Le parti emotive possono essere diverse e ciascuno di noi ha le proprie, ma le seguenti sono quelle che si riscontrano più spesso, come ben descrive ancora Marta Erba, terapeuta milanese:
La parte attaccamento: è la parte bambina che vuole sentirsi amata e che è alla ricerca di sorrisi affettuosi e parole rassicuranti; è servita (e serve ancora) a richiamare il supporto degli altri.
La parte fuga: è la parte che fugge dalle emozioni soverchianti attraverso modalità che permettono di rendere queste emozioni più sopportabili, ma che si traducono spesso in comportamenti a rischio (dipendenze, disturbi alimentari), in procrastinazione o evitamenti (evitare di pensare, di arrabbiarsi, di parlare di un argomento). Questa parte è servita a tollerare e padroneggiare emozioni intense e disturbanti come la vergogna, la rabbia o la paura, fornendoci un senso di potere e di controllo, oppure permettendoci di trovare sollievo (grazie al rilascio di endorfine).
La parte congelamento: è una parte terrorizzata che cerca di passare inosservata immobilizzandosi nei movimenti e nella parola. Il processo coinvolto è quello biologicamente antico della morte apparente, mediato dal sistema vagale dorsale (come ben spiegato da Steven Porges nella teoria polivagale): se il “predatore” non mi vede o “mi crede morto” posso sperare di sopravvivere.
La parte sottomessa: è la parte che fa di tutto per compiacere, incapace di dire no, convinta di essere indegna e inadeguata, e che sia sempre colpa sua. A suo tempo è servita a evitare punizioni o a mantenere legami importanti per la sopravvivenza (il suo slogan è: “compiaci!”).
La parte attacco: è una parte ipervigile, controllante, giudicante e svalutante, carica di rabbia, talvolta rivolta contro di sé. È servita a regolare le emozioni e a proteggere le parti più piccole e vulnerabili, utilizzando modalità aggressive (spesso apprese durante il corso della vita da un genitore); se la rabbia è rivolta verso di sé, l’utilità può essere stata quella di rappresentare dentro di sé il genitore aggressivo allo scopo di controllarlo meglio e non venire ogni volta sopraffatti da un’aggressione imprevista; oppure all’opposto – in caso di genitori poco presenti o incapaci di fornire limiti e regole – è servita a costruire un genitore vicario (ma eccessivamente rigido e inflessibile, come può essere un genitore irreale, “inventato” da un bambino).
La parte negazionista: è una parte che anestetizza, nega e minimizza. È un modo primitivo di difendersi dalla realtà: sopravvivo più facilmente se non sento niente e ridimensiono quello che è successo (con il rischio, però, di continuare a esporsi ai pericoli).
La parte idealizzante: è quella che continua a ritenere di aver avuto “genitori fantastici” per difendersi dall’odio nei loro confronti per quello che hanno o non hanno fatto (o per non riconoscere le loro gravi inadeguatezze). Oppure che si racconta di “essere una persona speciale” per difendersi dall’idea di non valere nulla (è la cosiddetta difesa narcisistica), o ancora che idealizza un partner violento o abusante (“in realtà mi ama, mi vuole bene”). Si tratta di una percezione distorta che associa un forte sentimento positivo a un’immagine (di sé o dell’altro) allo scopo di spegnere i vissuti traumatici.
La parte suicidaria: è la parte che ha pensieri di morte, che vuole morire e immagina modi per togliersi la vita. Perfino una parte del genere va accolta e rispettata: è infatti servita a coltivare un “piano B” che permettesse di tollerare emozioni dolorose e distruttive senza recare danno a sé e al proprio corpo.
L’obiettivo del “lavoro con le parti”, come spiega Daniel Siegel (autore di La mente relazionale – neurobiologia dell’esperienza interpersonale), è l’attaccamento sicuro riguadagnato. In altre parole: se durante l’infanzia, o nel percorso dell’esistenza ci sono state esperienze traumatiche e disturbanti che hanno compromesso l’attaccamento (e quindi la capacità di entrare in relazione con gli altri), non si è condannati a convivere con un perenne senso di insicurezza: è possibile riparare ai traumi subiti prendendoci cura delle nostre parti traumatizzate, restituendo loro quella sollecitudine, tenerezza e attenzione che a suo tempo non hanno avuto.
Per “guadagnare” tale resilienza e accettarsi davvero in maniera incondizionata è indispensabile sviluppare una relazione con tutte le parti di noi: quelle ferite e bisognose, quelle refrattarie alla vulnerabilità, quelle che sono sopravvissute attraverso la distanza e il diniego, le parti che amiamo, quelle che odiamo, quelle perfino che ci fanno paura.
Poiché i poeti esprimono meglio degli psicologi i concetti e le esperienze umane grazie alla loro capacità di simbolizzazione, desidero chiudere questo post con i versi di Juan Ramon Jimenez, poeta spagnolo premio Nobel per la letteratura nel 1956:
“Io non sono io
Sono colui
che cammina accanto a me senza che io lo veda;
che a volte sto per vedere,
che a volte dimentico.
Colui che tace, sereno, quando parlo,
colui che perdona, dolce, quando odio,
colui che passeggia là dove non sono,
colui che resterà qui quando morirò”.
https://www.youtube.com/watch?v=RUHQY0wGcjE