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LA TORTURA DEL “E SE?”

19/8/2022

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“Ho avuto un sacco di preoccupazioni nella mia vita, la maggior parte delle quali non sono mai successe”. Così Mark Twain, il celebre scrittore americano, autore tra l'altro di Tom Sawyer.

Si chiama “anticipazione”. Ha un potere perverso, ci ricorda la PNL (Programmazione NeuroLinguistica). E' incredibile quanto la nostra mente abbia la capacità di modellare la realtà attraverso le convinzioni (che altro non sono che pensieri radicati da forti emozioni).

Tutto ciò genera blocchi, paure, zavorre, stagnazione, “freni a mano”. In una parola: ansia.

Eppure, lo sappiamo: quanto benessere sperimentiamo le volte in cui lasciamo fluire liberamente l'energia dentro di noi? Quando ad esempio ci dedichiamo a una passione, un lavoro che ci piace, un'attività che ci gratifica. La pace interiore è esattamente questo: energia vitale, che liberamente fluisce.

Allora, mentre grigi, incombenti e  minacciosi temporali vanno accompagnando alla porta questa torrida estate del 2022  e la ripresa delle attività lavorative già si affaccia, solo un augurio, a ciascuno: “Carpe Diem”, viviamoci il presente.

https://www.youtube.com/watch?v=aCLI0HDM4FI

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QUANTI SIAMO IN QUESTA TESTA. GLI INQUILINI RUMOROSI: NOMI E COGNOMI

17/8/2022

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Il secondo passo nel lavoro con le “parti di sé”, dopo averle riconosciute, sta nell’accoglierle e rispettarle.
Le parti emotive possono essere diverse e ciascuno di noi ha le proprie, ma le seguenti sono quelle che si riscontrano più spesso, come ben descrive ancora Marta Erba, terapeuta milanese:

La parte attaccamento: è la parte bambina che vuole sentirsi amata e che è alla ricerca di sorrisi affettuosi e parole rassicuranti; è servita (e serve ancora) a richiamare il supporto degli altri.

La parte fuga: è la parte che fugge dalle emozioni soverchianti attraverso modalità che permettono di rendere queste emozioni più sopportabili, ma che si traducono spesso in comportamenti a rischio (dipendenze, disturbi alimentari), in procrastinazione o evitamenti (evitare di pensare, di arrabbiarsi, di parlare di un argomento). Questa parte è servita a tollerare e padroneggiare emozioni intense e disturbanti come la vergogna, la rabbia o la paura, fornendoci un senso di potere e di controllo, oppure permettendoci di trovare sollievo (grazie al rilascio di endorfine).

La parte congelamento: è una parte terrorizzata che cerca di passare inosservata immobilizzandosi nei movimenti e nella parola. Il processo coinvolto è quello biologicamente antico della morte apparente, mediato dal sistema vagale dorsale (come ben spiegato da Steven Porges nella teoria polivagale): se il “predatore” non mi vede o “mi crede morto” posso sperare di sopravvivere.

La parte sottomessa: è la parte che fa di tutto per compiacere, incapace di dire no, convinta di essere indegna e inadeguata, e che sia sempre colpa sua. A suo tempo è servita a evitare punizioni o a mantenere legami importanti per la sopravvivenza (il suo slogan è: “compiaci!”).

La parte attacco: è una parte ipervigile, controllante, giudicante e svalutante, carica di rabbia, talvolta rivolta contro di sé. È servita a regolare le emozioni e a proteggere le parti più piccole e vulnerabili, utilizzando modalità aggressive (spesso apprese durante il corso della vita da un genitore); se la rabbia è rivolta verso di sé, l’utilità può essere stata quella di rappresentare dentro di sé il genitore aggressivo allo scopo di controllarlo meglio e non venire ogni volta sopraffatti da un’aggressione imprevista; oppure all’opposto – in caso di genitori poco presenti o incapaci di fornire limiti e regole – è servita a costruire un genitore vicario (ma eccessivamente rigido e inflessibile, come può essere un genitore irreale, “inventato” da un bambino).

La parte negazionista: è una parte che anestetizza, nega e minimizza. È un modo primitivo di difendersi dalla realtà: sopravvivo più facilmente se non sento niente e ridimensiono quello che è successo (con il rischio, però, di continuare a esporsi ai pericoli).

La parte idealizzante: è quella che continua a ritenere di aver avuto “genitori fantastici” per difendersi dall’odio nei loro confronti per quello che hanno o non hanno fatto (o per non riconoscere le loro gravi inadeguatezze). Oppure che si racconta di “essere una persona speciale” per difendersi dall’idea di non valere nulla (è la cosiddetta difesa narcisistica), o ancora che idealizza un partner violento o abusante (“in realtà mi ama, mi vuole bene”). Si tratta di una percezione distorta che associa un forte sentimento positivo a un’immagine (di sé o dell’altro) allo scopo di spegnere i vissuti traumatici.

La parte suicidaria: è la parte che ha pensieri di morte, che vuole morire e immagina modi per togliersi la vita. Perfino una parte del genere va accolta e rispettata: è infatti servita a coltivare un “piano B” che permettesse di tollerare emozioni dolorose e distruttive senza recare danno a sé e al proprio corpo.
​
L’obiettivo del “lavoro con le parti”, come spiega Daniel Siegel (autore di La mente relazionale – neurobiologia dell’esperienza interpersonale), è l’attaccamento sicuro riguadagnato. In altre parole: se durante l’infanzia, o nel percorso dell’esistenza ci sono state esperienze traumatiche e disturbanti che hanno compromesso l’attaccamento (e quindi la capacità di entrare in relazione con gli altri), non si è condannati a convivere con un perenne senso di insicurezza: è possibile riparare ai traumi subiti prendendoci cura delle nostre parti traumatizzate, restituendo loro quella sollecitudine, tenerezza e attenzione che a suo tempo non hanno avuto.

Per “guadagnare” tale resilienza e accettarsi davvero in maniera incondizionata è indispensabile sviluppare una relazione con tutte le parti di noi: quelle ferite e bisognose, quelle refrattarie alla vulnerabilità, quelle che sono sopravvissute attraverso la distanza e il diniego, le parti che amiamo, quelle che odiamo, quelle perfino che ci fanno paura.
Poiché i poeti esprimono meglio degli psicologi i concetti e le esperienze umane grazie alla loro capacità di simbolizzazione, desidero chiudere questo post con i versi di Juan Ramon Jimenez, poeta spagnolo premio Nobel per la letteratura nel 1956:

“Io non sono io
Sono colui
che cammina accanto a me senza che io lo veda;
che a volte sto per vedere,
che a volte dimentico.
Colui che tace, sereno, quando parlo,
colui che perdona, dolce, quando odio,
colui che passeggia là dove non sono,
colui che resterà qui quando morirò”.
 
https://www.youtube.com/watch?v=RUHQY0wGcjE

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MA QUANTI SIAMO, IN QUESTA TESTA?

16/8/2022

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Francesca, nella torrida estate del 2022, si trovava in vacanza con suo marito Giorgio in una bella spiaggia della Sicilia; un luogo che avevano già visitato molte volte e che li aiutava a sentirsi in profonda sintonia. La seconda mattina del loro viaggio, tuttavia, si svegliò con un'inspiegabile sensazione di solitudine. Si sentiva triste e vuota, lontana dal suo marito nonostante fosse a pochi centimetri da lei. “Credendo” che queste sensazioni fossero le sue, si trovò a interpretarle: “Giorgio non mi capisce davvero. Ha buone intenzioni, ma non mi sta davvero vicino". Quando Giorgio si svegliò, Francesca era ormai in lacrime e lo stava rabbiosamente accusando di non volerle bene davvero.

Soltanto più tardi durante il giorno, quando fu più connessa alla sua parte della vita normale, capì che la sensazione di solitudine veniva da una parte più giovane, appartenente al suo passato. Una parte di sé che - disconnessa e scissa dalla attuale vita adulta di Francesca - non aveva fatto esperienza della sicurezza, del sostegno e della compagnia che aveva trovato nel suo matrimonio.
Quella parte bambina aveva semplicemente bisogno di essere rassicurata del fatto che non era tutta sola.

Alzi la mano colui o colei al quale non è mai capitato si sentirsi come due (o più) persone diverse nello stesso corpo, nei momenti o nelle giornate “storte”, nelle quali profonde emozioni o differenti stati d’animo ci coinvolgono.
A volte siamo sopraffatti da emozioni intense che fatichiamo a controllare: paura, rabbia, senso di impotenza. Il “lavoro con le parti” può aiutare a riconoscerne l’origine e a integrarle in modo efficace.  

La definizione di “parte” non riguarda solo i casi di pazienti con DDI (disturbo dissociativo di identità, una volta chiamato disturbo di personalità multipla), bensì descrive ciò che è semplicemente la profonda diversità tra le varie manifestazioni della personalità di un qualsiasi individuo in preda a differenti stati d’animo.

E’ Janina Fisher in particolare, psicoterapeuta esperta nel trattamento del trauma, a fornire un’utile descrizione del procedimento che definisce “fare amicizia con le nostre parti”. Intendendo con ciò l’accettazione radicale del fatto che condividiamo il nostro corpo e la nostra vita con dei “coinquilini” (le nostre diverse parti) a volte in opposizione o contrasto tra loro. E che per vivere bene con noi stessi dobbiamo accettare e vivere in maniera amichevole e collaborativa con tutti i nostri sé, non solo con quelli che ci mettono a nostro agio.

L’idea alla base del lavoro con le parti - riprendo in questo un bell’articolo di Marta Erba, psicoterapeuta milanese - è che ogni bambino, quando si trova in una situazione di insicurezza che nessun adulto è in grado di riparare (perché nessun adulto è presente, o perché gli adulti presenti non riescono a intercettare la difficoltà in cui il bambino si trova, o perché gli adulti stessi sono la fonte di quel disagio) ha un’unica scelta per sopravvivere: disconoscere le proprie parti più vulnerabili e ferite. Quindi, con una parte di sé “continua ad andare avanti con la vita normale”, mentre le parti ferite rimangono come segregate all’interno, nascoste e inaccessibili.

Questo fenomeno si chiama “compartimentazione dissociativa” e non è di per sé patologico. La capacità della nostra mente di scindersi in parti è anzi un’ottima strategia per sopravvivere alle situazioni traumatiche: invece che “disintegrarsi” (come avviene nello scompenso psicotico), è molto meglio dissociare alcune parti, segregarle, confinarle, in modo da poter andare avanti “facendo finta” che non esistano.

Si tratta tuttavia di un sistema che alla lunga si rivela poco efficace e potenzialmente pericoloso. Le parti traumatizzate, infatti, in presenza di determinate situazioni che ricordano il trauma originario, possono irrompere nella nostra vita in modo soverchiante e incontrollato. Le riconosciamo perché sono sempre accompagnate da sensazioni fisiche potenti (un “buco in pancia”, un “nodo alla gola”, una “morsa allo stomaco”). Spesso anche da frasi negative che diciamo su noi stessi (“non merito”, “sono sbagliato”, “c’è qualcosa che non va in me”).

Quando una di queste arcaiche parti emotive irrompe nella nostra vita, succede che ci identifichiamo profondamente con essa: non la riconosciamo cioè come una parte di noi, ma abbiamo la forte sensazione di essere davvero – realmente - quel bambino spaventato, arrabbiato o angosciato. E nient’altro.

Come si fa, dunque, a lavorare con le parti?
Il primo passo è riconoscerle, fornendo loro un’età (l’età in cui è avvenuto il trauma), un aspetto, un’espressione del viso… e imparare a guardarle con solidarietà, empatia e tenerezza. Proprio come si farebbe con un bambino e non, come spesso avviene, con fastidio, astio o vergogna.
Si tratta di usare la compartimentazione dissociativa in maniera consapevole e volontaria: invece che fondersi con le parti bambine dall’emotività soverchiante, la parte adulta è incoraggiata a separarsene.

Il secondo passo, in un prossimo post.

Questo lo concludo citando Pádraig Ó Tuama, un poeta, teologo e mediatore di conflitti irlandese. Che ricorda come, in lingua irlandese, quando parli di emozioni, non dici "Sono triste". Diresti "La tristezza è su di me", "Tā Brōn Orm". E’ bellissimo, non trovi?  Si, perché c'è un'implicazione nel non identificarti completamente con l'emozione. E’ esattamente ciò che si intende nel lavoro con le parti di sé. Non sono triste, è solo che la tristezza è su di me da un po'. Qualcos'altro sarà su di me un'altra volta, ed è una buona cosa da riconoscere.

Così per ciascuna emozione.
Per ogni parte di sé, o stato dell’Io.

https://www.youtube.com/watch?v=d4CQkG-dBZk
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    Noneto Circin

    La parola, il suono, l’immagine, sono l’oggetto dei miei interessi nel tempo libero. 
    A volte, tentano di diventare voce. 
    Nella scrittura, nella musica, nella fotografia. 
    Per passione, per divertimento.
    Insomma, per una delle cose più serie nella vita: il gioco. 
    Tramite i tasti di un pianoforte, una penna che scorre veloce, le lenti di un vecchio obiettivo. 

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