Donald Winnicot, John Bolby, Melanie Klein, Wilfred Bion, Renè Spitz… dopo Freud, chiunque per professione si trovi a spendere l’esistenza nell’ascoltare conflitti, curare scissioni, nevrosi, fobie, stati “border” nelle persone, incappa sempre e comunque nei fili spezzati di un’identità che - inesorabili - riconducono alle radici: i genitori che hai o non hai avuto, la famiglia nella quale sei cresciuto, il bambino che sei stato.
Singolare, per chi come me che di mestiere proprio queste storie e cicatrici emotive quotidianamente si trova a ricomporre, suonano affermazioni del tipo:
“Con tutti i padri e madri di cattivo esempio che ci sono, a crescere questo bimbo ci può pensare qualcun altro, mica gli vorrai negare questo diritto, no?…”.
Il che è come dire:
“Con tutta la gente zoppa che c’è al mondo, se adesso io a te taglio un tendine, che problema c’è?”
Oppure:
"Ci sono degli eccezionali artisti che, causa una menomazione, dipingono con la bocca. Mica ti lamenterai se ti manca una delle due mani, neh?"
Già la filosofia dell’etica e del diritto, agli albori del novecento, sulla scia di David Hume, definì questo tipo di argomentazione: “fallacia naturalistica”.
Il che è nient’altro che la confusione tra scienze descrittive (fisica, biologia, demografia…) e scienze prescrittive (giurisprudenza, pedagogia, riabilitazione, psicoterapia…)
Che gran casino, quando scambiamo la constatazione di un fenomeno per un principio educativo.
Quando si confondono i “diritti” con i “bisogni”.
A pagare, oggi nelle silenziose pieghe dell’inconscio, domani probabilmente nel senso di sicurezza e di fiducia indispensabile a legami affettivi stabili, purtroppo rimangono sempre loro: i più deboli, i più fragili, i più piccoli.
E dire che basterebbe solo Ascoltarli.
Con la “A” maiuscola, sì…
Il genere?
E' un Desiderio che puoi sentire dalle loro voci, raramente in quella tonante delle piazze.