inconscio di difendere noi stessi. 
Le nostre “parti” interne che giudichiamo non adeguate, sconvenienti, brutte, sbagliate.
Per educazione, per paura, per conformismo, per obbedienza.

Era proprio forte, Zibì Boniek.
Eppure io penso che senza difensori del calibro di Cabrini, Gentile e Scirea, quella squadra avrebbe vinto ben poco.

E mannaggia a me, che mi ritrovo a parlare della Juve. 
Mica che mi sia saltato qualche meccanismo di difesa?

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LA TORTURA DEL “E SE?”

19/8/2022

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“Ho avuto un sacco di preoccupazioni nella mia vita, la maggior parte delle quali non sono mai successe”. Così Mark Twain, il celebre scrittore americano, autore tra l'altro di Tom Sawyer.

Si chiama “anticipazione”. Ha un potere perverso, ci ricorda la PNL (Programmazione NeuroLinguistica). E' incredibile quanto la nostra mente abbia la capacità di modellare la realtà attraverso le convinzioni (che altro non sono che pensieri radicati da forti emozioni).

Tutto ciò genera blocchi, paure, zavorre, stagnazione, “freni a mano”. In una parola: ansia.

Eppure, lo sappiamo: quanto benessere sperimentiamo le volte in cui lasciamo fluire liberamente l'energia dentro di noi? Quando ad esempio ci dedichiamo a una passione, un lavoro che ci piace, un'attività che ci gratifica. La pace interiore è esattamente questo: energia vitale, che liberamente fluisce.

Allora, mentre grigi, incombenti e  minacciosi temporali vanno accompagnando alla porta questa torrida estate del 2022  e la ripresa delle attività lavorative già si affaccia, solo un augurio, a ciascuno: “Carpe Diem”, viviamoci il presente.

https://www.youtube.com/watch?v=aCLI0HDM4FI

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QUANTI SIAMO IN QUESTA TESTA. GLI INQUILINI RUMOROSI: NOMI E COGNOMI

17/8/2022

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Il secondo passo nel lavoro con le “parti di sé”, dopo averle riconosciute, sta nell’accoglierle e rispettarle.
Le parti emotive possono essere diverse e ciascuno di noi ha le proprie, ma le seguenti sono quelle che si riscontrano più spesso, come ben descrive ancora Marta Erba, terapeuta milanese:

La parte attaccamento: è la parte bambina che vuole sentirsi amata e che è alla ricerca di sorrisi affettuosi e parole rassicuranti; è servita (e serve ancora) a richiamare il supporto degli altri.

La parte fuga: è la parte che fugge dalle emozioni soverchianti attraverso modalità che permettono di rendere queste emozioni più sopportabili, ma che si traducono spesso in comportamenti a rischio (dipendenze, disturbi alimentari), in procrastinazione o evitamenti (evitare di pensare, di arrabbiarsi, di parlare di un argomento). Questa parte è servita a tollerare e padroneggiare emozioni intense e disturbanti come la vergogna, la rabbia o la paura, fornendoci un senso di potere e di controllo, oppure permettendoci di trovare sollievo (grazie al rilascio di endorfine).

La parte congelamento: è una parte terrorizzata che cerca di passare inosservata immobilizzandosi nei movimenti e nella parola. Il processo coinvolto è quello biologicamente antico della morte apparente, mediato dal sistema vagale dorsale (come ben spiegato da Steven Porges nella teoria polivagale): se il “predatore” non mi vede o “mi crede morto” posso sperare di sopravvivere.

La parte sottomessa: è la parte che fa di tutto per compiacere, incapace di dire no, convinta di essere indegna e inadeguata, e che sia sempre colpa sua. A suo tempo è servita a evitare punizioni o a mantenere legami importanti per la sopravvivenza (il suo slogan è: “compiaci!”).

La parte attacco: è una parte ipervigile, controllante, giudicante e svalutante, carica di rabbia, talvolta rivolta contro di sé. È servita a regolare le emozioni e a proteggere le parti più piccole e vulnerabili, utilizzando modalità aggressive (spesso apprese durante il corso della vita da un genitore); se la rabbia è rivolta verso di sé, l’utilità può essere stata quella di rappresentare dentro di sé il genitore aggressivo allo scopo di controllarlo meglio e non venire ogni volta sopraffatti da un’aggressione imprevista; oppure all’opposto – in caso di genitori poco presenti o incapaci di fornire limiti e regole – è servita a costruire un genitore vicario (ma eccessivamente rigido e inflessibile, come può essere un genitore irreale, “inventato” da un bambino).

La parte negazionista: è una parte che anestetizza, nega e minimizza. È un modo primitivo di difendersi dalla realtà: sopravvivo più facilmente se non sento niente e ridimensiono quello che è successo (con il rischio, però, di continuare a esporsi ai pericoli).

La parte idealizzante: è quella che continua a ritenere di aver avuto “genitori fantastici” per difendersi dall’odio nei loro confronti per quello che hanno o non hanno fatto (o per non riconoscere le loro gravi inadeguatezze). Oppure che si racconta di “essere una persona speciale” per difendersi dall’idea di non valere nulla (è la cosiddetta difesa narcisistica), o ancora che idealizza un partner violento o abusante (“in realtà mi ama, mi vuole bene”). Si tratta di una percezione distorta che associa un forte sentimento positivo a un’immagine (di sé o dell’altro) allo scopo di spegnere i vissuti traumatici.

La parte suicidaria: è la parte che ha pensieri di morte, che vuole morire e immagina modi per togliersi la vita. Perfino una parte del genere va accolta e rispettata: è infatti servita a coltivare un “piano B” che permettesse di tollerare emozioni dolorose e distruttive senza recare danno a sé e al proprio corpo.
​
L’obiettivo del “lavoro con le parti”, come spiega Daniel Siegel (autore di La mente relazionale – neurobiologia dell’esperienza interpersonale), è l’attaccamento sicuro riguadagnato. In altre parole: se durante l’infanzia, o nel percorso dell’esistenza ci sono state esperienze traumatiche e disturbanti che hanno compromesso l’attaccamento (e quindi la capacità di entrare in relazione con gli altri), non si è condannati a convivere con un perenne senso di insicurezza: è possibile riparare ai traumi subiti prendendoci cura delle nostre parti traumatizzate, restituendo loro quella sollecitudine, tenerezza e attenzione che a suo tempo non hanno avuto.

Per “guadagnare” tale resilienza e accettarsi davvero in maniera incondizionata è indispensabile sviluppare una relazione con tutte le parti di noi: quelle ferite e bisognose, quelle refrattarie alla vulnerabilità, quelle che sono sopravvissute attraverso la distanza e il diniego, le parti che amiamo, quelle che odiamo, quelle perfino che ci fanno paura.
Poiché i poeti esprimono meglio degli psicologi i concetti e le esperienze umane grazie alla loro capacità di simbolizzazione, desidero chiudere questo post con i versi di Juan Ramon Jimenez, poeta spagnolo premio Nobel per la letteratura nel 1956:

“Io non sono io
Sono colui
che cammina accanto a me senza che io lo veda;
che a volte sto per vedere,
che a volte dimentico.
Colui che tace, sereno, quando parlo,
colui che perdona, dolce, quando odio,
colui che passeggia là dove non sono,
colui che resterà qui quando morirò”.
 
https://www.youtube.com/watch?v=RUHQY0wGcjE

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MA QUANTI SIAMO, IN QUESTA TESTA?

16/8/2022

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Francesca, nella torrida estate del 2022, si trovava in vacanza con suo marito Giorgio in una bella spiaggia della Sicilia; un luogo che avevano già visitato molte volte e che li aiutava a sentirsi in profonda sintonia. La seconda mattina del loro viaggio, tuttavia, si svegliò con un'inspiegabile sensazione di solitudine. Si sentiva triste e vuota, lontana dal suo marito nonostante fosse a pochi centimetri da lei. “Credendo” che queste sensazioni fossero le sue, si trovò a interpretarle: “Giorgio non mi capisce davvero. Ha buone intenzioni, ma non mi sta davvero vicino". Quando Giorgio si svegliò, Francesca era ormai in lacrime e lo stava rabbiosamente accusando di non volerle bene davvero.

Soltanto più tardi durante il giorno, quando fu più connessa alla sua parte della vita normale, capì che la sensazione di solitudine veniva da una parte più giovane, appartenente al suo passato. Una parte di sé che - disconnessa e scissa dalla attuale vita adulta di Francesca - non aveva fatto esperienza della sicurezza, del sostegno e della compagnia che aveva trovato nel suo matrimonio.
Quella parte bambina aveva semplicemente bisogno di essere rassicurata del fatto che non era tutta sola.

Alzi la mano colui o colei al quale non è mai capitato si sentirsi come due (o più) persone diverse nello stesso corpo, nei momenti o nelle giornate “storte”, nelle quali profonde emozioni o differenti stati d’animo ci coinvolgono.
A volte siamo sopraffatti da emozioni intense che fatichiamo a controllare: paura, rabbia, senso di impotenza. Il “lavoro con le parti” può aiutare a riconoscerne l’origine e a integrarle in modo efficace.  

La definizione di “parte” non riguarda solo i casi di pazienti con DDI (disturbo dissociativo di identità, una volta chiamato disturbo di personalità multipla), bensì descrive ciò che è semplicemente la profonda diversità tra le varie manifestazioni della personalità di un qualsiasi individuo in preda a differenti stati d’animo.

E’ Janina Fisher in particolare, psicoterapeuta esperta nel trattamento del trauma, a fornire un’utile descrizione del procedimento che definisce “fare amicizia con le nostre parti”. Intendendo con ciò l’accettazione radicale del fatto che condividiamo il nostro corpo e la nostra vita con dei “coinquilini” (le nostre diverse parti) a volte in opposizione o contrasto tra loro. E che per vivere bene con noi stessi dobbiamo accettare e vivere in maniera amichevole e collaborativa con tutti i nostri sé, non solo con quelli che ci mettono a nostro agio.

L’idea alla base del lavoro con le parti - riprendo in questo un bell’articolo di Marta Erba, psicoterapeuta milanese - è che ogni bambino, quando si trova in una situazione di insicurezza che nessun adulto è in grado di riparare (perché nessun adulto è presente, o perché gli adulti presenti non riescono a intercettare la difficoltà in cui il bambino si trova, o perché gli adulti stessi sono la fonte di quel disagio) ha un’unica scelta per sopravvivere: disconoscere le proprie parti più vulnerabili e ferite. Quindi, con una parte di sé “continua ad andare avanti con la vita normale”, mentre le parti ferite rimangono come segregate all’interno, nascoste e inaccessibili.

Questo fenomeno si chiama “compartimentazione dissociativa” e non è di per sé patologico. La capacità della nostra mente di scindersi in parti è anzi un’ottima strategia per sopravvivere alle situazioni traumatiche: invece che “disintegrarsi” (come avviene nello scompenso psicotico), è molto meglio dissociare alcune parti, segregarle, confinarle, in modo da poter andare avanti “facendo finta” che non esistano.

Si tratta tuttavia di un sistema che alla lunga si rivela poco efficace e potenzialmente pericoloso. Le parti traumatizzate, infatti, in presenza di determinate situazioni che ricordano il trauma originario, possono irrompere nella nostra vita in modo soverchiante e incontrollato. Le riconosciamo perché sono sempre accompagnate da sensazioni fisiche potenti (un “buco in pancia”, un “nodo alla gola”, una “morsa allo stomaco”). Spesso anche da frasi negative che diciamo su noi stessi (“non merito”, “sono sbagliato”, “c’è qualcosa che non va in me”).

Quando una di queste arcaiche parti emotive irrompe nella nostra vita, succede che ci identifichiamo profondamente con essa: non la riconosciamo cioè come una parte di noi, ma abbiamo la forte sensazione di essere davvero – realmente - quel bambino spaventato, arrabbiato o angosciato. E nient’altro.

Come si fa, dunque, a lavorare con le parti?
Il primo passo è riconoscerle, fornendo loro un’età (l’età in cui è avvenuto il trauma), un aspetto, un’espressione del viso… e imparare a guardarle con solidarietà, empatia e tenerezza. Proprio come si farebbe con un bambino e non, come spesso avviene, con fastidio, astio o vergogna.
Si tratta di usare la compartimentazione dissociativa in maniera consapevole e volontaria: invece che fondersi con le parti bambine dall’emotività soverchiante, la parte adulta è incoraggiata a separarsene.

Il secondo passo, in un prossimo post.

Questo lo concludo citando Pádraig Ó Tuama, un poeta, teologo e mediatore di conflitti irlandese. Che ricorda come, in lingua irlandese, quando parli di emozioni, non dici "Sono triste". Diresti "La tristezza è su di me", "Tā Brōn Orm". E’ bellissimo, non trovi?  Si, perché c'è un'implicazione nel non identificarti completamente con l'emozione. E’ esattamente ciò che si intende nel lavoro con le parti di sé. Non sono triste, è solo che la tristezza è su di me da un po'. Qualcos'altro sarà su di me un'altra volta, ed è una buona cosa da riconoscere.

Così per ciascuna emozione.
Per ogni parte di sé, o stato dell’Io.

https://www.youtube.com/watch?v=d4CQkG-dBZk
​

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ABBI DUBBI SERI

21/7/2022

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La location è suggestiva, incantevole. Quasi un salto dentro il medioevo.
Si, perché all'interno del vasto recinto ricomposto delle mura, come nel guscio di un frutto gigantesco, in questa luminosa sera d'estate ci si sente accolti, protetti, separati dal resto.

Il castello di Villafranca di Verona. Bob Dylan, i Coldplay al loro primo concerto italiano, i Deep Purple, su questo palco si sono esibiti. Qui William Shakespeare ambientò alcune scene del dramma di Romeo e Giulietta.
Stasera tocca al cantautore della mia adolescenza.

Cos'è una convinzione?
Ho provato in questi giorni a chiederlo a delle persone, a qualche amico, 

“E' un'idea”
“Un pensiero”
“Una cosa che hai in mente, cui dai valore di verità”.


Nutriamo convinzioni su noi stessi. Sulle nostre competenze, abilità. 
Sugli altri, sul senso della vita.
Vuoi un esempio? 

“Quell'insegnante non mi guarda, significa che mi odia”.  
Cosa provo e cosa farò seguire, a questo mio convincimento? Probabilmente nutrirò risentimento, frustrazione. Forse tristezza, magari timore. Emozioni importanti. 
Questi pensieri carichi di emozioni attiveranno in me dei comportamenti. Di evitamento, di attenzione selettiva. Noterò in quell'insegnante tutti gli sguardi che rivolge agli altri, ma non a me. Considererò un puro caso quando mi sento visto. O, addirittura, inconsapevolmente nemmeno me ne accorgerò. Finirò quindi per rinforzare sempre più, auto-alimentandola, la convinzione che egli mi odi davvero, visceralmente.

“Quando vivo qualcosa di bello, inevitabilmente poi mi capita qualcosa di brutto”.
Esempio: vado in ferie, mi sto divertendo e rilassando, ma un giorno mi si buca la gomma dello scooter. “Ecco, lo vedi? Questa è la dimostrazione!”.

E così via: “Gli uomini sono tutti mascalzoni!”.
“E le donne?”.
“Quello ce l'ha con me”.


Riassumendo: idea o pensiero.
Emozione che lo accompagna.
Azione o comportamento che ne consegue e va a confermare il pensiero di partenza.
Risultato: idea rinforzata = convinzione.

Ciò risponde a un bisogno fondamentale, forse fra tutti il più ancestrale: quello di sicurezza.
Meglio una spiegazione qualsiasi, che il vuoto dell'incertezza.

Le persone hanno bisogno di credere di avere il controllo della propria vita. Chi di noi non si sente più sicuro quando si trova alla guida dell’automobile e meno sicuro quando è al posto del passeggero?

"Hai visto che il Covid non esiste? I no vax, altrimenti, dovrebbero essere tutti morti"; oppure "Le cinture di sicurezza in auto? Fino agli anni Ottanta non erano obbligatorie, eppure siamo sopravvissuti!".
Fatti veri, che conducono tuttavia a conclusioni sbagliate. Esempi di ragionamenti condizionati da convinzioni errate. Nello specifico, il cosiddetto pregiudizio di sopravvivenza (survivorship bias). 

C'è una storia che ci aiuta a capirlo.
Durante la Seconda guerra mondiale l'aviazione americana decise di analizzare i danni riportati dagli aerei che rientravano alle basi dalle missioni, per valutare se fosse necessario rinforzarli e, nel caso, in quali punti. Emerse in modo evidente che le parti più danneggiate dal fuoco nemico si concentravano sulle estremità alari, sulla parte centrale della fusoliera e sui piani di coda. I militari arrivarono alla conclusione che gli aerei avrebbero avuto bisogno di essere rinforzati proprio in quei punti. Sbagliato! Perché?

Abraham Wald, un ricercatore dello Statistical Research Group della Columbia University, dopo avere esaminato la distribuzione delle parti danneggiate suggerì, al contrario, di rinforzare con armature e protezioni le parti che si presentavano integre o con danno minore.  Perché mai?

Perché gli aeroplani che erano stati crivellati di colpi in quei punti, erano pur sempre rientrati alla base. Perciò a dover essere rinforzate erano le parti che si presentavano integre in quegli aerei, ma che presumibilmente erano state colpite (con conseguenze fatali) negli aerei che erano stati abbattuti.
Wald tenne conto cioè di quello che, successivamente, sarebbe stato definito il "pregiudizio di sopravvivenza": si tratta dell'errore che si commette quando, per giudicare una certa situazione, si prendono in considerazione solo i dati relativi agli elementi che sono "sopravvissuti" a un processo di selezione, trascurando (perché, ovviamente, non disponibili) i dati relativi a coloro che non lo hanno superato. Ragionando in base a queste erronee convinzioni, si rischia di giungere a una conclusione non veritiera e di prendere conseguentemente decisioni inadeguate, talvolta catastrofiche. Tipo i no vax, insomma.

Gli studi di Wald costituirono le basi per la matematica applicata, in particolare per quella disciplina oggi nota come teoria delle decisioni.

Ma l'illusione di sicurezza, di controllo, resta al primo posto.
Forse è per questo che nel medioevo si costruivano i castelli, le mura fortificate.

Devo dire che su questo palco, stasera, vanno sfornando davvero dell'ottimo rock'n roll. Quel batterista selvaggio e metronomico, che affonda 'sti colpi sul rullante, mostra un'energia e una passione, quasi un'estasi preorgasmica, ogni volta che percuote: irrisolta, ed incombente. 

Formidabili, i due chitarristi giovani: manco sembrano maneggino una Fender e una Gibson, sopra quei duetti fiammeggianti. Mi ricordano un Guarneri del Gesù, e l'altro la spada di Game of thrones.

“Ebbi dei dubbi già
Il primo giorno di scuola
E all'Università
Ebbi dei dubbi ancora.

Nessuna verità
È poi così sicura
Ci sono troppi dubbi
Non fartene un problema...”


Grazie, Edo. 
Non sono mai state “solo canzonette”,  le tue.

Acc... mi stai dicendo che questa è solo una mia convinzione?
Vabbè, adesso me ne hai messo il dubbio.

​
https://www.youtube.com/watch?v=CF7y-LE3Tk0

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SISTEMI MOTIVAZIONALI

9/2/2022

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Tu percuoti, e la corda libera il suono. 
Alzi il dito, e lo senti spegnersi. 
Il martelletto innesca, lo smorzatore risolve.
Così nel pianoforte.
Mi colpisce, questa similitudine con i sentimenti e il comportamento degli esseri umani.

A chi non è mai capitato di chiedersi: - Perché ho agito in quel modo? - Compiere o meno questa scelta? - In che direzione voglio orientare il mio lavoro, gli affetti, il mio futuro?

Stiamo parlando di motivazioni, pertanto.

Dobbiamo a Giovanni Liotti, psichiatra e psicoterapeuta, uno dei padri del cognitivismo italiano e tra i massimi esperti mondiali di trauma e dissociazione, la descrizione dei “Sistemi Motivazionali Interpersonali” (SMI). 
Liotti fin dagli anni '70 del secolo scorso cercò di unire la ricerca svolta in ambito evolutivo, le neuroscienze, il funzionamento dell’affettività; in un periodo in cui l’unico paradigma psicoterapeutico accettato era quello psicoanalitico.

Gli SMI di base sono cinque e da ognuno di essi si generano emozioni diverse:

1. IL SISTEMA DELL’ ATTACCAMENTO
Il sistema motivazionale dell’attaccamento è finalizzato all’ottenimento di aiuto e vicinanza protettiva da parte di un’altra persona individuata come idonea. Il sistema si attiva e assume il controllo di emozioni e comportamenti nelle situazioni di dolore, pericolo, percezione di vulnerabilità e solitudine. Quando è attivo regola una serie di emozioni tipicamente percepibili in sequenza: paura da separazione, collera da protesta, tristezza da perdita e, infine, il distacco emozionale. La disattivazione del sistema permette l’attivazione di altri registri motivazionali come quello dell’esplorazione, del gioco cooperativo, della sessualità di coppia.

2. IL SISTEMA DI ACCUDIMENTO
Il sistema è reciproco a quello dell’attaccamento. Esso porta all’offerta di cura verso un conspecifico, agevolando le possibilità di sostentamento di altri individui all’interno del proprio gruppo. Il sistema è attivato dai segnali di richiesta di conforto e protezione emessi da un altro individuo, a sua volta motivato dal sistema di attaccamento, o da percezione della sua fragilità/condizione di difficoltà. Le emozioni derivanti dall’attivazione di questo sistema sono ansia, compassione, tenerezza protettiva o colpa per il mancato accudimento. Il sistema si disattiva alla cessazione delle condizioni attivanti, quindi alla percezione di segnali di sollievo e sicurezza da parte dell’altro.

3. IL SISTEMA SESSUALE DI COPPIA
Il sistema della sessualità è finalizzato alla formazione e al mantenimento della coppia sessuale. Il sistema è attivato da segnali fisiologici interni all’organismo, come variazioni ormonali, più importanti negli animali che nell’uomo, e da segnali comportamentali di corteggiamento emessi da un altro individuo. Emozioni collegate all’attivazione del sistema sono il pudore, la paura del rifiuto e la gelosia; la percezione dell’avvicinarsi della meta invece è collegata all’esperienza emotiva del desiderio e piacere erotico. L’orgasmo pone termine all’attivazione del sistema, che può essere disattivato anche dall’attivazione di altri SMI. All’interno della coppia sessuale può naturalmente verificarsi l’attivazione di altri SMI (attaccamento-accudimento, agonistico, cooperativo) con il conseguente arricchimento di forma e qualità della relazione.

4. IL SISTEMA AGONISTICO O DI RANGO
Il sistema agonistico di competizione per il rango è finalizzato alla definizione dei ranghi di potere e di dominanza/sottomissione per regolare all’interno di un gruppo il diritto prioritario di accesso alle risorse. Una volta stabilita la gerarchia all’interno del gruppo, questa rimane presente ed attiva nel tempo, con il vantaggio biologico di eliminare la necessità di continue lotte che potrebbero sfiancare gli individui. La definizione dei ranghi avviene attraverso forme ritualizzate in cui l’aggressività non è primariamente finalizzata a ledere l’antagonista ma ad ottenere da quest’ultimo un segnale di resa. Il sistema agonistico è attivato (a) dalla percezione che una risorsa è limitata e appetibile da più di un membro del gruppo sociale, (b) da segnali di sfida provenienti da un conspecifico, (c) nell’uomo da giudizio, ridicolizzazione, colpevolizzazione e altri segnali di rango. La disattivazione del sistema è determinata dal segnale di resa che comporta il riconoscimento della propria subordinazione al vincitore. Questo sistema può essere disattivato da un altro sistema motivazionale che subentra.

5. IL SISTEMA COOPERATIVO PARITETICO
Il sistema cooperativo ha come meta il conseguimento di un obiettivo comune, più facile da raggiungere attraverso un’azione congiunta. Il sistema è attivato appunto dalla percezione che risorse non limitate risultano più accessibili attraverso uno sforzo congiunto di più individui. Il sistema è attivato dalla percezione degli altri individui interagenti, in funzione dei fini prefissati e la percezione da parte dei “pari” di segnali di non-minaccia agonistica, come il sorriso. Il sistema può essere disattivato dal raggiungimento dell’obiettivo, dal tradimento della lealtà cooperativa da parte di uno o più interagenti o anche dall’attivazione di altri sistemi motivazionali in forme incompatibili. Quando la meta è vista avvicinata o raggiunta le emozioni collegate all’attivazione del sistema riguardano la gioia da condivisione, la fiducia e l’amore amicale; senso di colpa, sfiducia e risentimento segnalano invece la trasgressione dalle mete proprie del sistema.

In conclusione, sappiamo che: 
1. il desiderio degli umani si orienta verso ciò che in quel momento manca.
2. ogni desiderio (o “Sistema Motivazionale”) si disattiva una volta soddisfatto il bisogno che ne sta alla base. 

I tasti del pianoforte, pigiati uno per uno, li senti emettere una nota singola.
Sta alla mano dell'abile pianista articolare il movimento, passando da un suono all'altro, lasciando riverberar ciascuno nell'armonia complessiva, fino al momento opportuno.

Probabilmente il momento, in cui il piacere si coniuga alla gioia.


(Fonte di riferimento sui SMI secondo Giovanni Liotti: stateofmind.it 05/2018)

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NON TI SCORDAR DI ME

26/1/2021

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Certo che è incredibile. Che quando ti becchi un tumore, le cellule più energiche, più floride e rigogliose nel tuo corpo diventano quelle neoplastiche. Non quelle che ti mantengono sano, vivo e vegeto, bensì quelle della massa cancerosa.
Che, alla fine, ti ammazza.
E crepano pure loro, assieme a te.
“Mors tua, e anca mia”, alla fine della fiera.
 
Vabbè, ma io volevo parlare della memoria.
Che domani è un giorno importante.
 
La memoria. La “capacità di codificare, immagazzinare e recuperare le informazioni”. Così trovi scritto in qualunque manuale di psicologia generale. Generalmente, la si tratta nel primo anno di corso.
 
Questa la definizione classica. Con il progredire degli studi cognitivisti abbiamo sviluppato la consapevolezza di come la nostra mente sia sempre inevitabilmente radicata in un corpo (embodied mind). In un contesto sociale e relazionale. Abbiamo capito che, più ancora dei fatti e degli eventi in se stessi (cronaca), è l’ambiente nel quale siamo immersi, la cornice in cui vengono inseriti, a condizionare i nostri ricordi e l’interpretazione che a essi forniamo.
In pratica, ciò che chiamiamo “verità” è un quadro ridipinto sulla base di emozioni, suggestioni, percezioni selettive.
 
Italia, anno 2021 dopo la nascita di Nostro Signore. La pandemia ci sta logorando, stressando, frammentando. Basta che guardi la faccia della gente. In cassa al supermercato, dentro i finestrini delle automobili ferme al semaforo. Che ascolti i discorsi per strada, i commenti al mercato o fuori dalla chiesa, terminata la messa della domenica. Che leggi i post nei social. Siamo stanchi, frustrati, facilmente irascibili. Alcune scene di vita quotidiana mostrano una sorta di guerra tra poveri, o presunti tali. Il barista lavoratore autonomo che si scaglia contro lo statale. Che ha lo “stipendio garantito”. Il giovane partita IVA che non trova sbocchi occupazionali, che deride il pensionato “boomer” che pure si lamenta della sanità, a suo dire inefficiente.
E’ qui, esattamente in questa palude di lagnanze e malumori, che si inseriscono e ci sguazzano i leader populisti. Sempre, è stato così. “Prima la razza ariana!”. “America First!”. “Prima gli italiani!”. “No, i nord-coreani!”. “La Grande Russia!”. “L’orgoglio turco!”. “La Jihad contro gli infedeli!”.
Come le cellule del tumore. Che pensano di sopravvivere a scapito delle altre.
I demagoghi padroneggiano molto bene queste dinamiche. Alimentandole, soffiando sul fuoco.
Credono a loro convenga così.
 
Berlino, 30 gennaio 1939 dopo Nostro Signore. Nel celebre discorso tenuto davanti al Reichstag, il parlamento tedesco, Hitler annuncia per la prima volta in modo esplicito lo sterminio degli ebrei.
Come lo giustifica?
Secondo una tecnica semplice e psicologicamente ben collaudata: trova il colpevole.
O costruiscitelo, che è ancor meglio.
Individua un “responsabile”, attribuisci a lui l’infamia, e le tue azioni diverranno non solo condivisibili, ma addirittura doverose: “Se il giudaismo della finanza internazionale, in Europa o altrove, riuscirà ancora una volta a gettare i popoli in una guerra mondiale, il risultato non sarà la bolscevizzazione della terra e la vittoria del giudaismo, ma l’annientamento della razza ebraica in Europa“.
 
Ricordi cosa sono state le Einsatzgruppen? Come hanno agito?
Diamo la parola, in questa ricostruzione, ai giornalisti Marcello Strano e Paolo Mieli, quest’ultimo già direttore de La Stampa e del Corriere della Sera (documentazione video disponibile anche su RayPlay a questo indirizzo: https://www.raiplay.it/video/2021/01/La-Grande-Storia-doc-Einsatzgruppen---Le-squadre-della-morte-di-Hiltler-5da8bcb3-3e07-4ea1-9671-5d04e03b7231.html )
 
Le Einsatzgruppen erano dei reparti speciali voluti da Hitler, composti da uomini delle SS, della polizia tedesca e della Wehrmacht, che operarono nel corso della Seconda guerra mondiale. Furono impiegate prevalentemente in Unione Sovietica, Polonia, Ungheria, Ucraina e Paesi Baltici, dove svolsero un ruolo fondamentale nello sterminio degli ebrei. Infatti, il loro compito principale, come da testimonianza resa nel corso del processo di Norimberga, era l’eliminazione di ebrei, zingari e avversari politici, mediante fucilazioni di massa, l’utilizzo di autocarri convertiti in camere a gas e di lager per l’uccisione di massa.
 
Gli ebrei andavano eliminati senza alcuna speranza di salvezza perché ritenuti a capo delle strutture sovietiche. Le Einsatzgruppen appena arrivavano nelle città emanavano decreti con l’ordine a tutti i cittadini ebrei di presentarsi in un punto di raduno dove sarebbero stati ricollocati in altre località per adempiere al servizio di lavoro obbligatorio. E per chi non si fosse presentato sarebbe stato ucciso. Così, gli ebrei furono ingannati dalla speranza del reinsediamento per sopravvivere.
 
Quindi venivano radunati e trasferiti in zone già selezionate. Dopo di che, si procedeva all’eliminazione di piccoli gruppi e alla sepoltura in fosse comuni di migliaia di persone. Le vittime venivano condotte nelle fosse già scavate, gli ordinavano di spogliarsi completamente, in modo da inviare i vestiti agli enti assistenziali tedeschi e alla popolazione non ebrea. Rimanevano nudi al bordo delle fosse dove i tedeschi spesso ubriachi li uccidevano a colpi di mitragliatrice o di pistola. Gli ordinavano pure di sdraiarsi sopra altri cadaveri prima di destinarli alla stessa sorte. I neonati venivano lanciati in aria come bersagli per essere uccisi, perché secondo i nazisti non erano in grado di trattenere la pallottola e ciò avrebbe causato pericolosi rimbalzi sul terreno.
A volte alcune vittime non morivano subito, ma venivano solo ferite e quindi si seppellivano ancora vive quando la fossa veniva ricoperta. Alcuni fortunati fingendo di essere morti e trovandosi sepolti vicino alla superficie delle fosse comuni riuscirono a fuggire durante la notte.
 
Durante le uccisioni di massa si riscontrarono alcuni crolli psicologici nelle file delle Einsatzgruppen. I vertici nazisti per combattere tale fenomeno inviarono razioni supplementari di alcolici, così da rendere i carnefici completamente ubriachi mentre eseguivano gli ordini. Ma ciò non impedì numerosi casi di internamento presso case di cura psichiatriche e diversi suicidi tra le unità operative. Himmler, preoccupato per l’emergere di molti casi nelle SS, diede ordine di trovare nuovi metodi di sterminio, tra cui le Gaswagen. Erano autocarri camuffati da ambulanze di due diverse dimensioni, una da 140 e l’altra da 90 persone. Si caricavano le vittime sul piano di carico e si trasportava l’orribile carico fino al luogo della sepoltura. La morte sopraggiungeva generalmente dopo 15/30 minuti ed eventuali superstiti venivano freddati con un colpo alla nuca.
 
Ecco.
Quale memoria “embodied mind” conserviamo, al giorno d’oggi, di questi abomini?  
E di innumerevoli altri, tra cui le fosse comuni di Srebrenica, a due passi da casa nostra, nella guerra serbo-bosniaca di soli pochi anni fa? Dei genocidi in Rwanda, del popolo armeno, e di quello curdo, e di quello ucraino ad opera di Stalin? E in Congo, Cambogia, e gli stermini degli oppositori politici in Cile, Argentina, e i massacri degli indiani d’America? In gran parte avvenuti nel “secolo breve”, il Novecento da poco tramontato?
Davvero può bastare la retorica di qualche arruffapopolo senza mestiere come quelli che passano quotidianamente in tv, i populisti “acchiappalike” delle parole a vanvera, per rischiare di farci precipitare nuovamente in questi abissi della “banalità del male”?
 
Grottesco, ma purtroppo è accaduto, che tra i manifestanti pro-Trump che hanno assalito il Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio scorso sventolassero bandiere con la croce uncinata, simbolo della “soluzione finale”, il delirio più macabro che l’umanità abbia prodotto.
 
E poi vedi una ragazza di 23 anni, una che da piccola ha sofferto di disturbi del linguaggio e dell’elaborazione uditiva. Cresciuta da una mamma single, quindici giorni dopo sale sul palco, davanti al medesimo palazzo, a Washington. Si celebra l’insediamento del nuovo Presidente. La ragazza si chiama Amanda Gorman, è una brillante studentessa di Harvard. Ha già vinto diversi premi e ottenuto riconoscimenti di prestigio in ambito letterario. Fiera e consapevole della sua forza gentile, davanti a milioni di persone collegate in tutto il mondo, declama questi suoi versi:

"Noi abbiamo sfidato la pancia della bestia.
Noi abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace,
e le norme e le nozioni di quel che «semplicemente» è non sono sempre giustizia.

Eppure, l’alba è nostra, prima ancora che ci sia dato accorgersene.
In qualche modo, ce l’abbiamo fatta.
In qualche modo, abbiamo resistito e siamo stati testimoni di come questa nazione non sia rotta,
ma, semplicemente, incompiuta.

Ci stiamo sforzando di dar vita ad un Paese che sia devoto ad ogni cultura, colore, carattere e condizione sociale.
E così alziamo il nostro sguardo non per cercare quel che ci divide, ma per catturare quel che abbiamo davanti.

Colmiamo il divario, perché sappiamo che, per poter mettere il nostro futuro al primo posto, dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze.
Abbandoniamo le braccia ai fianchi così da poterci sfiorare l’uno con l’altro.
Non cerchiamo di ferire il prossimo, ma cerchiamo un’armonia che sia per tutti.

Lasciamo che il mondo, se non altri, ci dica che è vero:
Che anche nel lutto, possiamo crescere.
Che nel dolore, possiamo trovare speranza.
Che nella stanchezza, avremo la consapevolezza di averci provato.
Che saremo legati per l’eternità, l’uno all’altro, vittoriosi.
Non perché ci saremo liberati della sconfitta, ma perché non dovremo più essere testimoni di divisioni.
Le Scritture ci dicono di immaginare che ciascuno possa sedere sotto la propria vite e il proprio albero di fico e lì non essere spaventato.

Se vorremo essere all’altezza del nostro tempo, non dovremo cercare la vittoria nella lama di un’arma, ma nei ponti che avremo costruito.
Essere americani è più di un orgoglio che ereditiamo.
È il passato in cui entriamo ed è il modo in cui lo ripariamo.
 
Fateci vivere in un Paese che sia migliore di quello che abbiamo lasciato.

Con ogni respiro di cui il mio petto martellato in bronzo sia capace, trasformeremo questo mondo ferito in un luogo meraviglioso.
Risorgeremo dalle colline dorate dell’Ovest.
Risorgeremo dal Nord-Est spazzato dal vento, in cui i nostri antenati, per primi, fecero la rivoluzione.
Risorgeremo dalle città circondate dai laghi, negli stati del Midwest.
Risorgeremo dal Sud baciato dal sole.

Ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo.
In ogni nicchia nota della nostra nazione, in ogni angolo chiamato Paese,
La nostra gente, diversa e bella, si farà avanti, malconcia eppure stupenda.
Quando il giorno arriverà, faremo un passo fuori dall’ombra, in fiamme e senza paura.
Una nuova alba sboccerà, mentre noi la renderemo libera.

Perché ci sarà sempre luce,
Finché saremo coraggiosi abbastanza da vederla.
Finché saremo coraggiosi abbastanza da essere noi stessi luce”.
 
Brava, Amanda.
La bellezza e l’entusiasmo, in queste tue parole, del viversi uniti, compatti, affiatati e coesi.
Senza che ciò significhi porsi “contro” o “prima” di qualcun altro.
 
Niente tumori, insomma.
 
Quando l’ha scritta?
L’ha scritta, con la memoria ancora fresca.
 
 
​       - don’t give up – 


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QUELLO CHE NON HO

10/1/2021

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“Dotòre, go da capire dove che go sbaglià”.
“Vuole capire dove ha sbagliato, Antonio?”.

“Si, go idea de ‘vère sbaglià tutto. Co me fiòeo”.
“Con suo figlio?”.
“No ghe go mai fàto mancare gnente. Mai. Eo go mandà in tée mejo scuòe. D’istà, in Inghilterra a imparare ‘a lingua. Pa’ premiarlo, col ga compìo dixotto anni, ghe go comprà ‘a machina nova. ‘Na bea Mercedes. El sàppia che da pìcoeo, d’accordo co so mamma, no ghe ghemo gnanca fàto i vaccini. No se sa mai, mejo no fidarse de queo che i te conta, che i xe tutti sempre pronti a fregarte”.

“Antonio, lo sanno tutti quanto lei sia un imprenditore di successo. E’ partito dal nulla, ho conosciuto io stesso suo padre, il disagio della sua famiglia. Si ricorda, quando per quei problemi di alcolismo e dipendenza ci siamo visti, venticinque anni fa? Ora la sua carpenteria fattura decine di milioni di euro, ha commesse in tutte le parti del mondo. Emirati Arabi, Cina, Stati Uniti. Ha lavorato duro. Non ha mai chiesto nulla a nessuno. Si è costruito una fortuna con le sue proprie mani, il suo impegno, dedizione, coraggio e sudore”.
“Si, si, dotòre”.
“Antonio, qual’è il problema con suo figlio?”.
“Nol ga voja de fare gnente. Gnente. Parché? Dove gòi sbaglià?”.

“Antonio, mi sta dicendo che a suo figlio non ha fatto mancare nulla”.
“Si, dotòre. Gnente. No voévo chel patisse queo che me xe tocà a mi, da pìcoeo. Che me tocàva ‘ndare tòre me papà in ostaria. E portarlo casa, imbriàgo spòlpo. E difendere me mama, dopo. Chel tacàva bàtarla. E i cortèi, i piatti rotti…”.
“Capisco, Antonio. Ha vissuto e conosciuto – per esperienza, non per averle lette nei romanzi – situazioni drammatiche. Dolorosissime, specie per un bambino”.
“’’A fame, dotòre. Go conosùo ‘a fame”.
“E ora, che a suo figlio ha dato tutto, non si spiega il motivo per cui lui non ne approfitti, di tutte queste opportunità”.
“Si, dotòre, si”.

“Antonio, a suo figlio ha dato tutto, fuorché la cosa più importante. L’unica fondamentale”.
“Ma come… ea pì importante?”.
“La sola necessaria, Antonio”.

“E quaea sarìssea?”.
“Quella che è servita a lei, Antonio. Per diventare ciò che è adesso. Un uomo di successo. Per costruire ciò che ha costruito”. 
“E quàea sarìssea ‘sta roba, dotòre? Quaea sarìssea?”.
“La fame, Antonio. La fame”.

“Xe vero, dotòre… come che dixeva Steve Jobs…”.
“Si, Antonio. Stay hungry, stay  foolish. Restate affamati, restate folli”. 


Ci sono due divinità, in quel mito greco. Uno si chiama Poros, l’altra Pènia. Il nome di lei significa “povertà, bisogno”. Quello di lui “via, espediente”. Si congiungono durante un banchetto, in onore della nascita di Afrodite, la dea della bellezza. Da quell’amplesso nascerà Eros, il dio-amore. Così nel “Simposio”, di Platone.

Amore nasce da Poros e Penia.
Il desiderio, è sempre figlio della mancanza.

La Comunità di Sant’Egidio ci informa su ciò che in fondo già sappiamo: la crescita della disoccupazione provocata dalla pandemia da Covid-19 ha aumentato drammaticamente il numero di persone in grave difficoltà economica. I pasti distribuiti a Roma sono passati da 7.500 al mese a 18.750. 

Il Censis - Centro Studi Investimenti Sociali, un istituto di ricerca socioeconomica fondato nel 1964 - documenta 5 milioni di italiani in povertà assoluta, equivalenti a 1,7 milioni di famiglie. In un anno sono andati persi 500 mila posti di lavoro.

Da Sant’Egidio ci informano anche, però, che il Covid ha sì raddoppiato i poveri, ma anche la disponibilità di volontari. Durante il lockdown il numero è aumentato di un migliaio di persone a Roma (il 10% circa) e di almeno 400 a Napoli. 

Marco Pagniello, responsabile delle politiche sociali per la Caritas, comunica che durante il periodo dell'emergenza Covid-19 ha visto crescere di 5.339 il numero delle nuove leve under 34. "Soprattutto durante il lockdown, quella parte di volontariato solitamente portata avanti dagli over 65 ha diminuito le presenze ma è stata compensata dalla crescita, consistente, dei giovani. Molti dei volontari anziani si sono dovuti fermare, ma quel vuoto è stato più che riempito da ragazzi che, fermi a causa della sospensione delle lezioni e degli impegni extra scolastici, hanno avuto più tempo da mettere a disposizione”.


       - seconda stella a destra, questo è il cammino - 

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VOMITO, ERGO SUM.

7/1/2021

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Lo diceva Cartesio.
O meglio, sosteneva che se “sto pensando, allora esisto”.
“Cogito, ergo sum”, appunto.
René Descartes, filosofo e matematico del ‘600, colui che consideriamo il massimo esponente del razionalismo moderno.
 
Ma il narcisismo è una brutta bestia.
E quando si coniuga al potere e al danaro, i danni sono assicurati.
 
Te lo ricordi, Dorian Gray? Il protagonista dell’omonimo romanzo di Oscar Wilde.  E’ un giovane straordinariamente bello. Hallward, un pittore suo amico, gli regala un ritratto da lui dipinto, che lo riproduce nel pieno della sua magnificente gioventù.
​Talmente bello, che Dorian inizia a provare invidia verso il suo stesso ritratto.
 
Ritratto che rimarrà eternamente bello e giovane, mentre lui invecchierà. Così arriva a stipulare un "patto col demonio", grazie al quale sarà lui, Dorian, a rimanere eternamente adolescente e luminoso, mentre toccherà al quadro mostrare progressivamente i segni della decadenza fisica.
Notando che la sua figura nel dipinto invecchia, e assume spaventose smorfie tutte le volte che egli commette un atto feroce e ingiusto (ha pur sempre stipulato un patto con il diavolo), Dorian a un certo punto nasconde il quadro in soffitta.
 
Tuttavia, di tanto in tanto si reca segretamente lassù, per controllare e schernire il ritratto, che invecchia vieppiù e si imbruttisce, giorno dopo giorno.  E che gli crea anche tanti timori e rimorsi. Finché, stanco della sua malvagia vita, lacera il quadro con lo stesso coltello con cui prima aveva ucciso Hallward, il pittore.
 
Alla fine della storia, troveranno Dorian Gray morto con un pugnale conficcato nel cuore, irriconoscibile e precocemente avvizzito. Lo troveranno ai piedi del ritratto, che invece è ritornato meravigliosamente giovane e bello. E’ la variante del mito greco di Narciso, annegato nello stagno ove stava rimirando la sua stessa immagine, di cui era rimasto innamorato.
 
Ecco, stavolta a morire sono stati in quattro. Decine, i feriti. Anche gravi, pure tra le forze di sicurezza.
Colui che ha fomentato l’odio di piazza a suon di accuse inventate, leggende su ipotetici brogli elettorali, blablabla smontati ad uno ad uno dai numeri, dagli organi di verifica, dai propri stessi compagni di partito, tornerà al calduccio dei propri palazzi, nelle torri da miliardario.
Finché i pasticci con la giustizia e la finanza non lo chiameranno presto a giudizio, non più protetto dall’immunità presidenziale.
 
Ma il narcisista non può accettare che il giudizio popolare gli si rivolti contro. Così come nega la drammatica esistenza del Covid, allo stesso modo gli risulta inconcepibile che la maggioranza del popolo americano, a suon di voti democratici e certificati, uno ad uno, sancisca il suo fallimento.
E’ lo specchio che si infrange. L’immagine di sé che crolla, che conferma la sua fragilità. Non può accettarlo.
E allora rigurgita accuse a destra e a manca. Semina sospetti. Cavalca la frustrazione. All’opposto di quanto un grande patriota come il senatore repubblicano John McCain, veterano della guerra in Vietnam, candidato presidente sconfitto da Obama, fece riconoscendo la vittoria dell’avversario.
E subito si rimboccò le maniche per lavorare seriamente, dai banchi dell’opposizione, al bene della nazione.
Il narcisista tenta invece la disperata mossa di salvare sé stesso.
 
Non ci riuscirà, ma nel frattempo intercetta le frustrazioni e l’istinto di morte dei gruppi razzisti e di estrema destra (QAnon, Proud Boys, neonazisti et similia).
 
L’esperienza clinica insegna come il disturbo narcisista sfoci inevitabilmente in depressione, prima o poi.
La storia, che esaltazione demagogica e propaganda  populista fanno male soprattutto a un soggetto: il popolo stesso, la gente comune.
 
​
                        - la storia siamo noi -


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CONSIGLIATO PER TE

3/1/2021

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Foto
Francesca ha 15 anni. Francesca si ritrae in un “selfie” e lo pubblica su Instagram, all’istante.
Francesca attende trenta secondi desiderando veder giungere dei “like”.
…
Altri trenta secondi.
Francesca riceve solo due like.
Francesca rimuove subito la foto.
 
Francesca ne scatta - compulsivamente - un altro.
Stavolta lo modifica e arricchisce di qualche effetto, con un’”app” di fotoritocco. In questo fotogramma, non sembra nemmeno più una ragazzina di 15 anni.
Ora cominciano a piovere emoticon, commenti, faccette sorridenti.
Sorride anche Francesca.
 
In uno dei commenti, però, legge un brutto apprezzamento sul suo naso.
Francesca corre allo specchio.
Francesca verifica se è davvero come sembra.
O meglio: se le sembra sia davvero come agli altri sembra.
Francesca si intristisce. E’ confusa, va in crisi.
Francesca piange, rimarrà chiusa in camera tutta la giornata e non scende manco per mangiare.
 
E’ una scena simile a quella raffigurata nel consigliabilissimo ed estremamente attuale “The Social Dilemma”, il docudrama che spiega cosa si nasconde dietro un like, un post, un commento e l’incessante bisogno di scrollare il proprio profilo per ore. Un film realizzato tramite le testimonianze di ex dirigenti di Facebook, Google, Pinterest, Instagram e Twitter. 
Cosa si nasconde?
Chiamiamola semplicemente per quello che è: IA, l’Intelligenza Artificiale. In pratica, una serie di algoritmi studiata alla perfezione per invogliarci a rimanere connessi per il maggiore tempo possibile. Più restiamo collegati a un social media, più gli introiti della piattaforma aumenteranno.
 
C’è qualcuno che non ha capito di cosa stiamo parlando?
Qualcuno che non conosca quanto potente sia questa forma di neo-dipendenza? Mica solo per gli adolescenti, sia chiaro.
 
Vediamo qualche dato.
Il suicidio è la seconda causa di morte tra i dieci e i diciannove anni. Risultano più a rischio i maschi tra i dieci e i vent’anni. Una ricerca alla quale ha collaborato anche lo psichiatra italiano Diego de Leo (Kolves e De Leo, 2016) ha evidenziato come la pianificazione o l’ideazione suicidaria comprenda il 30% dei giovani. Estremamente frequenti sono le condotte autolesionistiche (tagli autoinflitti con oggetti affilati – generalmente lamette, sui polsi e lungo le braccia – bruciatore con oggetti roventi, abuso di sostanze, condotte a rischio).
 
Cosa c’entra tutto questo con i Social Media?
Con l’autostima.
Non è un problema nuovo, certamente.
Ma nel decennio 2010-20, quello dell’esplosione delle piattaforme network (Facebook, Instagram & co.) i numeri epidemiologici hanno subito un’impennata rilevante (McCrae, 2018), così come alcune condotte: insonnia, ruminazione, disturbi depressivi.
 
I Social danno dipendenza. Pari pari alle droghe. Agiscono sui meccanismi di rinforzo cerebrale. Il principale neuromediatore implicato - oramai lo sanno tutti - è la dopamina. E’ difficilissimo staccarsene. Chi ha figli in età puberale, lo sa benissimo. L’astinenza scatena a volte un’aggressività incontenibile.
 
Tu credi che per gli adulti sia molto diverso?

Uno degli aspetti più inquietanti è la polarizzazione del pensiero.
I motori di ricerca “imparano” i tuoi comportamenti, gusti, abitudini. Li leggono, li copiano e te li ripropongono, amplificati. In pratica, ti raccontano (e ti fanno comprare) esattamente quello che vuoi sentirti dire (e avere).
 
Chi si è mai fermato più di tanto a discernere (che perdita di tempo!) di fronte ai pop-up informativi che ti presentano la casella “acconsento”? “Cookies” significa proprio: “biscottini”; termine quantomai appropriato.
La schiacci, e via!
Così intanto fornisci dati su dati, informazioni su informazioni, indicazioni e squarci di personalità che vengono utilizzate (all’istante) per proporti qualche suggerimento di acquisto, o di informazione.
Così come quando metti un like, pubblichi una foto, condividi una notizia, compri un oggetto su Amazon o Ebay, ascolti un brano o guardi un video su Youtube.
 
Lo sai che se due persone diverse digitano la medesima parola nella stringa di ricerca di Google, la frase verrà completata in modo differente rispetto a quanto l’algoritmo già conosce di ciascuna persona?
Esempio pratico: un seguace di Trump digita “democrazia” e Google gliela completa con “dittatura”, brogli elettorali, complotto di Joe Biden, ecc…
Un democratico, invece, vedrà comparire “Obama”, Aristotele, costituzione democratica, and-so-on.
Eh, stiamo parlando dello “zio d’America” giusto per evitare esempi nazionali, l’hai capito.
 
Alla luce di queste strategie, risultano più chiare anche alcune apparenti assurdità. La polarizzazione del pensiero rafforza le convinzioni, le rende sempre più solide, autoreferenziali, granitiche e “documentate”. Terrapiattisti, no vax, cospirazionisti vari, quelli che inseguono le ambulanze ritenendole vuote, ricevono ad ogni “sessione d’informazione” (spesso condotta sulla tazza del water) quantità di dati, notizie e recensioni del tutto in linea con ciò che già pensano. La convinzione di aver ragione, di essere nel giusto, di stare dalla parte dei “risvegliati”, specie se hai visto Matrix, quindi, non può che aumentare e cristallizzarsi.
 
Nulla di nuovo sotto il sole, in realtà. Stiamo parlando di quei meccanismi noti sin dai primordi della psicologia sociale e della percezione: attenzione ed esposizione selettiva, cherry picking, dissonanza cognitiva, confusione causale, riluttanza a falsificare…
 
Attenzione, però: sulla tazza del water, ci andiamo tutti a sedere.
E se è vero - come è vero - che “se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu”, qualche buon libro, qualche lettura critica e documentata, qualche franca chiacchierata tra amici, faccia a faccia come una volta, attorno a una sapida birra, questi sono e rimarranno sempre gli antidoti giusti.
 
Ah, e se magari prima di condividere “a-copia-e-incolla” qualche fake new ci dessimo il tempo di riflettere?
Anche solo di prima metterci like e cuoricini, attenzione!
Credi davvero non respireremmo - tutti - un’aria migliore e meno tossica?
 
​
        - she don't lie, she don't lie, she don't lie, cocaine -


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ARRIVANO I NOSTRI

18/12/2020

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Chi non ricorda “Salvate il soldato Ryan”?
Premio Oscar 1998, Steven Spielberg alla regia e Tom Hanks nel ruolo del protagonista.
Quando un “marine” dell’esercito USA cade prigioniero in mano nemica, una cosa sa per certo: che i propri commilitoni faranno l’impossibile per andarselo a riprendere. Dovunque, comunque. A qualsiasi costo.

Sue Johnson lo ripete sempre, dall’alto della sua esperienza di terapeuta PTSD (Post Traumatic Stress Disorders). Un “legame sicuro”: ecco ciò di cui tutti abbiamo bisogno. Negli affetti come in combattimento. Nella malattia, come in qualunque situazione a rischio. La certezza di una protezione, la fiducia nella salvezza: questo consente di resistere alla prova, alla persecuzione, alla prigionia, financo al supplizio. 

A Giulio, non è andata così.
Cosa avrà pensato, in quei lunghi interminabili giorni di agonia? Il volto di sua mamma, quante volte gli sarà transitato allo sguardo, davanti agli occhi, torturati pure quelli? Come e a chi, avrà implorato: “aiuto?”.
Sottoposto a scariche elettriche in parti delicate, appeso a uno stipite per 48 ore e lasciato senz’acqua, sonno, cibo. Costretto nudo in piedi in una stanza dal pavimento coperto di acqua, elettrificata ogni trenta minuti per alcuni secondi. Sul suo corpo - dirà mamma Claudia - “ho visto tutto il male del mondo”.  Una lama lo ha sfigurato, tracciando lettere acefale, in cinque punti diversi. Mani di boia aguzzini lo hanno torturato e marchiato, con una crudeltà che arriva e sprofonda nei secoli più bui della storia. Per poi finirlo, torcendo quel volto martoriato su se stesso, fino a spezzargli il collo.

Così Giacomo Matteotti per mano della squadriglia fascista, così i “desaparecidos” in Argentina. Così negli anni bui dell’Inquisizione cattolica, nel medioevo. Giordano Bruno, arso vivo sul rogo. Savonarola. Le menti più aperte, i cuori migliori. Allo stesso modo, i cristiani decapitati dall’ISIS per mano del fondamentalismo islamico. Così nei Gulag sovietici, dove i tribunali anti-eretici rispondevano al nome di KGB. Così tutte le migliaia e migliaia di esseri umani, quando l’ignoranza si coniuga con la paura. Con l’egoismo, gli interessi di parte. Sposalizi i cui riti si condiscono di caccia alle streghe, dagli all’immigrato, populismo idiota, fanatismo, “pieni poteri”, paranoia e diniego, per dirla con la psicanalisi.

E adesso arriva Natale. 
Nasce il “Salvatore del mondo”.
Ancora.
Il bambinello del presepe. L’asino e il bue. E Stille Nacht. 
Non mancherà l’alberello, con le palline buone e le intenzioni zuccherose.

“Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore”.

Quante volte l’hai sentito, anche tu, questo lieto rivoluzionario annuncio? Da farci le capriole, di gioia e danze di taranta. Convocare, amici, conoscenti, vecchi amori e perfino l'anziana zia, a ballare tutti in cerchio, stappare il vino buono, che festa interminabile dev’essere!

E poi lo metteremo in croce, ogni nuovo anno. Ancora.
Venduto per 30 denari, possibilmente esente fattura. 
Alla domanda di Pilato, il politico dei “like”, chiederemo di liberare Barabba. E lui se ne laverà le mani. Che le responsabilità, meglio se le prendano altri. As usual. Come al solito.
Farà la stessa fine di Giulio. Quella di ogni povero Cristo.

E noi continueremo a fornire armi, navi da guerra e cacciabombardieri agli aguzzini che torturano e massacrano. 
Ci pagano, e pure bene, no? Ci danno lavoro, per miliardi di euro…
Qualcuno conferirà loro pure la Legion d’Onore. Che fra poco è Natale. Fosse mai che qualche buon affare giunga anche da quelle parti.

Eppure, nonostante tutta questa ambivalenza dell’umana commedia, eterna e ricorrente, contradditoria e conflittuale come alla sua radice è l’animo dell’uomo, è bello gioire quando diciotto pescatori vengono restituiti alle loro famiglie. Finalmente liberi e liberati, dopo un sequestro ingiusto e illegale. Davvero. Sono italiani, come potevano essere greci, francesi, africani o indonesiani. Per chi li ama e li aspettava a casa, non fa alcuna differenza. Neppure per quel Dio che sta lassù, ne sono certo. 

E’ bello pure leggere che un ex-presidente di una squadra di calcio - la mia, del cuore, quand’ero bambino - ha costruito nel tempo un impero di oltre 9000 dipendenti in tutto il mondo, ma ha anche dato avvio a una fondazione che aiuta quotidianamente le tante persone che si trovano in condizione di temporanea difficoltà economica e sociale, nella grande “ricca” (per qualcuno) Milano. Ogni sera nel quartiere Giambellino, al ristorante Ruben (dal nome di un suo amico barbone morto assiderato) viene offerto un pasto caldo a 350 bisognosi al costo simbolico di 1 euro (gratis per i ragazzi e i celiaci).

Ricordo come fu davvero Natale, anche se la stagione era tutt’altra, quel giorno in cui Bruno uscì dal turno di visita in terapia intensiva a Padova - collocata a quel tempo nei padiglioni del vecchio Giustinianeo - dove il nostro amico giaceva incosciente da una quarantina di giorni, dopo essersi schiantato in quell’incrocio con la sua vespa. Aveva gli occhi fuor di testa, quando ci balbettò: “Renzo ha parlato!”.

Si, Natale. Giorno della nuova vita che nasce. Che viene al mondo. 
Annuncio di salvezza, di liberazione. 

E sarà davvero bello, e importante, quando questo 27 dicembre lo sforzo di molti silenziosi operai della scienza e dell’intelligenza ci consegnerà il frutto di un meticoloso, silenzioso, rigoroso lavoro di ricerca. Finalmente. Come annunciato dal ministro della salute Roberto Speranza, partirà anche in Italia, come in tutta Europa, la campagna vaccinale: probabilmente iniziando dalle forze dell’ordine, gli operatori sanitari, il personale dei servizi di pubblica utilità - scuole, trasporto pubblico – i detenuti, gli anziani più vulnerabili.

Lascio risuonare quella Parola:
“Ai poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore”. 

Beh, un po’ vero dev’essere, per forza.
Per certo, dipende anche da me, e da te. 
Da ciascuno.

Mia mamma me lo ripete sempre: “Il giorno più bello della mia vita? Quando abbiamo visto arrivare i carri armati degli americani, per strada, quel giorno d’aprile, e abbiamo capito che la guerra era finalmente finita. Sembravamo matti, di felicità”.

Giusto tra una settimana è il 25 dicembre.
Allora Buon Natale, a tutti!

​https://www.youtube.com/watch?v=yN4Uu0OlmTg&has_verified=1&bpctr=1608289338


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OPLA'

10/12/2020

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In quegli anni, i riccioli li portavamo tutti. Persino i fan di Renato Zero. Ricordo il mio compagno migliore sui banchi dell’università: Marco, da Crema. Baricentro basso, movenze felpate anche quando guadagnava il miglior posto in coda, alla mensa. Ne era letteralmente il sosia. Ma non di renato Zero.

Monte Berico. Più in basso, lo stadio Menti. Ci gioca il Lanerossi Vicenza. Lo vedevi spiccare, sulla sinistra, quando arrivavi da Padova, nel punto in cui la statale penetra dentro il centro storico.

Più che agli efferati delitti della banda Ludwig (due benestanti rampolli dell’alta borghesia veronese che nel luglio 1982, giusto l’anno del “Mundial”, massacrarono due frati a colpi di martellate, mentre passeggiavano al fresco della brezza serale estiva) la memoria mi conduce a quel settembre, la pianola sotto le dita e un migliaio di ragazzi davanti.
Più in basso, lo stadio Menti.

Don Remigio mi aveva convocato, come sempre, e a quei raduni diocesani, regionali e nazionali mi trovavo dietro la vecchia Farfisa. Anzi, sopra. Lui a dirigere il coro, io a sostenere i canti con la tastiera antelucana, che dalla casa dei campi scuola a Meida di Fassa, a casa Pio X, fin dentro la pancia del pullman che ci stava conducendo ad Assisi, di chilometri ne aveva macinati probabilmente più di quante note quelle cinque ormai sbilenche ottave ne avessero mai fatto scaturire.

Non ho mai capito a fondo perché avesse scelto me. Forse ero l’unico disponibile, in quel momento. Più semplicemente, una questione di fortuna. Trovarmi là, in quelle occasioni. O una simpatia, non decodificabile alle leggi galileiane, che ti convoca. Punto. E basta.

Come allo stadio Appiani, l’anno prima. La “Festa dell’Accoglienza”.

Certo, suonare nella basilica superiore di Assisi un fascino del tutto particolare lo rappresentò. Ogni successiva volta in cui ci rimetto piede, nel corso degli anni, torno a calpestare quel preciso metro quadro dove poggiava il piedistallo. E mi sembra di rivedere i volti, risentire i brividi dietro la schiena, quei tremori convulsivi nelle dita adolescenti quand’è il momento di dare la nota, e l’attacco.

Momenti di gloria. A volte del tutto inattesi, inaspettati.
Ma che rimangono, indelebili.
Ciascuno ne ha qualcuno, tra le pagine della propria storia.
Chissà anche te, quanti ne potresti raccontare.
Come persone, come famiglie, come nazione.
Come quei goal. Incisi nell’estate. Quella caldissima, del 1982.

No, non l’ho mai ritenuto un fenomeno. Non la potenza devastante di Ruud Gullit, non l’astuzia di Michel Platini, non gli incantesimi maliardi di Maradona.
Pablito sapeva essere l’uomo giusto nel posto giusto. Al momento, giusto.
Fiuto, intuito, opportunismo cinico. Nei panni di un galantuomo, gentile, disponibile. Mai scorretto. Lo smilzo “numero 9” del Lanerossi Vicenza, che guadagna il pallone d’oro.

Ci hai regalato emozioni indelebili. Ci hai inscritti nel posto più alto in alto, campioni del mondo. Per una notte estiva di scorribande folli, a clacson spianati, tuffi nelle vasche, tricolori al vento. Nei riccioli il sudore, misto a lacrime di commozione.

L’uomo che serve, nel momento opportuno.
Nulla più.

Ciao, Pablito.

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TIRARE DI SINISTRO

26/11/2020

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Stava opposta ad ogni legge della fisica. 
Semplicemente impensabile: nessuna equazione pitagorica la poteva prevedere. 
Eppure la mise là. Inchiodata in alto, all’incrocio, sotto la traversa. Tacconi, subìta e consumata l’offesa, giace addosso al palo. Come un ladrone crocifisso, appena deposto al suolo.

Perché è giusto questa, l’esclusiva dei campioni. Anzi, del genio: hai l’intenzione, e la traduci in atto. 
Senza ripensamenti, senza sbavature. L’azione viene liscia, come la pelle di un bambino.

Quello che mille volte tenti di replicare, nella vita.
E nello sport, sia pure dilettante. Una su mille, magari ti riesce.

Come in quella partitella, domenica novembre pomeriggio. Al Marafognà, poco sopra metà campo. Scarto Massimiliano, ventun anni per due metri (aver le leve corte ti avvantaggia, in certe cose). La zolla del terreno me la rimbalza a mezza altezza. Chiudo gli occhi e tiro, a più non posso. La incoccio a collo pieno. 
Rialzo lo sguardo, mentre si sta insaccando; un punto a capo in mezzo al 7. Baccarin, il portiere del mistero, vola come un pipistrello, che per lui è normale. Doveva avere le molle nei tacchetti - sottratte all’officina - e due pistoni nelle gambe. Lo pensavamo tutti, ma quella volta non ci arriva. 
E’ goal! Lo capisco dai gridolini dei sette-otto spettatori, ma ancora non ci credo.

Invece a Diego Armando queste cose risultavano normali. Un gioco di prestigio, la palla che entra in rete, ottantamila cuori in orgasmo sugli spalti.
​Festa, giubilo, oblio d’ogni dolore. Poveracci e intellettuali, scarti umani e belle donne, teneri bimbi e delinquenti. 
Fors’anche qualche algido prelato: gioia, abbracci; sangue sciolto dint’e vene. 

Vincere tutto, e sbagliare molto.
Chi è senza peccato, scagli la prima punizione.

Un figlio dell’Uomo che vince, soffre, muore.
Forse questa la ragione per cui lo si ama, contro ogni ragione.

Mamà, si. 
Ho visto Maradona.

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LA BOTTEGA DEL PAN

4/10/2020

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Sabato mattina, ieri. Nonostante il vento umido e caldo - tutt’altro clima rispetto al cielo scartavetrato di questa squillante luminosissima domenica - una passeggiata in centro al termine di una sessione d’esami, ci sta. Gli studenti son risultati preparati, ciò dà soddisfazione.
 
Le piazze di Padova. Sempre accoglienti, aperte. Vi si muove tanta vita; può anche venire a piovere, ma non ti senti mai sguarnito. Sarà per gli ampi porticati, che sanno sempre dei buoni abbracci della mamma. Ricordi della fanciullezza più ingenua e spensierata, quando da un giretto all’UPIM te ne uscivi radioso (qualche volta) con la fiammante macchinetta della Polistil, tanto agognata quanto combattuta, sottobraccio. Negoziata al prezzo di una discreta quota di “Si, farò il bravo, promesso…”.
 
Mi fermo davanti a un panificio, anzi un forno storico della città. Voglio prendere una torta da portare a casa, in famiglia: ci sono dei buoni motivi per cui festeggiare. Mi metto regolarmente in coda, all’aperto. Mascherina e quant’altro previsto da questo impegnativo e preoccupante periodo di Covid-19. Ho tutto il tempo quindi per soffermarmi a leggere, oltre a quelli delle normative igienico-sanitarie, il cartello affisso:
 
“In oltre 130 anni di storia della nostra famiglia di Fornai, non ci hanno fermato 2 guerre mondiali, 4 crisi economiche, il terrorismo e tutto quanto di negativo ha attraversato il nostro grande paese. Non ci fermerà pertanto nemmeno questa”.
 
Bello, caspita! Lo vedi, la gente veneta? Mica restiamo a piangerci addosso; ci si dà da fare, si riparte, si ricomincia, anche quando avversità e rovesci della sorte pare vogliano schiacciarti.
Le ho conosciute, queste fasi e maree. Anche nella mia famiglia, nella storia di mio padre imprenditore.
Allora rifletto su come ne usciremo, da questa battaglia della pandemia.
 
Penso che anche questi bravi esercenti non avrebbero mai potuto risollevarsi, se la popolazione, la “gente” non si fosse riaffacciata in bottega, soldino alla mano. Perché tu vendi solo se la gente compra. Se può, acquistare. Se può, spendere. Anche per i beni primari. Se c’è lavoro, in sostanza. Per tutti.
 
Penso anche a come da due guerre mondiali ci si è rialzati esattamente ripudiando le ragioni, i motivi, le condizioni che le hanno provocate. I nazionalismi, gli egoismi di parte, la soppressione delle libertà, il delirio dittatoriale, le deportazioni, le bombe, distruzioni, fame, carestia. Anche di queste mi parlava a lungo mio padre, avendole vissute e pagate di persona.
 
Penso che in questa battaglia contemporanea, nella quale a schierarsi sul campo non sono i carrarmati e gli aerei bombardieri, ma i camici bianchi del personale sanitario e gli amministratori con la responsabilità di prescrivere e far osservare le normative di prevenzione al contagio, armi e munizioni si chiamano informazione, e responsabilità.
 
E, purtroppo, non riesco a non riflettere sui dati che certificano la popolazione italiana all’ultimo posto in Europa per capacità di comprensione di un testo scritto. Dati OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ci illustrano questo sconsolante quadretto, purtroppo:
 
“Le competenze di lettura degli adulti italiani sono tra le peggiori al mondo. La percentuale dei 16-65enni italiani con scarse capacità di lettura e comprensione di un testo arriva al 28%, contro una media europea che non supera il 15 per cento. Un'ultima posizione condivisa solamente con gli spagnoli (anche loro intorno al 28%), mentre gli altri Paesi restano tutti al di sotto del 20%, con picchi di eccellenza in Norvegia, Repubblica Ceca e Corea, che si assestano su valori vicini al 10 per cento”.
 
Non mi incoraggiano nemmeno i dati dell’AIE (Associazione Italiana Editori):
Tra i 4 e i 9 anni, legge il 91% dei bambini.
Per quanto riguarda i ragazzi tra i 10 e i 14 anni, la percentuale scende all’88% e tende ad estinguersi man mano che l’età avanza.
Tra i 45 e i 55 anni leggono il 72% degli italiani, per terminare poi con un 23% tra i 65 e i 75 anni.
I dati delineano un quadro inquietante: 6 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro all’anno!
 
“Con la lettura ci si abitua a guardare il mondo con cento occhi, anziché con due soli, e a sentire nella propria testa cento pensieri diversi, anziché uno solo. Si diventa consapevoli di se stessi e degli altri” ha scritto Sebastiano Vassalli.
 
La Svezia è lo Stato europeo con più lettori, il 90% della popolazione ha letto almeno un libro nell’ultimo anno.
In Danimarca la percentuale è l’82%. Rapportato a quel 27,5% del Sud Italia, traspare una netta discrepanza.
Confrontando i dati europei, l’Italia è sconsolatamente agli ultimi posti: soltanto Cipro, Romania, Grecia e Portogallo occupano posizioni più basse. Rientrare nel “Terzo mondo europeo” è svilente, soprattutto quando balzano all’occhio le statistiche dei lettori del Regno Unito (80%), della Germania (79%) e dei Paesi Bassi (86%).
 
Alla luce di ciò, mi chiedo quante persone saprebbero rispondere a domande basilari come queste:
“Lo sai, dal 1924 al 1946, quante volte si è votato, in Italia?”.
“Per cosa si è andati alle urne, nel 1946? Quali sono stati, i risultati? Che quadro dell’Italia ne è uscito?”.
“Li conosci, i nomi di almeno tre padri costituenti?".
“Come sono state sconfitte, le Brigate Rosse?” .“E lo pneumococco?”.
“Quando, e da chi è stato sottoscritto il Protocollo di Kyoto, contro il surriscaldamento globale del pianeta?”.
 
Eppure scriviamo nei social, sentenziamo, giudichiamo, critichiamo… spesso senza la minima cognizione, consapevolezza, conoscenza delle materie, degli argomenti. Lo si definisce anche “analfabetismo funzionale”.
 
Dev’essere davvero squisita, questa torta alla crema-e-frutti-di-bosco. Il profumo che ne promana sa di aromi di montagna, di pino mugo, delle settimane estive, di vacanza e libertà.
Riprendo il porticato, lungo via Boccalerie. Ai passi sul selciato si accompagna adesso una considerazione, che mi gira nella testa. Che questa guerra della pandemia, io, il fornaio e tu, la vinceremo solo assieme. Ancora una volta. Come nel 1946. Come dopo gli anni di piombo del terrorismo, che me li ricordo bene, quelli della mia adolescenza.
Con umiltà, studio, consapevolezza. Con responsabilità condivisa. Che anche se i giovani “muoiono di meno”, a differenza del primo conflitto mondiale, non è che la vita di un anziano, di tuo nonno o genitore, magari segregato in una casa di riposo, valga qualcosa di inferiore.
 
Cammino, e penso che Il vero nemico non sono le popolazioni che migrano, alla ricerca di posti migliori dove vivere, lavorare, riprodursi. Lo abbiamo fatto tutti. E’ una legge darwiniana, prima che demografica, economica e politica. Ogni specie vivente si comporta in questo modo. Migrano gli uccelli, migrano i pesci, migrano gli esseri umani. Da sempre. E sempre così sarà.
Penso che il vero nemico è l’incapacità di gestire questi fenomeni con intelligenza, lungimiranza, coraggio ed accoglienza produttiva. L’illusione di poterli contenere chiudendosi in casa e sbarrando le porte.
 
Penso che Il vero nemico si chiama, ben più di tutto, corruzione. Malaffare, ruberie, clientelismo, interesse di parte, irresponsabilità civica, evasione fiscale, mentalità mafiosa, a vari livelli.
 
Cammino, e penso che il vero nemico si chiama ancora - oggi come sempre - ignoranza, ed egoismo.
 
Oh, ma quanto profuma di buono, questa torta?
 
 
       - se ‘l mare fosse de tocio –

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IL CICLOSTILE ERA UNO STILE

16/9/2020

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L'operazione finale era quella più delicata.
Caricare il foglio matrice sul rullo inchiostrato. Quindi pregare (chi il santo patrono del paese, chi l’anima di Che Guevara, chi lo spirito di Giovanni Gentile) che non si strappasse, e dare i primi giri di manovella. Che quando sono arrivati i modelli col motore elettrico, pareva una pacchia.
 
Il testo lo battevi con la macchina da scrivere (una Olivetti Lettera 32, generalmente) dopo aver alzato con la levetta il nastro rosso/nero, in modo tale che la percussione a martelletto dei caratteri forasse il foglio di riso della matrice, quel tanto necessario al passaggio dell’inchiostro, che poi sul rullo avrebbe impresso i volantini.
 
I volantini, già.
Altro che i post su Facebook!
 
Era di questo, due sere fa, al termine di una serata di presentazione delle liste elettorali, che stavamo discorrendo, con un gruppo di immigrati miei coetanei.
 
Tranqui: siamo uno più pallido dell’altro, e abitiamo - tutti - a Sant’Angelo di Piove da più di cinquant’annI.
“Immigrati” nel senso di digitali. Immigrati digitali.
Si, perché i “nativi digitali” diconsi quelli nati dopo il 1985. La generazione cresciuta nelle tecnologie quali computer, Internet, telefoni cellulari e MP3.
 
Allora; Piero fa:
“Stamattina ero da Dune Mosse..." (il bar che sta in piazza, giusto all’incrocio, ma che nomino così per evitare mal di pancia da pubblicità indebita agli altri esercenti: “Mr.Cat”, ad esempio, o “Bread & Pork”, o “The Pearl”, tanto per non fare nomi) "...e ascolto i discorsi di due ragazze, giovani. Oh, in gamba, eh? Solo che commentavano una cosa scritta nel Baucometro (così il mio coetaneo immigrato chiama Facebook) e… te sentissi che robe!”
 
“Caro mio” gli faccio, “Non ti ricordi quando passavamo le notti a scrivere e stampare i volantini? Più o meno la stessa cosa, solo che i tempi sono cambiati: oggi è tutto più istantaneo, in presa diretta.”
 
“Già, e più superficiale, anche.”
 
Come dargli torto?
Vuoi mettere, il profumo fisico dell’inchiostro, del foglio di carta porosa che – mica come la moderna carta da fotocopiatrice, così liscia cha pare appena uscita dall’estetista – emanava a lungo un aroma di polpastrelli, di artigianato intellettuale che pareva che le idee cui avevi dato forma di frasi, parole, proclami, ancora si animassero e fossero cosa viva, come il tronco di Pinocchio?
 
C’è una funzione, su tutte, che i post su Facebook spesso non ti consentono: la regolazione emotiva. Così la chiamano, quelli che studiano il cervello. Le risposte che scrivi, specialmente. Ti manca il filtro, talvolta.
 
Il filtro. Quello che in quelle fumose (mamma quante Muratti mi son dovuto respirare, io non fumatore) serate dei collettivi, delle assemblee, delle occupazioni, delle congreghe negli anni’70, tutti riuniti attorno a un tavolo o in un cerchio di sedie, quando l’amico (o compagno) ti apostrofava: “Ciò, mona, ma ti rendi conto cosa provochi, se scriviamo questa cosa?” ti costringeva a riflettere, a pensare.
A prender tempo.
Magari esaminare la questione anche da un altro punto di vista.
 
No, non era breve, la strada che conduceva dall’amigdala (la struttura cerebrale della paura e dell’aggressività) al rullo del ciclostile.
 
“Verba volant, scripta manent”; ecco un’altra di quelle frasi che sentivo sui banchi del liceo, nell’ora di latino, mentre fuori dai finestroni le Brigate Rosse rapivano e poi trucidavano vigliaccamente Aldo Moro, si votava il referendum sul divorzio, qualche anno dopo una bomba neofascista uccise 85 persone, tra cui due nostre compaesane.
 
Piero l’altra sera mi chiedeva cosa e chi avrei votato.
Gliel’ho detto, ma soprattutto gli ho comunicato un pensiero che mi sta molto a cuore.
Quindi lo esprimo anche qui: spero che molte persone, il più possibile, tra qualche giorno si rechino alle urne. Indipendentemente dalle scelte di ciascuno.
Perché è importante.
 
E’ importante la scelta di chi eleggere, tra chi si offre ad amministrare la cosa pubblica.
E’ importante perché è una parte del futuro nostro, e dei nostri figli.
E’ importante.
 
E’ importante perché troppa stupidità corrosiva, quella del qualunquismo e del disfattismo, negli ultimi tempi, ha prodotto danni. La cosiddetta “antipolitica”. Quella per cui basta “parlar male”, ad alzo zero, sparando sul gruppo, e trovi facile consenso.
Si chiamano generalizzazioni.
Scorciatoie verso la pattumiera dell’ignoranza.
E i post “usa e getta” su Facebook non aiutano, in questo senso.
 
Cosa voglio dire?
Che affermazioni tipo:
“I politici sono tutti ladri!”; “Mandiamoli a casa!”
hanno il valore (pari a zero) di altre tipo:
“Gli artigiani veneti? Tutti massivi evasori fiscali!“.
“I preti? Tutti pedofili!”.
“I medici? Tutte carogne!”.
“Gli avvocati? Tutti ladri!”.
“I veneti? Tutti poentoni!”
“Gli uomini? Tutti…”;
“Le femmine? Tutte, ma proprio tutte…” e via di questo passo.
Un passo “sbaroxà”, come il cagnetto che ho visto l’altro giorno, pora bestia, arrotato da un ciclista (senza stile).
 
Quando nei primi anni ’90 ho partecipato anch’io a una tornata elettorale, come candidato di lista, il ciclostile aveva da pochi anni tirato le cuoia.
Di Facebook, neanche nei libri di fantascienza.
I dischi in vinile erano ormai giunti al canto del cigno, dietro l’avanzata irresistibile dei CD.
 
Ora leggo nelle riviste specializzate che i vinili, i gloriosi ingombranti LP stan tornando, prepotentemente.
 
Cosa voglio dire, che manca poco al rispolvero pure del ciclostile?
Forse no (chi può dirlo) però mi piacerebbe che, di quegli anni, anche in politica come ho visto ieri sera in un dibattito molto partecipato tra due dei tre candidati sindaci, ci si tornasse a guardare in faccia, anche tra avversari. A dialogare, discutere, contestare. Di persona, ragionando. Ascoltandosi.
 
Non solo tramite qualche schizzo di impulsività tradotto in post su Facebook.
Buon voto a tutti, e vinca il migliore!
 
​
       - stampato in proprio –

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NON DI SOLO PANE

12/8/2020

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Anno 1927, Chicago. 
Siamo alla Western Electric, un colosso dell’ingegneria delle telecomunicazioni. Ci lavorano ventinovemila persone. Vi si producono cavi e apparecchiature telefoniche. 
La psicologia del lavoro si sta consolidando come scienza sperimentale. 
​
Per misurare l’effetto della luce sulla produttività degli operai, vengono costituiti due gruppi: il primo viene sottoposto a variazioni di intensità luminosa, il secondo continua a lavorare sotto una luce costante. I dipendenti vengono informati degli obiettivi delle ricerche, che mirano a far emergere i fattori in grado di contribuire a un maggior livello di soddisfazione dei lavoratori. E, conseguentemente, a una maggiore produttività.

Con l’aumento dell’intensità della luce si nota un miglioramento della produttività. Ma il fatto singolare e del tutto inatteso è che migliora contestualmente anche la produttività del reparto a fianco, che continua a lavorare con un invariato livello di illuminazione, per disporre di un elemento di controllo.

Elton Mayo, lo psicologo di origine australiana incaricato della ricerca, si interroga sulle ragioni dello strano fenomeno.

Prende allora sei operaie, sei giovani ragazze che assemblano relè. Lavorano per quarantotto ore alla settimana, anche il sabato. Non hanno nessuna pausa, e producono in media centoquarantaquattromila relè.
Mayo le mette in un luogo separato dell’azienda, e comincia a studiare quello che fanno. Poi introduce delle variabili, dei cambiamenti, e guarda come va a finire.

All’inizio, Mayo introduce il lavoro a cottimo: più lavori, più guadagni. La produzione aumenta moltissimo.

Poi, introduce due pause, piccole: cinque minuti al mattino, cinque minuti al pomeriggio. Anche qui, la produzione aumenta.

Poi le pause aumentano: diventano dieci minuti. Dieci al mattino, dieci al pomeriggio. La produzione aumenta.

Le pause diventano sei, un ulteriore cambiamento di cinque minuti l’una. In questo caso, la produzione diminuisce. Le ragazze, interrogate, rispondono che perdono il ritmo. Ci sono troppe interruzioni.

Poi, un altro cambiamento: durante la pausa del mattino, nei dieci minuti, viene servito un pasto caldo: offre la ditta. Anche in questo caso, la produzione aumenta.

Un ulteriore cambiamento, per vedere che effetto ha la riduzione dell’orario di lavoro: si lavora mezz’ora di meno ogni giorno. La produzione, anche in questo caso, continua ad aumentare.

Un altro cambiamento: la riduzione di un’altra mezz’ora di lavoro. Quindi si lavora un’ora al meno al giorno. La produzione rimane invariata.

Poi, un cambiamento assolutamente radicale: tutto torna come prima. Quarantott’ore, niente, pause, niente pasto caldo. Niente uscita anticipata dal lavoro. La produzione aumenta moltissimo.

Mayo ci mette un po’ a capire cosa può essere successo. 
Poi, ha l’intuizione: quei sei soggetti di esperimenti, quelle sei ragazze, sono diventate un gruppo. Hanno sperimentato la bellezza, la passione di interessare a qualcuno. A qualcuno che le sta studiando, ma si interessa a loro. E’ l’effetto di “fare meglio”, di essere più produttivi quando qualcuno ha un interesse verso di noi. 

Proviamo a pensare cosa poteva essere la vita di sei ragazze nel 1927, nella periferia di Chicago, e capiamo che se qualcuno dimostra interesse, uno psicologo ci studia, ci osserva, rimane un po’ vicino a noi, qualcosa cambia dentro di noi, ci viene più voglia, più entusiasmo, anche di lavorare di più.

Sono esattamente queste le parole con cui Massimo Cirri, psicologo del lavoro, autore teatrale e conduttore radiofonico descrive il celebre “Effetto Hawthorne” della Western Electric di Chicago.

E tu adesso capisci perché i like su Facebook siano antidepressivi. 
E, al contempo, diano dipendenza. Come le droghe dopaminergiche, tipo la cocaina. 

E perché John Bowlby avesse – ancora una volta – dannatamente ragione, quando sosteneva che il bisogno primario di ogni essere umano è di ricevere attenzioni e cure. 
Di venire “riconosciuto”.


        - too much love will kill you -

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BEPI MATONèA

2/8/2020

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I tasti sono di avorio. 
Mi basta questo, per osservarla con la deferenza che si riserva a una rispettabile signora. Di una certa età. 
Il lignaggio, nella nobiltà, lo si coglie dai particolari. Dai lineamenti del volto, dall'eleganza nelle movenze.  Ogni ruga nel viso, il solco di un amore in gioventù. Qualcuno segreto, altri sicuramente alla luce del sole.

"Tienila tu, te la regalo."
"Sei matto? Perché?"
 "Era di mio padre."
 "A maggior ragione, ne sarai affezionato."
 "Si. Ma la fisarmonica è uno strumento che ha un suono troppo melanconico, per me. Non riesco ad ascoltarla. Troppa tristezza. Troppa malinconia. Tienila tu."


Non aveva tutti i torti. Lo scrive anche il grande Gabriel Garcia Marquez: “Non so cos’abbia di tanto comunicativo la fisarmonica che quando la sentiamo ci si stringe il cuore. Io personalmente, farei innalzare una statua a questo mantice nostalgico, amaramente umano, che tanto ha dell’animale triste”.
 
Per gli amici è sempre stato "Bepi Matonéa". A scuola, il primo della classe.
Per gli strizzacervelli che l'hanno avuto in cura, un caso conclamato di DOCP. Disturbo Ossessivo di Personalità. Che va distinto dal semplice DOC, come leggi nei manuali diagnostici, in quanto più pervasivo. Più stabile. Un vero tratto del carattere, insomma.

Qual'è il problema?
"Tirar de longo", per dirla nel linguaggio della sua terra, quella veneta.
Su tutto. Su tutti. 
Su tutte, specialmente. Tant'è che una donna "buona" per sé, non gli era ancora riuscito di trovarla. O conservarla, più precisamente.
Ci scappava sempre quel piccolo particolare, quel difettuccio trascurabile, ma...
Le ragazze lo mollavano inesorabilmente perché, prima o poi, saltava sempre fuori qualcosa che "veniva prima" di loro. Che era considerato più importante, necessario. Prioritario.

Come vuoi che potesse durare, quindi?

Una Paolo Soprani. Risale probabilmente agli anni '40 del Novecento. Il secolo andato. Di ballate, qualcuna anche un po' jazz, deve averne accompagnate diverse.
è uno strumento bellissimo, la fisarmonica. Completo. Ci esegui la melodia, e l'accompagnamento. Il cantabile, e gli arrangiamenti. Qualcuno ne conserva solamente l’immagine folkloristica, zingaresca.
Invece è come un organo.  Quasi un'orchestra.
Per metà, la suoni come se fossi cieco. La mano sinistra, quella dedicata ai bottoni dei bassi, non la vedi. Non la puoi proprio guardare, rimane nascosta dal mantice. Quei tasti lì, li devi solo "sentire". Riconoscere a memoria. Memoria tattile, e cenestesica. 
Certo, richiede studio, esercizio. Applicazione, continuità. Come tutte le passioni.
A volte pensi che "spontanea" si dica di una cosa che ti viene senza fatica. È vero, ma solo come ultimo anello di una catena che si chiama apprendimento.

Bepi Matonéa. Dovevi sentirlo, nella sua incessante sequela di recriminazioni, scrupoli, dubbi e titubanze, quando partiva. Un disco rotto. Una campana da morto.
Pensa che una volta fece la corte per sei mesi a una ragazza. Dico: sei. Quando finalmente riuscì a farsi dare il numero di telefono, e a ottenere di portarla fuori a cena, all'appuntamento poi non si è nemmeno presentato. Ripensandoci, gli veniva da pensare. A cosa, nemmeno lui sapeva bene.
Però... gli veniva da pensare.

Il problema, in una parola, era il controllo. Che tentava di esercitare su tutto. Sui tutti.
Che poi, da quando aveva scoperto Facebook, il suo "mal di vivere" era assurto a livelli parossistici.
Costantemente appiccicato allo schermo. Ne era diventato letteralmente schiavo. A leggere i commenti della gente, a replicarci di suo, in un'agonica spirale senza fondo nella quale frustrazione, idiozia, luoghi comuni e dipendenza perditempo precipitano l’una addosso all’altra.

Una vita diventata assurda. Una compulsione senza più respiro. Hai presente come se - cose che per fortuna accadono solo nei film, mica nella realtà del ventunesimo secolo - ti capitasse di morire strozzato, mentre tre uomini ti tengono bloccato a terra, ammanettato, e un quarto ti soffoca senza pietà, togliendoti fino all'ultimo soffio d'aria, premendo a tutto peso il suo ginocchio sul tuo collo, dietro un ghigno criminale? Cose da film, per fortuna: mica capitano, nella realtà. 
O di spegnerti lottando allo spasimo delle forze in un letto d'ospedale, mentre i medici attorno a te le provano tutte, soffiandoti nei polmoni, a viva forza, quantità d'ossigeno a ettolitri, nel tentativo di vincerla su di un virus fetente e micidiale, ancor oggi più forte delle terapie clinicamente disponibili?

Ecco, il Disturbo Ossessivo di Personalità è così.
Logorante, pervasivo.  In una parola: asfissiante.
 
Lo sai perché dicono sia uno strumento vivo, la fisarmonica? A differenza di altri, specie quelli moderni che senza alimentazione elettrica sono e rimangono del tutto spenti, freddi, quasi cadaveri?
No, non è solo perché i materiali che la costituiscono sono la prosecuzione di altre esistenze: il legno, l’avorio, oltre all’acciaio delle ance.
 
La fisarmonica vive perché ha un polmone.
Sì, la fisarmonica respira. Lo senti dal soffio. Dal volume del suono.
Quanto e come, lo moduli abbracciandola.
Abbracciandola, si. E tenendola appresso al cuore.
Intensamente, o rallentando; accelerando, o sospendendo la pressione, quasi a farla sussurrare.
In un ininterrotto andirivieni, modulando il ritmo.
Rispettando le pause.
Che, come diceva qualcuno, la musica è solo il suono del silenzio tra una nota e l’altra.
 
Lasciando scorrere la mano sopra i tasti “ciechi”.
Fidandoti, con leggerezza. Li conosci, ti sono familiari.
Che se ti parte il tarlo del controllo, diviene ansia.
 
Come quando ami, per davvero.
Che non cerchi la felicità, “semmai, proteggila”.
 
Fino al termine del tango.
Fino all’ultimo respiro.


        - every breath you take -


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TE LO LEGGO NEGLI OCCHI

12/5/2020

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Estate 1998. Vacanze nel Gargano, Puglia.
Terra sapida, d’aromi fragranti. Spiaggia di Vieste.
Profumi sensuali e frizzanti si spargono nell’aria: dai carnosi limoni, al rosmarino, al lentisco, al fico mediterraneo.
 
Sto leggendo un libro avvincente, sotto l’ombrellone.
Così Carolina, poco più in là.
In mezzo, le due bimbe. Piccine, allora, tutte intente alla costruzione di un castello. Secchiello e palette, in quel silenzio da concentrazione operosa, così desiderato, che i genitori vorrebbero per sempre.
 
Un tempo dilatato, piacevole e libero dagli orologi. Lo stress dell’anno lavorativo l’hai già buttato fuori dalla portiera, al casello autostradale del capoluogo dell’Emilia. Si dirà pur “sbolognato” per qualcosa, o no?
 
Giro lentamente la pagina, uno sguardo al cantiere di sabbia edilizia in movimento lì sotto, vedo solo Sara e le chiedo: “Tua sorella, dov’è?”.
“Mia sorella? Non so… era andata a prendere l’acqua…”.

Lo sguardo si trasforma in raggio di scansione, dentro una frazione laser di secondo. Punto dritto alla riva, cerco un caschetto biondo saltando ininterrottamente da un fotogramma al successivo. Niente.
Convoco qualche passante, mi rivolgo specialmente alle mamme. Per quell’istinto darwiniano che le rende ancestrali custodi della prole. Pressoché infallibili, dicono, nella ricerca.
Invece, nulla.
 
L’apprensione scala rapidamente i gradini dell’angoscia, specie per Carolina. Tasto con i palmi delle mani i centimetri d’acqua appresso e più lontani dalla riva. Sono quegli istanti in cui tutta la vita entra in un cono fattosi sottilissimo, all’estremità.
 
Le domande più terribili inondano i circuiti della mente: qualcuno l’avrà rapita, in questi giorni in cui non si parla che di pedofili? Sarà caduta in qualche fossa insidiosa di questo mare, così scandalosamente azzurro? Una bimba di quattro anni, quanto mai lontano si sarà potuta spingere? Natalia, sei ancora viva?
 
In quei momenti d’adrenalina in overdose, ogni voto, qualunque rinuncia, qualsiasi baratto all’esistenza o promessa all’eternità ti esce a raffica. Con la gravità irreversibile di una promessa sacra.
La ritroveremo, mai più?
Non c’è prezzo, non c’è condizione e cosa che valga più di poter rivedere tua figlia, riprenderla in braccio, stringerla forte, che alcun drago, demone o incidente te la possa mai più sottrarre alla vista.
Nulla.
 
Il corpo umano ha un unico sito in cui il sistema nervoso risulta direttamente esposto. Lo spiega Allan Shore, uno dei maggiori esperti nel campo delle neuroscienze affettive. E’ la retina. Perfino la costrizione e l’espansione della pupilla sono dei regolatori inconsci delle modalità in cui ci relazioniamo agli altri.
Osserva lo sguardo degli innamorati. Rivivili tu stesso, quei momenti di estasi, di fusione simbiotica. E’ l’esperienza dell’”attaccamento sicuro”. In psicologia e psicoterapia, questo concetto ha l’importanza che la teoria della relatività di Einstein ha avuto in fisica. Stiamo riuscendo a dare un nome, una logica e una tracciabilità a fenomeni che in fondo la poesia, la letteratura, l’esperienza stessa del vivere, da sempre conoscono. Quelli dell’amore, e della nevrosi nelle sue multiformi declinazioni. Della salute mentale, e dei disturbi di personalità.
 
Nessuna comunicazione implicita è più intensa del contatto oculare: mamma e bambino iniziano un prolungato gioco faccia-a-faccia e un reciproco scambio di sguardi già a due mesi di vita. Guardare profondamente negli occhi un altro essere umano fa nascere stati gioiosi di arousal (traducilo come “risveglio”, risposta vitale del sistema nervoso) sensibilmente elevato, che si amplificano reciprocamente.
Esattamente come avviene agli innamorati.
 
E’ stato un contatto che ho avvertito al gomito destro. Stavo ancora lì, sulla battigia. Totalmente confuso, smarrito, disorientato. Sono gli effetti del panico. Somatici, cognitivi ed emotivi.
Quanto saranno durati quegli istanti in cui mia figlia, quattro anni, era scomparsa? Minuti, quarti d’ora, cifre temporali di cui mi è impossibile ricostruire la durata. In ogni caso, certamente eterni.
Sì, è stato quel signore che mi aveva preso il braccio all’altezza del gomito. “Venite, hanno trovato una bambina bionda al bar, può darsi sia la vostra”.
 
La corsa, lo sguardo, il pianto liberatorio, l’abbraccio inestricabile.
Una gioia che nessuna parola umana potrà mai contenere.
Quella del pericolo scampato. Del rischio, il peggiore, scongiurato. Della riconnessione.
Della sopravvivenza. Anzi, della rinascita, per dirla tutta e più semplicemente.
 
Per questo, non riesco a non commuovermi profondamente davanti alla scena di un padre che recupera lo sguardo di sua figlia - occhi negli occhi finalmente - dopo un anno e mezzo di sparizione e di mistero. Un anno e mezzo, non un quarto d’ora. Nelle mani di una delle peggiori bande terroristiche del pianeta.
 
Si, non lo nego, anche un po’ di tristezza.
Per la cecità. No, non è quella fisica.
 
Ho un formidabile amico, si chiama Dario Sorgato, e la sa davvero lunga, su questo. E’ fenomenale. Cercalo, anche in Internet e nei Social. Ha fondato e anima instancabilmente “NoisyVision”, un’associazione che si occupa di ipovisione, della Sindrome di Usher. Può raccontarti, e mostrarti, milioni di cose molto interessanti su cosa significhi “guardare oltre i limiti”.
 
La mia tristezza è per la cecità del cuore. Per certi commenti che scorrono nei Social.
Sono pochi, ma fanno chiasso. E’ sempre così: un solo albero, magari marcio, cade fragoroso.
La foresta invece, sana e rigogliosa, cresce lenta, paziente e silenziosa.
 
La mia vena di tristezza è perché so perfettamente che certe cose, guardandosi negli occhi, non uscirebbero mai dalla bocca di un uomo ragionevole. Quando con una persona ci parli e l’ascolti faccia a faccia, tantopiù come capita a me in uno studio o ambulatorio di psicoterapia, ti rendi conto di come anche la “belva” più ottusa e aggressiva celi inevitabilmente una tigre di cartapesta. Che porta dentro molto spesso abissi di insicurezze, paure, sovrastrutture fragili come ossa corrose dall’osteoporosi.
 
E invece il ritrovarsi soli, davanti allo schermo dello smartphone con una tastiera a disposizione, ti acceca lo sguardo. Ti illude con una falsa onnipotenza, che si squaglia presto come nevischio al sole. Dimentichi perfino chi e quanti quelle cose le leggeranno, e cosa penseranno, alla fine, di te, di ciò che lasci scritto.
 
Senza due occhi che rispondono al tuo sguardo, rimangono solo i tuoi fantasmi, a possederti.
Come nei test proiettivi, tipo le macchie di inchiostro, il reattivo di Hermann Rorschach, hai presente? Ognuno ci vede (ci “proietta”) i mostri, le paure, i desideri e le frustrazioni che porta dentro sé, inconsciamente. Prendono forma e corpo in una forma astratta spiaccicata su di un foglio. 
Così i fatti, le storie, le persone che guardi e giudichi solo attraverso lo schermo del tuo telefonino o del computer: sono i tuoi, di Godzilla, persecutori e nemici immaginari. E’ da loro, che ti stai difendendo.
 
E allora questo mio sguardo, adesso, voglio usarlo bene, fino in fondo.
Così osservo il filo di amarezza tramutarsi in compassione.
Dentro me, progressivamente.
“Mindsight” la chiama Dan Siegel, il grande padre della neurobiologia interpersonale.
 
E avverto una gioia interiore, questa sì, svettare infinitamente più alta, e forte.
L’ho sperimentata.
La conosco.
 
Quella per una figlia, perduta e ritrovata.
 

          - georgia on my mind -

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ESENTE FATTURA

30/4/2020

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Qualche anno fa ho ricevuto in studio una signora, mamma di un ragazzo di 16 anni. Un caso come tanti, un adolescente comune, scapestrato al punto giusto.
Vabbè, forse un po’ sopra la media, lo ammetto.
E’ che quando scattano i processi di identificazione, cioè nel momento in cui in quel personaggio rivedi te stesso proprio com’eri a quell’età, le birbantate e i piccoli grandi sconquassi che hai prodotto per strada e in famiglia, l’attenzione si fa volentieri selettiva: scatta un’automatica simpatia.
 
Qualche incidente, motorini sfasciati, ossa rotte, gambe ingessate e giorni d’ospedale. Genitori che non sanno più che pesci prendere. Convocazioni di zii e autorevoli personaggi - dal medico di famiglia al parroco del paese - nel disperato tentativo si avveri un taumaturgico cambiamento. Più che altro, una vera e propria miracolosa conversione.
Oh, tieni conto che lo stesso San Paolo, già Saulo di Tarso, ‘sta cosa della conversione gli era capitata proprio capottandosi per strada (questa almeno era l’argomentazione che personalmente infilavo nelle mie arringhe difensive).
 
Aggiungiamo, nel caso di Loris - chiamiamolo così - l’essersi “impiantato” con la scuola. Ah, in quanti corridoi scolastici risuonerà per i secoli eterni la mitica frase “è intelligente, ma non si impegna” recitata come le giaculatorie, nei ricevimenti genitori? In tutti, praticamente.
 
La questione che aveva spinto questa mamma fino allo studio dello psicologo era l’ultimo anello di una catena che l’aveva vista peregrinare da quello del medico di famiglia, al pediatra, al parroco (immancabile, a quell’epoca), fino alla cartomante. Era qui, che la mamma di Loris aveva ricevuto la fatale diagnosi: “Signora, non vorrei dirglielo, ma le carte parlano chiaro: suo figlio entro l’anno morirà”.
 
Mettetevi per un attimo seduti al posto di questa donna. Sentite i brividi dietro e lungo la schiena. La secchezza delle fauci, inaridite dal blocco della salivazione. Prova a fermare le palpitazioni del cuore, questa tachicardia parossistica che si è fatta incontrollabile, se ci riesci. 
A quel punto, quando il panico si è impossessato totalmente di ogni funzione razionale, di qualsiasi capacità di discernimento, la consumata fattucchiera cala l’asso (e cosa, sennò?): “Io, però, cara signora, posso provare a far qualcosa. A salvarlo, suo figlio”.
Ovviamente non a titolo di volontariato, va detto, bensì a un costo che in quegli anni - si pagava ancora in lire - prevedeva qualche sudato milioncino.
 
A questo punto, il cerchio è perfettamente chiuso. La preda è nella rete. Quale genitore, disperato e sconfitto in ogni altro tentativo di cura, speso qualsiasi sforzo educativo e di recupero, non pagherebbe l’impossibile pur di veder salva la vita del proprio unico figlio?
Pensaci bene: comunque vada, sarà un successo.
Per la cartomante, beninteso.
 
Il ragazzo muore?
Purtroppo, capita, anche a un certo numero di ragazzi giovani, ogni anno.
“Lo vedi, che aveva ragione? Mica aveva detto che era certa, la salvezza; ha detto che poteva provare, a salvarlo”.
 
Il ragazzo non muore?
E a chi mai attribuiremo il merito, dopo tutti quei soldi spesi, versati per le “cure” della fattucchiera?
 
Una strategia comunicativa che contiene sia la tecnica del “doppio legame” che la “profezia che si autoadempie”, per dirla nel linguaggio psicologico. Tu chiamalo più semplicemente sciacallaggio, e fai bene.
Quando ti arriva una persona in stato di panico, o addirittura sei tu che glielo induci disseminando il campo di paure, ipotesi di pericoli, invasori e minacce sparse, l’hai praticamente in pugno. E’ già dipendente, nei tuoi confronti. Certo, l’hai capito: nel mondo della politica, qualche squallido praticante del genere ce l’abbiamo tutti i giorni sotto lo sguardo. Purtroppo.
 
Ah: te l’assicuro: Loris, che adesso ha più di quarant’anni, è vivo e vegeto. E’ scampato sia alla morte, che alle grinfie della cartomante. Oggi ha pure due figli, in età di scuola primaria. (Lo so che stai già sogghignando al pensiero: aspetta che abbiano sedici anni, e poi mi dirai…).
 
Vabbè, saltiamo a piè pari oltre il tuo moto di cinismo da contrappasso, e lascia che provi a spiegarti cosa ha prodotto la “svolta”, in questa storia.
 
Da un lato la crescita, la maturazione della personalità del ragazzo. Le neuroscienze ci hanno fatto scoprire come la corteccia prefrontale, l’area del cervello deputata alla cosiddetta “regolazione emotiva” tra cui il controllo dell’impulsività, si completa mediamente attorno ai 23 anni, nei maschi.
 
Per Loris è stato molto produttivo anche imparare a “dare un nome” alle proprie emozioni, indicatori infallibili dei bisogni. A diventarne consapevole. Un lavoro che Peter Fonagy, psicanalista e ricercatore ungherese, ha definito “mentalizzazione”.
 
Tutto ciò sarebbe stato scarsamente utile, tuttavia, se anche la mamma non avesse compiuto un passo indietro. Non si fosse cioè resa conto che questo figlio - unico - lo stava soffocando con troppe aspettative. Era sempre andata così, sin da piccolo. Su Loris aveva riversato tutto il desiderio di riscatto da un’infanzia (la propria) povera di opportunità. Povera di libertà.
Loris non era più, dall’età delle scuole medie oramai, il bambino tutto-bravo-tutto-bello-gioia-della-mamma. Stava rivendicando, sia pure in modo estremo attraverso anche le condotte a rischio, il suo doveroso diritto alle dimissioni dall’infanzia. La sua sana voglia di autonomia, indipendenza, individuazione.
 
Un lavoro costoso?
Si, certo. Ma non per il portafoglio.
Per l’attaccamento morboso e compensativo, questo sì.
 
Vuoi che ti dica quando questa mamma l’ha davvero compreso?
In seguito all’ennesimo incidente in moto, nel momento in cui è stata davvero a un passo dal “perderlo”, questo figlio.
 
E’ lì, che, finalmente, l’ha “lasciato andare”.
 
Lo vedi, che talvolta i “capottamenti” portano davvero alle conversioni?
 
 
                 - salagadula megicabula bibbidi bobbidi bu -


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    Noneto Circin

    La parola, il suono, l’immagine, sono l’oggetto dei miei interessi nel tempo libero. 
    A volte, tentano di diventare voce. 
    Nella scrittura, nella musica, nella fotografia. 
    Per passione, per divertimento.
    Insomma, per una delle cose più serie nella vita: il gioco. 
    Tramite i tasti di un pianoforte, una penna che scorre veloce, le lenti di un vecchio obiettivo. 

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