ALTAVIA NUMERO UNO
La stazione di Cortina d'Ampezzo è rimasta uguale. Il porticato di legno, specialmente. O, almeno, così si è fissata nel mio ricordo.
Da lì la partenza con l'autobus, direzione Lago di Braies.
È l'estate del 1982. Il 6 luglio, per la precisione. Giusto il giorno dopo in cui l’Italia – clamorosamente – batte il Brasile delle divinità pedatorie chiamate Zico, Falcao e Socrates, nei quarti di finale del campionato del mondo di calcio, in Spagna. La “tragedia del Sarriá”, come intitolarono i giornali verdeoro, dal nome del nefasto stadio di Barcellona ove si consumò l’eliminazione dal “Mundial” della loro favoritissima nazionale.
Adriano, che per ragioni di privacy chiameremo Adry (mi raccomando, non ditelo a nessuno qual'è il suo vero nome) non era stato, alla fine, della compagnia. Sua madre non aveva concesso il nulla-osta. Era bastata un'occhiata, dall'alto al basso (tutti marcantoni in quella famiglia) agli altri due della squadra: a me, che ne ero responsabile, e a Federico, che per ragioni di privacy chiameremo Fedez (mi raccomando, anche qua: non svelatelo a nessuno, il suo vero nome).
La mamma di Adry è donna algida, solenne. Severa: nel significato nobile, latino, del termine.
Il lago di Braies. Ci voleva Terence Hill, per far conoscere al mondo quest’angolo di paradiso. Ora è diventata una “location” angelicata, per ambientazioni cinematografiche di irresistibile successo. Allora, era più semplicemente l’incantevole punto di partenza dell’Altavia n. 1 delle Dolomiti, che termina a Belluno.
Venti chili di zaino sulle spalle non son roba di poco conto, ma equivalendo agli anni a quell’epoca registrati all’anagrafe - più o meno - non li avverti più di tanto. A quell’età le gambe sono stantuffi di locomotiva, i polmoni hanno volumi da mongolfiera. Tantopiù se dalle radioline - qua e là lungo il percorso - di qualche incorreggibile tifoso, o la sera nei rifugi, arriva voce delle gesta calcistiche di una nazionale italiana partita perdente, e che adesso, gara dopo gara, si sta avviando alla finale.
E’ più o meno dopo la tappa che ci vide pernottare al rifugio Palmieri, sotto la Croda da Lago, dirimpetto al Becco di Mezzodì, il giorno della semifinale. La disfida con la Polonia. Sarà l’apoteosi di Paolo Rossi, il centravanti che avevo sempre ritenuto improbabile. Più un uomo baciato dalla fortuna, che un vero bomber. D’altronde, farsi trovare al posto giusto nel momento opportuno, pronto a sospingere la palla in rete, anche questa è un’abilità.
Nel’era del “lavoro flessibile”, in cui la partita IVA diviene per molti una necessità più che una virtù, quasi una condizione imprescindibile.
Ecco, questo il tema: cos’è cambiato, quarant’anni dopo, sul fronte della speranza?
Ora che le grandi ideologie sono evaporate, che “il lavoro non è più per tutta la vita”, che i legami di coppia e familiari si sono fatti evanescenti come neve al sole; in cosa crede, per cosa lotta (che termine obsoleto…) che prospettive di futuro prefigura, un ragazzo nato nell’anno 2000, o giù di lì?
Paolo Rossi, l’opportunista. Dopo i tre goals rifilati al Brasile, realizza pure la doppietta che ci porterà in finale, affondando la nazionale polacca per l’occasione orfana (lo vedi?) del suo uomo migliore: Zibì Boniek, la temibile ala sinistra veloce, scardinatrice, esplosiva. Per questa partita, squalificato.
Percorrere un’altavia significa sudare molto, bere altrettanto e avere tanto tempo per pensare. Dialogare, pure. Specie nei falsopiani, che per le salite meglio tenere semmai qualche imprecazione, se proprio di fiato te ne avanza.
Ripenso oggi, a quelle chiacchierate alpine con Fedez. A quegli anni, appena fuori dal piombo del terrorismo rosso e nero, seppur non già del tutto. I sociologi parlavano di “riflusso” (nel privato, sottinteso). Tramontati i tempi dei collettivi, delle assemblee per ogni dove, dei cortei e delle piazze tracimanti cartelloni di protesta, si affacciavano nuovi stili di comportamento, specie nelle fasce giovanili. Le discoteche, e l’emblematico John Travolta de “La febbre del sabato sera” i nuovi templi e sacerdoti.
Si, certo, di ragazze, storie più o meno plausibili, musica, successi & fallimenti ne abbiamo presi in esame parecchi, lungo i sentieri e quel ghiaione (tremendo: tre passi in salita e due che scivolavi giù) sul Monte Pelmo. Discorsi sull’anarchia, sulla Democrazia Cristiana e l’uccisione di Aldo Moro, le Brigate Rosse e quel gran genio di Frank Zappa; le baruffe su Elton John, che lui degradava al ruolo di marionetta commerciale, io invece tenevo in altra considerazione, dato tutto lo sforzo che mi costava imitare i suoi arpeggi lungo i tasti del pianoforte.
Oggi, mi è inevitabile paragonare quegli ideali, quelle speranze, con i contemporanei, nell’anno duemilaventi.
Qualcosa mi perplime. Più di qualcosa, in verità. Mi chiedo come sia stato possibile che la scienza medica, ad esempio, da inappellabile fonte di sicurezza e cura si sia trasformata, per alcune frange di popolazione astiosa, in un nemico da combattere. Come abbiano potuto prender piede filoni di pensiero irrazionale e paranoide tipo il terrapiattismo, l’antivaccinismo ideologico e pregiudiziale, il complottismo elevato a standard di giudizio, il benantrismo come unico criterio cognitivo. Il benantrismo: come se nel cervello disponessimo solo di un mono-neurone, per cui se passa un concetto, l’altro deve rimanere escluso. Esempio: “Il razzismo è un problema? Ben altri sono i problemi: la gente non ha lavoro. La gente non ha lavoro? Ben altri sono i problemi: l’economia è marcia. L’economia è marcia? Ben altri sono i problemi: pensa al razzismo. E i marò? E Bill Gates?”.
E dire che basterebbe attivarne due – dico solo due – di neuroni per constatare che si riesce a pensare – contemporaneamente, udite udite – a due concetti in simultanea! Senza che l’uno mandi in corto circuito l’altro!
Mi chiedo davvero se vent’anni di tv commerciale, di superficiali pseudo-talent-show musicali buoni solo a tritare come polpette i giovani musicisti e cantanti che vi partecipano - collocati da un effimero successo a un istantaneo dimenticatoio - e poi il dilagare dei social come vetrina dell’ignoranza intesa nel significato etimologico, di “non-conoscenza” e della suggestionabilità eretta a sistema, non siano parte in causa in questa trista mutazione sociale e culturale.
E le illusorie promesse di manager di carta. Buoni solo ad avviare imprese-bolle-di-sapone camuffate a volte sotto l’etichetta di “start-up”. O la trappola tesa da certi politicanti, che imboniscono elettori presentando come “canali privilegiati” grazie alle loro “amicizie & frequentazioni” dei favori che – più semplicemente – sono diritti assicurati al cittadino dalla legge. Diritti già sanciti e assicurati, nulla più. E poi te li ritrovi, gli uni e gli altri, iscritti nei registri dei tribunali, dietro le sbarre di qualche gattabuia, bolle speculative o coinvolti in epocali fallimenti commerciali.
E’ vero, d’altronde: la tecnologia, la globalizzazione, lo sviluppo delle telecomunicazioni non ha reso più felici gli uomini. Ha rovinato – probabilmente in maniera irreversibile – il nostro pianeta Terra, per converso.
Ma a noi umani risulta più difficile credere sia colpa nostra. Che tocchi a noi modificare stili di vita, rinunciare a certe “facilities”, fare penitenza e cambiare abitudini. Più comodo (quindi facile) dare la colpa ai “poteri forti”. Ecco la virata paranoide: la causa va attribuita agli scienziati, alla cultura, alle élites, e via di questo passo. Dopo aver promesso tutto, hanno rovinato tutto. E’ un modo ostile di sperare, così lo descrive Pietropolli Charmet, uno dei padri nobili della psichiatria in Italia: “forse nasce dall’illusione di potersi imporre al destino con la forza, e di realizzare il desiderio con modalità furiose, impetuose, villane. Senza le buone maniere dei cicisbei dei palazzi e degli intellettuali”.
Si, Paolo Rossi avrà pure asfaltato la Polonia, ma io e Fedez, giunti a malga Pioda, avevamo ormai terminato le poche lire portate appresso. E la cioccolata. Non v’era scampo: altre notti in rifugio, no-se-puede-più.
Era tempo di scendere. Di ripiegare verso Avoscan di San Tomaso agordino, dove avevamo parcheggiato la mitica A112.
S’è fatta praticamente sera, oramai, quando raggiungiamo Alleghe.
Fuori il pollice, sul lungolago, non rimane che l’autostop.
Si fermano due tedesche, non si capiva bene fossero più lunghe le gambe o le trecce, biondissime. In canottiera e short, evidentemente appena scese da qualche parete, visti i cinquanta metri di corda da arrampicata che emergevano dal bagagliaio della wagon.
“Do You speak English?” fa quella alla guida.
“Ya!” risponde - quasi come Mennea allo scatto dei cento metri piani - Fedez.
Su quest’ultima inquadratura scelgo di chiudere il racconto.
Certe speranze e congiunture non sono poi così mutate, neppure quarant’anni dopo.
E Adry fece proprio male, a rimanere a casa.
- we are the champions -
Da lì la partenza con l'autobus, direzione Lago di Braies.
È l'estate del 1982. Il 6 luglio, per la precisione. Giusto il giorno dopo in cui l’Italia – clamorosamente – batte il Brasile delle divinità pedatorie chiamate Zico, Falcao e Socrates, nei quarti di finale del campionato del mondo di calcio, in Spagna. La “tragedia del Sarriá”, come intitolarono i giornali verdeoro, dal nome del nefasto stadio di Barcellona ove si consumò l’eliminazione dal “Mundial” della loro favoritissima nazionale.
Adriano, che per ragioni di privacy chiameremo Adry (mi raccomando, non ditelo a nessuno qual'è il suo vero nome) non era stato, alla fine, della compagnia. Sua madre non aveva concesso il nulla-osta. Era bastata un'occhiata, dall'alto al basso (tutti marcantoni in quella famiglia) agli altri due della squadra: a me, che ne ero responsabile, e a Federico, che per ragioni di privacy chiameremo Fedez (mi raccomando, anche qua: non svelatelo a nessuno, il suo vero nome).
La mamma di Adry è donna algida, solenne. Severa: nel significato nobile, latino, del termine.
Il lago di Braies. Ci voleva Terence Hill, per far conoscere al mondo quest’angolo di paradiso. Ora è diventata una “location” angelicata, per ambientazioni cinematografiche di irresistibile successo. Allora, era più semplicemente l’incantevole punto di partenza dell’Altavia n. 1 delle Dolomiti, che termina a Belluno.
Venti chili di zaino sulle spalle non son roba di poco conto, ma equivalendo agli anni a quell’epoca registrati all’anagrafe - più o meno - non li avverti più di tanto. A quell’età le gambe sono stantuffi di locomotiva, i polmoni hanno volumi da mongolfiera. Tantopiù se dalle radioline - qua e là lungo il percorso - di qualche incorreggibile tifoso, o la sera nei rifugi, arriva voce delle gesta calcistiche di una nazionale italiana partita perdente, e che adesso, gara dopo gara, si sta avviando alla finale.
E’ più o meno dopo la tappa che ci vide pernottare al rifugio Palmieri, sotto la Croda da Lago, dirimpetto al Becco di Mezzodì, il giorno della semifinale. La disfida con la Polonia. Sarà l’apoteosi di Paolo Rossi, il centravanti che avevo sempre ritenuto improbabile. Più un uomo baciato dalla fortuna, che un vero bomber. D’altronde, farsi trovare al posto giusto nel momento opportuno, pronto a sospingere la palla in rete, anche questa è un’abilità.
Nel’era del “lavoro flessibile”, in cui la partita IVA diviene per molti una necessità più che una virtù, quasi una condizione imprescindibile.
Ecco, questo il tema: cos’è cambiato, quarant’anni dopo, sul fronte della speranza?
Ora che le grandi ideologie sono evaporate, che “il lavoro non è più per tutta la vita”, che i legami di coppia e familiari si sono fatti evanescenti come neve al sole; in cosa crede, per cosa lotta (che termine obsoleto…) che prospettive di futuro prefigura, un ragazzo nato nell’anno 2000, o giù di lì?
Paolo Rossi, l’opportunista. Dopo i tre goals rifilati al Brasile, realizza pure la doppietta che ci porterà in finale, affondando la nazionale polacca per l’occasione orfana (lo vedi?) del suo uomo migliore: Zibì Boniek, la temibile ala sinistra veloce, scardinatrice, esplosiva. Per questa partita, squalificato.
Percorrere un’altavia significa sudare molto, bere altrettanto e avere tanto tempo per pensare. Dialogare, pure. Specie nei falsopiani, che per le salite meglio tenere semmai qualche imprecazione, se proprio di fiato te ne avanza.
Ripenso oggi, a quelle chiacchierate alpine con Fedez. A quegli anni, appena fuori dal piombo del terrorismo rosso e nero, seppur non già del tutto. I sociologi parlavano di “riflusso” (nel privato, sottinteso). Tramontati i tempi dei collettivi, delle assemblee per ogni dove, dei cortei e delle piazze tracimanti cartelloni di protesta, si affacciavano nuovi stili di comportamento, specie nelle fasce giovanili. Le discoteche, e l’emblematico John Travolta de “La febbre del sabato sera” i nuovi templi e sacerdoti.
Si, certo, di ragazze, storie più o meno plausibili, musica, successi & fallimenti ne abbiamo presi in esame parecchi, lungo i sentieri e quel ghiaione (tremendo: tre passi in salita e due che scivolavi giù) sul Monte Pelmo. Discorsi sull’anarchia, sulla Democrazia Cristiana e l’uccisione di Aldo Moro, le Brigate Rosse e quel gran genio di Frank Zappa; le baruffe su Elton John, che lui degradava al ruolo di marionetta commerciale, io invece tenevo in altra considerazione, dato tutto lo sforzo che mi costava imitare i suoi arpeggi lungo i tasti del pianoforte.
Oggi, mi è inevitabile paragonare quegli ideali, quelle speranze, con i contemporanei, nell’anno duemilaventi.
Qualcosa mi perplime. Più di qualcosa, in verità. Mi chiedo come sia stato possibile che la scienza medica, ad esempio, da inappellabile fonte di sicurezza e cura si sia trasformata, per alcune frange di popolazione astiosa, in un nemico da combattere. Come abbiano potuto prender piede filoni di pensiero irrazionale e paranoide tipo il terrapiattismo, l’antivaccinismo ideologico e pregiudiziale, il complottismo elevato a standard di giudizio, il benantrismo come unico criterio cognitivo. Il benantrismo: come se nel cervello disponessimo solo di un mono-neurone, per cui se passa un concetto, l’altro deve rimanere escluso. Esempio: “Il razzismo è un problema? Ben altri sono i problemi: la gente non ha lavoro. La gente non ha lavoro? Ben altri sono i problemi: l’economia è marcia. L’economia è marcia? Ben altri sono i problemi: pensa al razzismo. E i marò? E Bill Gates?”.
E dire che basterebbe attivarne due – dico solo due – di neuroni per constatare che si riesce a pensare – contemporaneamente, udite udite – a due concetti in simultanea! Senza che l’uno mandi in corto circuito l’altro!
Mi chiedo davvero se vent’anni di tv commerciale, di superficiali pseudo-talent-show musicali buoni solo a tritare come polpette i giovani musicisti e cantanti che vi partecipano - collocati da un effimero successo a un istantaneo dimenticatoio - e poi il dilagare dei social come vetrina dell’ignoranza intesa nel significato etimologico, di “non-conoscenza” e della suggestionabilità eretta a sistema, non siano parte in causa in questa trista mutazione sociale e culturale.
E le illusorie promesse di manager di carta. Buoni solo ad avviare imprese-bolle-di-sapone camuffate a volte sotto l’etichetta di “start-up”. O la trappola tesa da certi politicanti, che imboniscono elettori presentando come “canali privilegiati” grazie alle loro “amicizie & frequentazioni” dei favori che – più semplicemente – sono diritti assicurati al cittadino dalla legge. Diritti già sanciti e assicurati, nulla più. E poi te li ritrovi, gli uni e gli altri, iscritti nei registri dei tribunali, dietro le sbarre di qualche gattabuia, bolle speculative o coinvolti in epocali fallimenti commerciali.
E’ vero, d’altronde: la tecnologia, la globalizzazione, lo sviluppo delle telecomunicazioni non ha reso più felici gli uomini. Ha rovinato – probabilmente in maniera irreversibile – il nostro pianeta Terra, per converso.
Ma a noi umani risulta più difficile credere sia colpa nostra. Che tocchi a noi modificare stili di vita, rinunciare a certe “facilities”, fare penitenza e cambiare abitudini. Più comodo (quindi facile) dare la colpa ai “poteri forti”. Ecco la virata paranoide: la causa va attribuita agli scienziati, alla cultura, alle élites, e via di questo passo. Dopo aver promesso tutto, hanno rovinato tutto. E’ un modo ostile di sperare, così lo descrive Pietropolli Charmet, uno dei padri nobili della psichiatria in Italia: “forse nasce dall’illusione di potersi imporre al destino con la forza, e di realizzare il desiderio con modalità furiose, impetuose, villane. Senza le buone maniere dei cicisbei dei palazzi e degli intellettuali”.
Si, Paolo Rossi avrà pure asfaltato la Polonia, ma io e Fedez, giunti a malga Pioda, avevamo ormai terminato le poche lire portate appresso. E la cioccolata. Non v’era scampo: altre notti in rifugio, no-se-puede-più.
Era tempo di scendere. Di ripiegare verso Avoscan di San Tomaso agordino, dove avevamo parcheggiato la mitica A112.
S’è fatta praticamente sera, oramai, quando raggiungiamo Alleghe.
Fuori il pollice, sul lungolago, non rimane che l’autostop.
Si fermano due tedesche, non si capiva bene fossero più lunghe le gambe o le trecce, biondissime. In canottiera e short, evidentemente appena scese da qualche parete, visti i cinquanta metri di corda da arrampicata che emergevano dal bagagliaio della wagon.
“Do You speak English?” fa quella alla guida.
“Ya!” risponde - quasi come Mennea allo scatto dei cento metri piani - Fedez.
Su quest’ultima inquadratura scelgo di chiudere il racconto.
Certe speranze e congiunture non sono poi così mutate, neppure quarant’anni dopo.
E Adry fece proprio male, a rimanere a casa.
- we are the champions -