IL DOLORE DEGLI ALTRI

Quando le finestre, il tavolo e il lampadario si misero a tremare, eravamo tutti seduti a cerchio. In una stanza al primo piano, sopra il bel chiostro delle Grazie, a Piove di Sacco. Le sette e mezza di sera, che a novembre fa buio presto, giusto l’ora di mangiar qualcosa.
Al mio fianco - rivedo ancora i suoi occhi strabuzzati - stava Emanuele Santiglia.
Erano i tempi della parrocchia; veniamo in tanti da quei gruppi associativi, dalle esperienze nel volontariato.
Il terremoto avevamo imparato a riconoscerlo quattro anni prima, una sera di tarda primavera, che emava già quasi i profumi dell’estate. O forse, a sedici anni, basta solo la ragazza che hai vicino, a fornire aroma ad ogni cosa. Sapori di balsamo a quei giorni in cui - più di tutto - annusi solo sogni di futuro.
Il camioncino della frutta era quello dell’amico Pittarello, dal quale si stava scaricando gli strumenti.
I New Trolls suonavano “Concerto Grosso”, le Orme cantavano “Sguardo Verso Il Cielo”; noi li chiamavamo “recital”, a modo nostro.
Lo sguardo al cielo - quello infuocato dalle fiamme del petrolchimico di Marghera - siamo corsi davvero a rivolgerlo, di corsa e subito. Dall’argine di Sandon, saltando sul cassonetto aperto del furgoncino, che allora si poteva.
Si poteva quasi tutto, a quell’età.
No Internet, no televideo, no chat di whatsapp. Che si fosse trattato di uno degli eventi sismici più terrificanti della seconda metà del Novecento in Italia, ce lo dissero dopo i nostri genitori, rientrando a casa, incollati ai telegiornali, edizione straordinaria.
Adesso i miei anni erano venti, e non della caparbia terra friulana si trattava, bensì del conteso e tormentato territorio d’Irpina. Il camioncino che mi stava ora trasportando, assieme agli altri volontari della Caritas, un puzzolente e sgangherato Fiat 1100 grigio.
Modello “T”. Forse come topo, a gas.
No sedili, solo due panche laterali, di legno duro. Le cinture di sicurezza? Fantascienza, le vedevi solo nei film tipo “2001 Odissea nello spazio”.
La foratura della posteriore destra, in autostrada, si risolse probabilmente grazie a Dio, di sicuro grazie ai pochi chilometri all’ora che quella ferraglia fosse in grado di digerire e alle possenti braccia della guidatrice. Di lei il nome non ricordo, ma la stazza di un metro e ottanta, si. E che praticava arti marziali.
Il nome dell’amico al mio fianco, stavolta, era Domenico. Zaggia, di Bertipaglia.
Scorrevano paesini abbarbicati sui cocuzzoli, fuori dal finestrino. Ognuno quasi un piccolo presepio, con le casette e la chiesuola, il campanile. Così diversi dal panorama di pianura, la padana, quello noto e abituale.
A un certo punto i presepi cominciavano ad apparire sbrecciati.
Poi, decisamente, crollati di brutto, e rovinosamente.
Le memorie di una vita ancora calda, quadri appesi alle pareti, foto di famiglia e letti matrimoniali con le lenzuola ancora da rifare barcollanti sopra il vuoto sottostante, ante di armadi sventrati: tutto troppo esposto, troppo nudo. Tutto troppo osceno, alla vista.
Eravamo giunti. Sant’Angelo dei Lombardi. Lioni. Questi i nomi, che ancor oggi conservo nei ricordi.
Così come conservo il container dove si dormiva in quattro, la latrina per i bisogni, il pianto delle donne già dal mattino. L’inarrestabile voglia di correre e giocare, nonostante tutto, dei bambini. La sollecitudine delle insegnanti in quelle scuole da campo, tutti tendoni. Le file degli uomini agli uffici comunali - tutti container - in attesa dei sussidi e dell’assegnazione degli alloggi provvisori. Quel giorno di febbre violenta e inspiegabile, passata nel giro di ventiquattr’ore, a sudare in quella angusta brandina da roulotte, che manco riuscivi a metterti di fianco.
Ricordo i flirt serali delle ragazze con i vigili del fuoco, aitanti e ben disposti, la chitarra attorno al fuoco, e vai di Bennato, Dalla e De Gregori.
La Fiat Campagnola con la quale Domenico raggiungeva i borghi più lontani e disastrati, a portare assistenza sanitaria; gli anziani e i loro proverbi, espressi in un dialetto stretto e incomprensibile. I parenti che abbiamo condotto, all’ospedale di Benevento.
Quel bacetto di addio di quella ragazza, alla ripartenza. Che giudicavo innocente, ma forse così innocente poi non era.
Ma tanto, a quell’età ancora poco ne sapevo.
Si partecipava al dolore.
Si stava.
Si lavorava.
Si ascoltava.
No facebook, no bande della polemica sul “meglio così, meglio colà, e-allora-a-noi-chi-ci-pensa”, no post farlocchi predisposti dai funzionari dei partiti di bassa lega e appiccicati a migliaia, da allocchi, nelle proprie bacheche “social”. No politici-sciacalli buoni solo a comparsate per un “selfie”.
Si stava.
Si lavorava.
Si ascoltava.
Ricordo un presidente della Repubblica, partigiano e antifascista, emblema dei valori democratici. Al giorno d’oggi invocato come l’esempio del politico onesto, retto, indomito e coraggioso. Paradossi della nostalgia: anche da chi strizza l’occhio - o fa finta di non vedere - il rispuntare di pustole di fascismo, alimentate dall’alito populista e nazionalista. Siamo davvero strani e paradossi, giusto cielo: come quando Montanelli scriveva di non riuscire davvero a comprendere come i boss mafiosi - mandanti dei delitti più efferati e disumani - tenessero sul comodino la statuetta della madonna, col rosario attorcigliato ai piedi.
Mi fa sorridere, a volte, l’esclamazione di Trapattoni, il grande allenatore:
“Chi sa fare, fa.
E chi non sa fare,
parla”.
Mi fa sorridere, e riflettere al tempo stesso. Specie quando l’argomento è il dolore, la sofferenza altrui.
Quella sorda, sotterranea. Nascosta, invisibile ai più.
Quella che non trovi via d’uscita, come quando ti manca l’aria per respirare, e non sai davvero verso quale spigolo sbattere la testa.
Che almeno così il dolore così ha un nome, una destinazione. O una soluzione.
A volte si chiamano disturbi post traumatici da stress, altre perdite incolmabili, altre conflitti di coscienza inestricabili.
E quando nulla sembra in grado di “risolvere” alcunché, nessun “fare” si rivela produttivo, allora la cura si chiama stare, ed ascoltare.
“Esserci”, in-one-word.
Perché di terremoti nella vita tutti ne abbiamo avuti, e altri son lì ad attenderci.
Inevitabilmente.
Al mio fianco - rivedo ancora i suoi occhi strabuzzati - stava Emanuele Santiglia.
Erano i tempi della parrocchia; veniamo in tanti da quei gruppi associativi, dalle esperienze nel volontariato.
Il terremoto avevamo imparato a riconoscerlo quattro anni prima, una sera di tarda primavera, che emava già quasi i profumi dell’estate. O forse, a sedici anni, basta solo la ragazza che hai vicino, a fornire aroma ad ogni cosa. Sapori di balsamo a quei giorni in cui - più di tutto - annusi solo sogni di futuro.
Il camioncino della frutta era quello dell’amico Pittarello, dal quale si stava scaricando gli strumenti.
I New Trolls suonavano “Concerto Grosso”, le Orme cantavano “Sguardo Verso Il Cielo”; noi li chiamavamo “recital”, a modo nostro.
Lo sguardo al cielo - quello infuocato dalle fiamme del petrolchimico di Marghera - siamo corsi davvero a rivolgerlo, di corsa e subito. Dall’argine di Sandon, saltando sul cassonetto aperto del furgoncino, che allora si poteva.
Si poteva quasi tutto, a quell’età.
No Internet, no televideo, no chat di whatsapp. Che si fosse trattato di uno degli eventi sismici più terrificanti della seconda metà del Novecento in Italia, ce lo dissero dopo i nostri genitori, rientrando a casa, incollati ai telegiornali, edizione straordinaria.
Adesso i miei anni erano venti, e non della caparbia terra friulana si trattava, bensì del conteso e tormentato territorio d’Irpina. Il camioncino che mi stava ora trasportando, assieme agli altri volontari della Caritas, un puzzolente e sgangherato Fiat 1100 grigio.
Modello “T”. Forse come topo, a gas.
No sedili, solo due panche laterali, di legno duro. Le cinture di sicurezza? Fantascienza, le vedevi solo nei film tipo “2001 Odissea nello spazio”.
La foratura della posteriore destra, in autostrada, si risolse probabilmente grazie a Dio, di sicuro grazie ai pochi chilometri all’ora che quella ferraglia fosse in grado di digerire e alle possenti braccia della guidatrice. Di lei il nome non ricordo, ma la stazza di un metro e ottanta, si. E che praticava arti marziali.
Il nome dell’amico al mio fianco, stavolta, era Domenico. Zaggia, di Bertipaglia.
Scorrevano paesini abbarbicati sui cocuzzoli, fuori dal finestrino. Ognuno quasi un piccolo presepio, con le casette e la chiesuola, il campanile. Così diversi dal panorama di pianura, la padana, quello noto e abituale.
A un certo punto i presepi cominciavano ad apparire sbrecciati.
Poi, decisamente, crollati di brutto, e rovinosamente.
Le memorie di una vita ancora calda, quadri appesi alle pareti, foto di famiglia e letti matrimoniali con le lenzuola ancora da rifare barcollanti sopra il vuoto sottostante, ante di armadi sventrati: tutto troppo esposto, troppo nudo. Tutto troppo osceno, alla vista.
Eravamo giunti. Sant’Angelo dei Lombardi. Lioni. Questi i nomi, che ancor oggi conservo nei ricordi.
Così come conservo il container dove si dormiva in quattro, la latrina per i bisogni, il pianto delle donne già dal mattino. L’inarrestabile voglia di correre e giocare, nonostante tutto, dei bambini. La sollecitudine delle insegnanti in quelle scuole da campo, tutti tendoni. Le file degli uomini agli uffici comunali - tutti container - in attesa dei sussidi e dell’assegnazione degli alloggi provvisori. Quel giorno di febbre violenta e inspiegabile, passata nel giro di ventiquattr’ore, a sudare in quella angusta brandina da roulotte, che manco riuscivi a metterti di fianco.
Ricordo i flirt serali delle ragazze con i vigili del fuoco, aitanti e ben disposti, la chitarra attorno al fuoco, e vai di Bennato, Dalla e De Gregori.
La Fiat Campagnola con la quale Domenico raggiungeva i borghi più lontani e disastrati, a portare assistenza sanitaria; gli anziani e i loro proverbi, espressi in un dialetto stretto e incomprensibile. I parenti che abbiamo condotto, all’ospedale di Benevento.
Quel bacetto di addio di quella ragazza, alla ripartenza. Che giudicavo innocente, ma forse così innocente poi non era.
Ma tanto, a quell’età ancora poco ne sapevo.
Si partecipava al dolore.
Si stava.
Si lavorava.
Si ascoltava.
No facebook, no bande della polemica sul “meglio così, meglio colà, e-allora-a-noi-chi-ci-pensa”, no post farlocchi predisposti dai funzionari dei partiti di bassa lega e appiccicati a migliaia, da allocchi, nelle proprie bacheche “social”. No politici-sciacalli buoni solo a comparsate per un “selfie”.
Si stava.
Si lavorava.
Si ascoltava.
Ricordo un presidente della Repubblica, partigiano e antifascista, emblema dei valori democratici. Al giorno d’oggi invocato come l’esempio del politico onesto, retto, indomito e coraggioso. Paradossi della nostalgia: anche da chi strizza l’occhio - o fa finta di non vedere - il rispuntare di pustole di fascismo, alimentate dall’alito populista e nazionalista. Siamo davvero strani e paradossi, giusto cielo: come quando Montanelli scriveva di non riuscire davvero a comprendere come i boss mafiosi - mandanti dei delitti più efferati e disumani - tenessero sul comodino la statuetta della madonna, col rosario attorcigliato ai piedi.
Mi fa sorridere, a volte, l’esclamazione di Trapattoni, il grande allenatore:
“Chi sa fare, fa.
E chi non sa fare,
parla”.
Mi fa sorridere, e riflettere al tempo stesso. Specie quando l’argomento è il dolore, la sofferenza altrui.
Quella sorda, sotterranea. Nascosta, invisibile ai più.
Quella che non trovi via d’uscita, come quando ti manca l’aria per respirare, e non sai davvero verso quale spigolo sbattere la testa.
Che almeno così il dolore così ha un nome, una destinazione. O una soluzione.
A volte si chiamano disturbi post traumatici da stress, altre perdite incolmabili, altre conflitti di coscienza inestricabili.
E quando nulla sembra in grado di “risolvere” alcunché, nessun “fare” si rivela produttivo, allora la cura si chiama stare, ed ascoltare.
“Esserci”, in-one-word.
Perché di terremoti nella vita tutti ne abbiamo avuti, e altri son lì ad attenderci.
Inevitabilmente.