Che, alla fine, ti ammazza.
E crepano pure loro, assieme a te.
“Mors tua, e anca mia”, alla fine della fiera.
Vabbè, ma io volevo parlare della memoria.
Che domani è un giorno importante.
La memoria. La “capacità di codificare, immagazzinare e recuperare le informazioni”. Così trovi scritto in qualunque manuale di psicologia generale. Generalmente, la si tratta nel primo anno di corso.
Questa la definizione classica. Con il progredire degli studi cognitivisti abbiamo sviluppato la consapevolezza di come la nostra mente sia sempre inevitabilmente radicata in un corpo (embodied mind). In un contesto sociale e relazionale. Abbiamo capito che, più ancora dei fatti e degli eventi in se stessi (cronaca), è l’ambiente nel quale siamo immersi, la cornice in cui vengono inseriti, a condizionare i nostri ricordi e l’interpretazione che a essi forniamo.
In pratica, ciò che chiamiamo “verità” è un quadro ridipinto sulla base di emozioni, suggestioni, percezioni selettive.
Italia, anno 2021 dopo la nascita di Nostro Signore. La pandemia ci sta logorando, stressando, frammentando. Basta che guardi la faccia della gente. In cassa al supermercato, dentro i finestrini delle automobili ferme al semaforo. Che ascolti i discorsi per strada, i commenti al mercato o fuori dalla chiesa, terminata la messa della domenica. Che leggi i post nei social. Siamo stanchi, frustrati, facilmente irascibili. Alcune scene di vita quotidiana mostrano una sorta di guerra tra poveri, o presunti tali. Il barista lavoratore autonomo che si scaglia contro lo statale. Che ha lo “stipendio garantito”. Il giovane partita IVA che non trova sbocchi occupazionali, che deride il pensionato “boomer” che pure si lamenta della sanità, a suo dire inefficiente.
E’ qui, esattamente in questa palude di lagnanze e malumori, che si inseriscono e ci sguazzano i leader populisti. Sempre, è stato così. “Prima la razza ariana!”. “America First!”. “Prima gli italiani!”. “No, i nord-coreani!”. “La Grande Russia!”. “L’orgoglio turco!”. “La Jihad contro gli infedeli!”.
Come le cellule del tumore. Che pensano di sopravvivere a scapito delle altre.
I demagoghi padroneggiano molto bene queste dinamiche. Alimentandole, soffiando sul fuoco.
Credono a loro convenga così.
Berlino, 30 gennaio 1939 dopo Nostro Signore. Nel celebre discorso tenuto davanti al Reichstag, il parlamento tedesco, Hitler annuncia per la prima volta in modo esplicito lo sterminio degli ebrei.
Come lo giustifica?
Secondo una tecnica semplice e psicologicamente ben collaudata: trova il colpevole.
O costruiscitelo, che è ancor meglio.
Individua un “responsabile”, attribuisci a lui l’infamia, e le tue azioni diverranno non solo condivisibili, ma addirittura doverose: “Se il giudaismo della finanza internazionale, in Europa o altrove, riuscirà ancora una volta a gettare i popoli in una guerra mondiale, il risultato non sarà la bolscevizzazione della terra e la vittoria del giudaismo, ma l’annientamento della razza ebraica in Europa“.
Ricordi cosa sono state le Einsatzgruppen? Come hanno agito?
Diamo la parola, in questa ricostruzione, ai giornalisti Marcello Strano e Paolo Mieli, quest’ultimo già direttore de La Stampa e del Corriere della Sera (documentazione video disponibile anche su RayPlay a questo indirizzo: https://www.raiplay.it/video/2021/01/La-Grande-Storia-doc-Einsatzgruppen---Le-squadre-della-morte-di-Hiltler-5da8bcb3-3e07-4ea1-9671-5d04e03b7231.html )
Le Einsatzgruppen erano dei reparti speciali voluti da Hitler, composti da uomini delle SS, della polizia tedesca e della Wehrmacht, che operarono nel corso della Seconda guerra mondiale. Furono impiegate prevalentemente in Unione Sovietica, Polonia, Ungheria, Ucraina e Paesi Baltici, dove svolsero un ruolo fondamentale nello sterminio degli ebrei. Infatti, il loro compito principale, come da testimonianza resa nel corso del processo di Norimberga, era l’eliminazione di ebrei, zingari e avversari politici, mediante fucilazioni di massa, l’utilizzo di autocarri convertiti in camere a gas e di lager per l’uccisione di massa.
Gli ebrei andavano eliminati senza alcuna speranza di salvezza perché ritenuti a capo delle strutture sovietiche. Le Einsatzgruppen appena arrivavano nelle città emanavano decreti con l’ordine a tutti i cittadini ebrei di presentarsi in un punto di raduno dove sarebbero stati ricollocati in altre località per adempiere al servizio di lavoro obbligatorio. E per chi non si fosse presentato sarebbe stato ucciso. Così, gli ebrei furono ingannati dalla speranza del reinsediamento per sopravvivere.
Quindi venivano radunati e trasferiti in zone già selezionate. Dopo di che, si procedeva all’eliminazione di piccoli gruppi e alla sepoltura in fosse comuni di migliaia di persone. Le vittime venivano condotte nelle fosse già scavate, gli ordinavano di spogliarsi completamente, in modo da inviare i vestiti agli enti assistenziali tedeschi e alla popolazione non ebrea. Rimanevano nudi al bordo delle fosse dove i tedeschi spesso ubriachi li uccidevano a colpi di mitragliatrice o di pistola. Gli ordinavano pure di sdraiarsi sopra altri cadaveri prima di destinarli alla stessa sorte. I neonati venivano lanciati in aria come bersagli per essere uccisi, perché secondo i nazisti non erano in grado di trattenere la pallottola e ciò avrebbe causato pericolosi rimbalzi sul terreno.
A volte alcune vittime non morivano subito, ma venivano solo ferite e quindi si seppellivano ancora vive quando la fossa veniva ricoperta. Alcuni fortunati fingendo di essere morti e trovandosi sepolti vicino alla superficie delle fosse comuni riuscirono a fuggire durante la notte.
Durante le uccisioni di massa si riscontrarono alcuni crolli psicologici nelle file delle Einsatzgruppen. I vertici nazisti per combattere tale fenomeno inviarono razioni supplementari di alcolici, così da rendere i carnefici completamente ubriachi mentre eseguivano gli ordini. Ma ciò non impedì numerosi casi di internamento presso case di cura psichiatriche e diversi suicidi tra le unità operative. Himmler, preoccupato per l’emergere di molti casi nelle SS, diede ordine di trovare nuovi metodi di sterminio, tra cui le Gaswagen. Erano autocarri camuffati da ambulanze di due diverse dimensioni, una da 140 e l’altra da 90 persone. Si caricavano le vittime sul piano di carico e si trasportava l’orribile carico fino al luogo della sepoltura. La morte sopraggiungeva generalmente dopo 15/30 minuti ed eventuali superstiti venivano freddati con un colpo alla nuca.
Ecco.
Quale memoria “embodied mind” conserviamo, al giorno d’oggi, di questi abomini?
E di innumerevoli altri, tra cui le fosse comuni di Srebrenica, a due passi da casa nostra, nella guerra serbo-bosniaca di soli pochi anni fa? Dei genocidi in Rwanda, del popolo armeno, e di quello curdo, e di quello ucraino ad opera di Stalin? E in Congo, Cambogia, e gli stermini degli oppositori politici in Cile, Argentina, e i massacri degli indiani d’America? In gran parte avvenuti nel “secolo breve”, il Novecento da poco tramontato?
Davvero può bastare la retorica di qualche arruffapopolo senza mestiere come quelli che passano quotidianamente in tv, i populisti “acchiappalike” delle parole a vanvera, per rischiare di farci precipitare nuovamente in questi abissi della “banalità del male”?
Grottesco, ma purtroppo è accaduto, che tra i manifestanti pro-Trump che hanno assalito il Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio scorso sventolassero bandiere con la croce uncinata, simbolo della “soluzione finale”, il delirio più macabro che l’umanità abbia prodotto.
E poi vedi una ragazza di 23 anni, una che da piccola ha sofferto di disturbi del linguaggio e dell’elaborazione uditiva. Cresciuta da una mamma single, quindici giorni dopo sale sul palco, davanti al medesimo palazzo, a Washington. Si celebra l’insediamento del nuovo Presidente. La ragazza si chiama Amanda Gorman, è una brillante studentessa di Harvard. Ha già vinto diversi premi e ottenuto riconoscimenti di prestigio in ambito letterario. Fiera e consapevole della sua forza gentile, davanti a milioni di persone collegate in tutto il mondo, declama questi suoi versi:
"Noi abbiamo sfidato la pancia della bestia.
Noi abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace,
e le norme e le nozioni di quel che «semplicemente» è non sono sempre giustizia.
Eppure, l’alba è nostra, prima ancora che ci sia dato accorgersene.
In qualche modo, ce l’abbiamo fatta.
In qualche modo, abbiamo resistito e siamo stati testimoni di come questa nazione non sia rotta,
ma, semplicemente, incompiuta.
Ci stiamo sforzando di dar vita ad un Paese che sia devoto ad ogni cultura, colore, carattere e condizione sociale.
E così alziamo il nostro sguardo non per cercare quel che ci divide, ma per catturare quel che abbiamo davanti.
Colmiamo il divario, perché sappiamo che, per poter mettere il nostro futuro al primo posto, dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze.
Abbandoniamo le braccia ai fianchi così da poterci sfiorare l’uno con l’altro.
Non cerchiamo di ferire il prossimo, ma cerchiamo un’armonia che sia per tutti.
Lasciamo che il mondo, se non altri, ci dica che è vero:
Che anche nel lutto, possiamo crescere.
Che nel dolore, possiamo trovare speranza.
Che nella stanchezza, avremo la consapevolezza di averci provato.
Che saremo legati per l’eternità, l’uno all’altro, vittoriosi.
Non perché ci saremo liberati della sconfitta, ma perché non dovremo più essere testimoni di divisioni.
Le Scritture ci dicono di immaginare che ciascuno possa sedere sotto la propria vite e il proprio albero di fico e lì non essere spaventato.
Se vorremo essere all’altezza del nostro tempo, non dovremo cercare la vittoria nella lama di un’arma, ma nei ponti che avremo costruito.
Essere americani è più di un orgoglio che ereditiamo.
È il passato in cui entriamo ed è il modo in cui lo ripariamo.
Fateci vivere in un Paese che sia migliore di quello che abbiamo lasciato.
Con ogni respiro di cui il mio petto martellato in bronzo sia capace, trasformeremo questo mondo ferito in un luogo meraviglioso.
Risorgeremo dalle colline dorate dell’Ovest.
Risorgeremo dal Nord-Est spazzato dal vento, in cui i nostri antenati, per primi, fecero la rivoluzione.
Risorgeremo dalle città circondate dai laghi, negli stati del Midwest.
Risorgeremo dal Sud baciato dal sole.
Ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo.
In ogni nicchia nota della nostra nazione, in ogni angolo chiamato Paese,
La nostra gente, diversa e bella, si farà avanti, malconcia eppure stupenda.
Quando il giorno arriverà, faremo un passo fuori dall’ombra, in fiamme e senza paura.
Una nuova alba sboccerà, mentre noi la renderemo libera.
Perché ci sarà sempre luce,
Finché saremo coraggiosi abbastanza da vederla.
Finché saremo coraggiosi abbastanza da essere noi stessi luce”.
Brava, Amanda.
La bellezza e l’entusiasmo, in queste tue parole, del viversi uniti, compatti, affiatati e coesi.
Senza che ciò significhi porsi “contro” o “prima” di qualcun altro.
Niente tumori, insomma.
Quando l’ha scritta?
L’ha scritta, con la memoria ancora fresca.
- don’t give up –