Due bimbi, un giocattolo nei pressi.
I mocciosi giocano a qualcosa. Non importa cosa.
A un certo punto, uno adocchia un balocco, finallora inosservato.
Ci corre incontro, se lo acchiappa.
Solo a quel punto l’altro piglia a frignare - più forte e stridulo se d'intorno scorge un adulto - dando stura alle lagne:
“Perché lui sì e io no?”
“Maestra, l’ho visto prima io!”
“Prima i Vittorianiiii !”
(Vittorio è il nome di battesimo del frignante, l’altro all’anagrafe fa Italo, ndr.)
Ecco, ho appena finito di scrivere la ndr., che il marmocchio con il giocattolo in mano, ben stretto e saldo, principia a rivendicare:
“E-allora-gl'Italiani?”.
L’invidia è il desiderio, patologico e senza età, di possedere ciò che ha un’altra persona, non per le qualità di quel bene, ma semplicemente perché è dell’altro.
In psicanalisi, Jacques Lacan lo descrive come una delle declinazioni del Desiderio: il desiderio invidioso. L’oggetto (automobile, casa, vestito, smartphone-ultimo-modello) non ha valore in quanto tale, bensì perché goduto da un altro.
Che, per ciò stesso, si trasforma in rivale.
Una guerra tra poveri (nevrotici), molto spesso.
Nel linguaggio giornalistico, con be·nal·trì·ṣmo si definisce l'atteggiamento di chi elude un problema sostenendo che ce ne sono altri, più gravi, da affrontare.
L’esperienza clinica fornisce quotidianamente conferma su quante persone siano sempre più sole e inseguano frustrate la propria autoaffermazione, senza dar valore al legame con l’altro.
«La psicoanalisi insegna che dietro il gesto di Caino che uccide Abele c’è Narciso: l’invidia, cioè, nasce dall’attaccamento eccessivo al proprio Io. Per chi è infatuato di sé, l’altro crea disturbo e genera aggressività», ricorda Massimo Recalcati.
Si, è vero: talora sono condizioni oggettive di bisogno, di povertà, a generare l’invidia.
“Una sedia a rotelle fatta viaggiare a una velocità ingovernabile”. Così Lacan raffigurava un'economia non-sostenibile, che già cinquant'anni fa considerava destinata fatalmente a scoppiare.
Ma davvero l’esito obbligato di tutto ciò è inevitabilmente l’astio, l'odio, l’invidia rancorosa?
Mio padre, che negli anni ’60 del secolo scorso - quelli del boom industriale - ha fatto fortuna come imprenditore, dopo essere partito come semplice operaio alla “Torpado”, la fabbrica di biciclette, mi raccontava spesso della sua infanzia.
Di come mio nonno, fattore agricolo nella campagna veneta, rimasto improvvisamente senza lavoro, rammendasse silenziosamente e di nascosto di notte, con pezzi di cartone, i buchi nelle suole delle scarpe dei tre figli. Perché al mattino potessero camminare fino a scuola. Mi raccontava, mio padre, delle scarse fettine di salame tagliate con religioso scrupolo dalla nonna, tutta la famiglia in silenziosa attesa attorno alla tavola. Poca polenta, e così sottili e trasparenti, quelle fettine, “che ci vedevo la faccia di mia sorella dall’altra parte”.
Gli anni della guerra, della miseria, della fame, sì.
Eppure un posto a tavola lo si trovava sempre, per chiunque, se necessario.
Sfollati dalle città, causa le bombe. Fuggivano da distruzione e morte.
O i reduci dal fronte, sulla via del ritorno a casa, in lunghe file a piedi, una volta che i combattimenti ebbero a cessare.
Si chiamava solidarietà.
Si chiamava consapevolezza di quanto preziosa fosse la libertà.
Tanto quanto il cibo, forse più.
Ben l’aveva sperimentato l’altro mio nonno, Remo Rossi.
Gestore di una bottega di “casoìn” (alimentari, in dialetto veneto) in un paesino chiamato Bronzola, frazione di Campodarsego, provincia di Padova. Catturato in un rastrellamento dai fascisti, per rappresaglia, assieme ad altri nove.
E a mia mamma, allora una ragazzina undicenne, che si era aggrappata ai pantaloni del padre mentre lo portavano via, urlando tutta la sua disperazione.
Li hanno tenuti chiusi, gli uomini, per dieci giorni nella caserma di Camposampiero.
Li avrebbero fucilati, tutti, se i partigiani non avessero rilasciato colui che avevano catturato.
Che bene prezioso, la libertà di pensiero e di espressione. La libertà di usare la propria testa. Di dissentire con un regime fatto di arroganza e protervia, di squadrismo vigliacco e bullista che avrebbe portato, nel giro di pochi anni, l'Italia allo sfacelo civile ed economico. Alla sconfitta politica e umanitaria.
Si, una brutta bestia, il benaltrismo. Un suicidio dell’intelligenza.
Eppur virale, quando alla solidarietà e alla fratellanza si sono sostituiti il narcisismo e lo sterile culto delle apparenze.
Quando la spinta al godimento diventa compulsiva e non conosce limiti, quando l´avidità non ha più fondo, è la stessa idea di comunità che viene meno. Per dirla in termini psicoanalitici, è la pulsione di morte che prevale e travolge la dimensione del legame sociale.
Uno strumento eccellente, oggi, il benaltrismo, per il qualunquismo populista. Che così da vicino riprende la retorica comunicativa che fu l'arma tossica e letale del ventennio fascista.
Come di ogni totalitarismo, del resto.
Sono nomi precisi, oggi, quelli delle agenzie generatrici di fake-news date in pasto a quegli utenti (o “webeti”, come li chiama Enrico Mentana) che le condividono senza il minimo senso critico: Sputnik News Italia, legata ai sevizi russi di dis-informazione, per citare una delle più attive sul fronte politico, o le varie WasArrested, Channel23news, Fakelot, Clonezone, Fodey, BreakingNews Generator che consentono a chiunque di confezionare “ad hoc” pagine dalla veste giornalistica credibile, qualunque sia il livello di falsità o calunnia inseritovi.
Il be-nal-tris-mo mi ricorda anche un ingenuo giochetto non-sense che ci si divertiva a fare all'età delle scuole medie, quando volevi prendere in giro le ragazzine - fingendoti più intelligente - e chiedevi loro: “Ascolta, bellezza: corre più forte il treno, o è più bianco il latte?”
Inutile dilungarsi su come finisse la scenetta, non appena la graziosa superava l'attimo di smarrimento, dietro quegli occhioni basiti.
Male, finiva, decisamente molto male.
Finiva che partivi credendoti figo, e finivi sapendoti “mona”, per usare il termine veneto più pertinente, seppur non sempre traducibile in lingua italica con univocità di significati.
Ah, sai cosa mi ripete sempre mia mamma, che di anni oggi ne ha ottantasei?
Così, mi dice:
“Se mi chiedete qual è stato il giorno più felice di tutta mia vita, quello in cui ho provato la gioia più grande di tutte, è stato quello in cui ho visto arrivare i carri armati americani nelle strade di Bronzola. Eravamo tutti pazzi. Pazzi di gioia”.
- non farti cadere le braccia -