FINCHE’ MORTE CI SEPARI
Lo sapevo, che mi sarebbe mancato.
Dopo, mi sarebbe mancato.
L’attaccamento non è una scelta. E’ una necessità, ricorda Claude Béata nel suo bellissimo libro: “Anche gli animali amano”.
Il professor Ueno, interpretato nel film da Richard Gere, viene improvvisamente stroncato da un ictus il 21 maggio 1925, durante una lezione all’Università Imperiale di Tokyo.
Hachikō, il suo fedele cane Akita che lo accompagnava ogni giorno alla stazione di Shibuya a prendere il treno, si presenta come al solito, ogni giorno puntuale alle cinque del pomeriggio, attendendolo al rientro.
Il professor Ueno non si fece vedere. Il cane attese invano il suo arrivo. Ciononostante, tornò alla stazione il giorno seguente e fece così pure nei giorni successivi.
C'è qualcosa che allarga il cuore, e poi lo squarcia, nell'immedesimarsi in questa indefettibile speranza di Hachikō.
Fiducia, bisogno, dolore e necessità che si con-fondono e feriscono a vicenda, rotolando immobili al limitare di quel binario, lo sguardo all'orizzonte.
Con il passar del tempo, prima il capostazione, poi le persone che prendevano quotidianamente il treno iniziarono ad accorgersi di lui. Nonostante il passare degli anni e il progressivo invecchiamento, il cane continuò comunque a recarsi alla stazione nel momento preciso in cui il suo defunto padrone sarebbe dovuto arrivare.
Hachikō morì undici anni dopo. Ogni giorno, in ciascun giorno di questi undici lunghi anni, Hachikō è ritornato alla stazione di Shibuya, alle cinque del pomeriggio, attendendo di reincontrare il suo padrone.
L’attaccamento non è una scelta. Ne nasciamo programmati.
Sì, lo sapevo che, dopo, mi sarebbe mancato.
Ma non posso dire mi risultasse facile, al termine di una lunga giornata di lavoro, un lavoro nel quale se c’è una qualità che viene richiesta è la pazienza, l’ascolto. No, non mi era facile rispondere “sì”, alla sua richiesta di passare a insegnargli il “Windows”. Windows, a un certo punto della malattia degenerativa, era diventato una sorta di entità metafisica che designava il computer, Internet, il programma di videoscrittura e qualunque altro accessorio informatico. Un contrasto drammatico, rispetto alle competenze e abilità precedenti, oramai compromesse.
Adesso, ogni volta in cui passo davanti alla porta del suo studio, quando vado a trovare mia mamma, non riesco a non fermarmi, a fissare per qualche istante la sedia vuota.
Me lo dicevo, che mi sarebbe mancato. Lo sapevo, pur dentro all’impazienza e alla fatica di spiegare, allora, ogni sera la stessa cosa, ripetuta la sera precedente.
L’attaccamento non è una decisione. E’ il motore dell’esistenza, il magnete che tenta di resistere alla morte.
Uno dei pilastri della teoria di John Bowlby è la constatazione che una madre non abbandona mai il cadavere del suo neonato, quasi cullando l’illusione che la morte non sia che apparente.
Una catalessi da cui quel corpicino possa risorgere.
Nel comportamento dei delfini si assiste a qualcosa di ancora più sorprendente. Osservazioni condotte lungo le coste della Florida e delle Isole Canarie dimostrano che i gruppi di delfini non abbandonano un cadavere senza un certo numero di rituali. L’intero gruppo, o una parte di esso resta nei pressi , per molti giorni, pur essendo i delfini una specie estremamente mobile. Alcuni ticchettano su corpo senza vita, quasi dei tentativi di rianimazione.
Si è assistito al nuoto sincronizzato di due esemplari che si danno il cambio, a volte contatti multipli di tutto il gruppo con il cadavere di un giovane maschio, difendendolo dagli altri nuotatori che vorrebbero avvicinarsi.
Altra cosa sorprendente è la frequenza di erezioni nei delfini che vegliano il cadavere e gli sfregamenti e simulacri di atti sessuali con esso. Quasi un’altra maniera per non rompere il legame, per conservarlo nel mondo dei vivi.
Com’è profondo il mare. Ritroviamo nel mondo sommerso ciò che ha impegnato l’ormai anziano Freud negli ultimi anni della sua vita, del suo lavoro: il tentativo di ricondurre a un equilibrio il Principio di Vita e il Principio di Morte.
Eros e Thanatos che si sfidano e ricongiungono, nei fondali marini, proprio lì dove la Vita ha preso inizio.
Così gli elefanti. Stupisce il modo in cui i membri di una discendenza talvolta continuano a riprendere il contatto con le ossa della matriarca morta. Lo dimostra una ricerca del 2006, condotta dagli etologi McComb, Baker e Moss. Quest’ultima, una delle studiose esperte dell’IFAW (International Fund for Animal Welfare) descrive come le figlie e le nipoti della matriarca morta vengano a raccogliersi sui resti, come la figlia arrotoli la proboscide attorno al suo cranio, come tutti gli elefanti del gruppo possano sollevare con delicatezza le ossa e spostarle di qualche centimetro.
Potenza dell’attaccamento. Si tratta di rituali, di celebrazioni. Vere e proprie “elaborazioni del lutto”, della perdita.
Chi, in questi giorni, non ha negli occhi le immagini di quegli anonimi e tutti uguali camion militari che escono incolonnati dagli ospedali di Bergamo? Quanto fanno male? Trasportano decine di bare, perlopiù di anziani. Vanno ai crematori. Un’intera generazione, in certi paesi e borghi, che il dannato virus Covid-19 si è portata via. La generazione della memoria storica, che significa identità, patrimonio civile. Radici familiari, punti di riferimento.
Le testimonianze più toccanti arrivano dagli operatori sanitari che assistono questi pazienti nelle camere di terapia intensiva. La paura maggiore che raccolgono? Quella di non riuscire a salutare i propri cari. A esprimere il commiato. A riceverlo. Il dispiacere inconsolabile per la mancanza di quell’abbraccio, a volte nella consapevolezza che sarà inevitabilmente l’ultimo.
E allora questi medici, questi infermieri che si incaricano della chiamata su Whatsapp. Di leggere il messaggio dal telefonino. Si fanno ambasciatori, portavoce. Dell’ultimo sorriso ai nipotini.
Chissà quante domeniche pomeriggio, nelle case di questi nonni. Chissà quanti giochi, quante squisite torte confezionate che solo l’amore e la perizia di una nonna può… E le avventure con il nonno guascone, magari nella segreta complicità di non dover svelare ciò – giammai! – ai genitori.
Il mondo animale, i delfini, gli elefanti ce lo insegnano necessario e irrinunciabile. Qui invece dobbiamo soccombere alla beffa del divieto, della proibizione di un qualsivoglia rito funebre. Neppure un “addio”. La sottrazione dell’abbraccio corale, della partecipazione degli amici. Della musica di un organo da chiesa. Del pianto condiviso, indispensabile alla cura. La cura al vuoto, alla perdita, all'assenza. Al senso di abbandono.
Si intitola “Viaggio in Inghilterra”. A mio avviso, il film più bello, in assoluto, sul tema del distacco. Regia di Richard Attenborough, anno 1993. Un tranquillo e un po’ compassato professore di letteratura a Oxford si apre finalmente alla vita quando si innamora, oramai alle soglie dell'anzianità, di una brillante donna americana, Joy Gresham, sul punto del divorzio col marito alcolista. È giunta in Inghilterra col figlioletto Douglas anche per conoscere lo scrittore amato dal figlio al quale Joy, aspirante scrittrice, ha scritto un'appassionata lettera. I due si incontrano e fanno amicizia, quindi lei torna in America dove divorzia dal marito. Trasferitasi a Londra, reincontra Jack, ormai innamorato, e gli chiede di sposarla per ottenere la nazionalità, ma, quando lei si ammala di cancro sarà lui a chiederla in sposa, questa volta per amore.
L’amore unisce, la morte separa.
Prima di morire, Joy trascorre gli ultimi giorni di vita nella casa di Oxford di Jack. E’ lì che Joy “inchioda” l’evasivo Jack alla realtà delle cose. All’inevitabile distacco che li attende.
Come?
Consegnandogli questa frase: “La felicità di oggi, Jack, contiene il dolore di domani”.
Qualche tempo dopo, Jack accompagnerà il piccolo Douglas in una passeggiata. E’ la scena finale del film. Diverse stagioni si sono ormai avvicendate, una dopo l'altra. Il ricordo si è separato dall'afflizione. Questa cosa alcuni psicanalisti la chiamano “isolamento dell’affetto”. Altri, accettazione e distacco.
Una meravigliosa giornata di sole primaverile, in mezzo alla natura. Una splendida valle alpina.
Il vuoto rimane, la vita prosegue. Un vivacissimo Border Collie corre allegro a fianco di Douglas, che appare già più sereno. Il cagnolino, saltellando, abbaia festoso, correndogli attorno in giro, manifestando così al ragazzino tutto il suo affetto e il proprio attaccamento. La fedeltà.
L'anziano Jack cammina pensieroso, ma in direzione del sole. La narrazione dà voce al suo dialogo interiore:
“Il dolore di oggi, mio amato Douglas... fa parte della felicità di ieri”.
- stop that train, I'm leavin' -
Dopo, mi sarebbe mancato.
L’attaccamento non è una scelta. E’ una necessità, ricorda Claude Béata nel suo bellissimo libro: “Anche gli animali amano”.
Il professor Ueno, interpretato nel film da Richard Gere, viene improvvisamente stroncato da un ictus il 21 maggio 1925, durante una lezione all’Università Imperiale di Tokyo.
Hachikō, il suo fedele cane Akita che lo accompagnava ogni giorno alla stazione di Shibuya a prendere il treno, si presenta come al solito, ogni giorno puntuale alle cinque del pomeriggio, attendendolo al rientro.
Il professor Ueno non si fece vedere. Il cane attese invano il suo arrivo. Ciononostante, tornò alla stazione il giorno seguente e fece così pure nei giorni successivi.
C'è qualcosa che allarga il cuore, e poi lo squarcia, nell'immedesimarsi in questa indefettibile speranza di Hachikō.
Fiducia, bisogno, dolore e necessità che si con-fondono e feriscono a vicenda, rotolando immobili al limitare di quel binario, lo sguardo all'orizzonte.
Con il passar del tempo, prima il capostazione, poi le persone che prendevano quotidianamente il treno iniziarono ad accorgersi di lui. Nonostante il passare degli anni e il progressivo invecchiamento, il cane continuò comunque a recarsi alla stazione nel momento preciso in cui il suo defunto padrone sarebbe dovuto arrivare.
Hachikō morì undici anni dopo. Ogni giorno, in ciascun giorno di questi undici lunghi anni, Hachikō è ritornato alla stazione di Shibuya, alle cinque del pomeriggio, attendendo di reincontrare il suo padrone.
L’attaccamento non è una scelta. Ne nasciamo programmati.
Sì, lo sapevo che, dopo, mi sarebbe mancato.
Ma non posso dire mi risultasse facile, al termine di una lunga giornata di lavoro, un lavoro nel quale se c’è una qualità che viene richiesta è la pazienza, l’ascolto. No, non mi era facile rispondere “sì”, alla sua richiesta di passare a insegnargli il “Windows”. Windows, a un certo punto della malattia degenerativa, era diventato una sorta di entità metafisica che designava il computer, Internet, il programma di videoscrittura e qualunque altro accessorio informatico. Un contrasto drammatico, rispetto alle competenze e abilità precedenti, oramai compromesse.
Adesso, ogni volta in cui passo davanti alla porta del suo studio, quando vado a trovare mia mamma, non riesco a non fermarmi, a fissare per qualche istante la sedia vuota.
Me lo dicevo, che mi sarebbe mancato. Lo sapevo, pur dentro all’impazienza e alla fatica di spiegare, allora, ogni sera la stessa cosa, ripetuta la sera precedente.
L’attaccamento non è una decisione. E’ il motore dell’esistenza, il magnete che tenta di resistere alla morte.
Uno dei pilastri della teoria di John Bowlby è la constatazione che una madre non abbandona mai il cadavere del suo neonato, quasi cullando l’illusione che la morte non sia che apparente.
Una catalessi da cui quel corpicino possa risorgere.
Nel comportamento dei delfini si assiste a qualcosa di ancora più sorprendente. Osservazioni condotte lungo le coste della Florida e delle Isole Canarie dimostrano che i gruppi di delfini non abbandonano un cadavere senza un certo numero di rituali. L’intero gruppo, o una parte di esso resta nei pressi , per molti giorni, pur essendo i delfini una specie estremamente mobile. Alcuni ticchettano su corpo senza vita, quasi dei tentativi di rianimazione.
Si è assistito al nuoto sincronizzato di due esemplari che si danno il cambio, a volte contatti multipli di tutto il gruppo con il cadavere di un giovane maschio, difendendolo dagli altri nuotatori che vorrebbero avvicinarsi.
Altra cosa sorprendente è la frequenza di erezioni nei delfini che vegliano il cadavere e gli sfregamenti e simulacri di atti sessuali con esso. Quasi un’altra maniera per non rompere il legame, per conservarlo nel mondo dei vivi.
Com’è profondo il mare. Ritroviamo nel mondo sommerso ciò che ha impegnato l’ormai anziano Freud negli ultimi anni della sua vita, del suo lavoro: il tentativo di ricondurre a un equilibrio il Principio di Vita e il Principio di Morte.
Eros e Thanatos che si sfidano e ricongiungono, nei fondali marini, proprio lì dove la Vita ha preso inizio.
Così gli elefanti. Stupisce il modo in cui i membri di una discendenza talvolta continuano a riprendere il contatto con le ossa della matriarca morta. Lo dimostra una ricerca del 2006, condotta dagli etologi McComb, Baker e Moss. Quest’ultima, una delle studiose esperte dell’IFAW (International Fund for Animal Welfare) descrive come le figlie e le nipoti della matriarca morta vengano a raccogliersi sui resti, come la figlia arrotoli la proboscide attorno al suo cranio, come tutti gli elefanti del gruppo possano sollevare con delicatezza le ossa e spostarle di qualche centimetro.
Potenza dell’attaccamento. Si tratta di rituali, di celebrazioni. Vere e proprie “elaborazioni del lutto”, della perdita.
Chi, in questi giorni, non ha negli occhi le immagini di quegli anonimi e tutti uguali camion militari che escono incolonnati dagli ospedali di Bergamo? Quanto fanno male? Trasportano decine di bare, perlopiù di anziani. Vanno ai crematori. Un’intera generazione, in certi paesi e borghi, che il dannato virus Covid-19 si è portata via. La generazione della memoria storica, che significa identità, patrimonio civile. Radici familiari, punti di riferimento.
Le testimonianze più toccanti arrivano dagli operatori sanitari che assistono questi pazienti nelle camere di terapia intensiva. La paura maggiore che raccolgono? Quella di non riuscire a salutare i propri cari. A esprimere il commiato. A riceverlo. Il dispiacere inconsolabile per la mancanza di quell’abbraccio, a volte nella consapevolezza che sarà inevitabilmente l’ultimo.
E allora questi medici, questi infermieri che si incaricano della chiamata su Whatsapp. Di leggere il messaggio dal telefonino. Si fanno ambasciatori, portavoce. Dell’ultimo sorriso ai nipotini.
Chissà quante domeniche pomeriggio, nelle case di questi nonni. Chissà quanti giochi, quante squisite torte confezionate che solo l’amore e la perizia di una nonna può… E le avventure con il nonno guascone, magari nella segreta complicità di non dover svelare ciò – giammai! – ai genitori.
Il mondo animale, i delfini, gli elefanti ce lo insegnano necessario e irrinunciabile. Qui invece dobbiamo soccombere alla beffa del divieto, della proibizione di un qualsivoglia rito funebre. Neppure un “addio”. La sottrazione dell’abbraccio corale, della partecipazione degli amici. Della musica di un organo da chiesa. Del pianto condiviso, indispensabile alla cura. La cura al vuoto, alla perdita, all'assenza. Al senso di abbandono.
Si intitola “Viaggio in Inghilterra”. A mio avviso, il film più bello, in assoluto, sul tema del distacco. Regia di Richard Attenborough, anno 1993. Un tranquillo e un po’ compassato professore di letteratura a Oxford si apre finalmente alla vita quando si innamora, oramai alle soglie dell'anzianità, di una brillante donna americana, Joy Gresham, sul punto del divorzio col marito alcolista. È giunta in Inghilterra col figlioletto Douglas anche per conoscere lo scrittore amato dal figlio al quale Joy, aspirante scrittrice, ha scritto un'appassionata lettera. I due si incontrano e fanno amicizia, quindi lei torna in America dove divorzia dal marito. Trasferitasi a Londra, reincontra Jack, ormai innamorato, e gli chiede di sposarla per ottenere la nazionalità, ma, quando lei si ammala di cancro sarà lui a chiederla in sposa, questa volta per amore.
L’amore unisce, la morte separa.
Prima di morire, Joy trascorre gli ultimi giorni di vita nella casa di Oxford di Jack. E’ lì che Joy “inchioda” l’evasivo Jack alla realtà delle cose. All’inevitabile distacco che li attende.
Come?
Consegnandogli questa frase: “La felicità di oggi, Jack, contiene il dolore di domani”.
Qualche tempo dopo, Jack accompagnerà il piccolo Douglas in una passeggiata. E’ la scena finale del film. Diverse stagioni si sono ormai avvicendate, una dopo l'altra. Il ricordo si è separato dall'afflizione. Questa cosa alcuni psicanalisti la chiamano “isolamento dell’affetto”. Altri, accettazione e distacco.
Una meravigliosa giornata di sole primaverile, in mezzo alla natura. Una splendida valle alpina.
Il vuoto rimane, la vita prosegue. Un vivacissimo Border Collie corre allegro a fianco di Douglas, che appare già più sereno. Il cagnolino, saltellando, abbaia festoso, correndogli attorno in giro, manifestando così al ragazzino tutto il suo affetto e il proprio attaccamento. La fedeltà.
L'anziano Jack cammina pensieroso, ma in direzione del sole. La narrazione dà voce al suo dialogo interiore:
“Il dolore di oggi, mio amato Douglas... fa parte della felicità di ieri”.
- stop that train, I'm leavin' -