IL FILTRO DELL'OLIO
Si chiamava Angelo Sartore.
Sguardo svelto, furbo e sagace: il suo marchio di fabbrica.
Immagina che l'officina, piuttosto che in via San Polo, a quel tempo fosse stata collocata in Inghilterra. Magari nel Kent, anche lì in un borgo di provincia, in mezzo alla campagna fiorita.
Fantastico, pensarla nei pressi del circuito automobilistico di Brands Hatch.
Guardalo, nella sua tuta blu, ovviamente macchiata d'olio saturo, la chiave inglese in mano.
Leggi bene la scritta sull'insegna, il frontespizio, sopra l'ingresso: “Tailor King, Power In The Wings” (traduzione al ragù: “SartoRe, la Potenza Nelle Ali”).
Vabbè, se Clint Eastwood un giorno gli dedicherà un film, queste saranno le dritte utili.
Nella realtà, invece, per noi ragazzi, era semplicemente un mago.
Specie da quella volta che s'era inventato il doppio carburatore.
Ingegno tradotto in ingranaggi. Meccanica allo stato dell'arte. Pillole di poesia, entro scatole cardaniche. Questo, fu Angelo Sartore.
Io a quel tempo avevo un Gilera 50 enduro. I miei due amici, Ennio, un Fantic Motor Caballero e Massimo, un Aspes 50 Cross. Forse “Navaho” come sigla.
Il guaio sta nel fatto che Massimo era suo figlio. Il figlio di Angelo. Un guaio, sì: perché nelle elaborazioni del motore - lo puoi ben intuire - io ed Ennio restavamo inevitabilmente, e sempre, spacciati.
Saldare la lega d'alluminio, questo era il problema. La difficoltà. Pochi ci riuscivano.
Per il “doppio”, Angelo nell'inconscio deve aver avuto sicuramente un archetipo, più o meno junghiano. Ti dico solo che nell’occasione di una sfilata di carri carnevaleschi, quell'anno a metà negli '80 del secolo scorso, aveva realizzato “la machina più pazza del mondo”. Esiste anche qualche documentazione filmata, in rete. Era riuscito a tagliare in due - invisibilmente - una Citroen Dyane che al momento opportuno, tra lo stupore del pubblico a bocca aperta, mezza la sganciava che rimaneva ferma come un vagone defunto lungo la ferrovia, mentre con l'altra se ne filava via, sghignazzando allegro e slalomando tra la gente.
Bene, Massimo un bel giorno arriva in piazza, ovviamente a cavallo del suo Aspes. Lo guardiamo, e ci accorgiamo che al posto del carburatore da 20 mm., la maggior aspirazione cui noi osavamo per “truccare” il motore al posto del misero “14” prescritto dal codice stradale, lui fa sfoggio di ben due carburatori. Sì, da 14 mm. come da normativa, ma uniti in un collettore di aspirazione sdoppiato e mirabilmente realizzato tramite una magistrale saldatura che pareva uscito di fabbrica, ancor senza brevetto.
Hai capito, il genio di Angelo Sartore? 14 + 14 mica fa venti... 28, fa!
Ventotto, mannaggia!
E al carabiniere che ti fermava – casomai – potevi raccontare che uno dei due “14” era “di riserva”.
Mi trovavo l'altra sera nella medesima piazza. Una quarantina di anni dopo, fors'anche qualcuno in più.
Notte di Natale. Appena usciti dalla messa, a riscaldarci con il the caldo, o la cioccolata, offerta dalle associazioni di volontariato del Comune. Attorno al gazebo, tante persone; ci si scambia gli auguri, qualche chiacchera con gli amici.
Inevitabilmente il discorso cade sui temi di quest'era “social”. Pareri, commenti, riflessioni. E ti ritrovi a dire: “Caspita, per fortuna che ci conoscevamo prima, con quello lì, altrimenti a leggere quello che scrive su Facebook, col cavolo, che oggi sarebbe un amico”. L'avresti ritenuto un mona, o un esaltato.
Più probabilmente, una miscela mal riuscita di entrambi gli ingredienti.
Quanta cattiveria, quanta frustrazione. Quanta rabbia, quanta inutile aggressività distruttiva. Facebook sta diventando un brutto posto, vien da pensare a volte. Affermazioni senza filtro, prive di ogni analisi. Sessismo gratuito, ignoranza (letteralmente = “non conoscenza”) elevata a camera di consiglio.
E’il tema del male. Dell’ombra junghiana. O del peccato, a seguire Agostino di Ippona. "Il male esiste - scrive Jung - nessuno sta fuori dalla nera Ombra collettiva dell’umanità. Solo gli sciocchi possono trascurare a lungo le premesse della propria natura. La natura umana è capace di malvagità infinita, e le cattive azioni sono altrettanto reali di quelle buone".
Servono didascalie? Guardavo l’altra sera un film sul tema dei “desaparecidos” durante il periodo della dittatura argentina. Su questo, come sugli altri genocidi della storia, si fatica a sostenere lo sguardo. Oceani di dolore, torture, sofferenza, lutti. Traumi che serviranno intere generazioni, per elaborarli.
Il potere del male, delle tossine, del veleno e dell’inquinamento - anche ideologico - sono purtroppo forti: nove mesi per mettere al mondo un essere umano (e una vita per crescerlo), una stupida pallottola per ucciderlo. In un istante. Come in un motore: bastano poche sbavature di metallo, infimi trucioli a provocare un grippaggio, una fusione.
A questo, servono i filtri dell’olio!
Si, credo davvero che una piazza - una piazza vera, fatta di persone in carne ed ossa - che si incontrano viso a viso, sia pur sotto le berrette di lana data la temperatura, sia il posto giusto, per questi discorsi. Anche nella notte di Natale.
Perché?
Lo ribadisce un recente articolo di “State of Mind”: la Piazza oggi, per molti, è diventata quella dei social media. Il dato tuttavia che più impressiona è la mancanza di consapevolezza (o assenza di filtri, dillo come vuoi) che ciò che scrivi viene letto da tutti, e rimane a testimonianza, anche quando le emozioni evaporano.
Un tempo le discussioni si risolvevano attorno a un tavolo del bar, e la mattina dopo tutti al lavoro.
C'era dell'altro cui pensare. E dedicarsi. Adesso invece capita di leggere “sparate” senza consapevolezza dei ruoli e delle competenze: repliche e controrepliche, astiosità irrisolte in un’escalation senza freni. Facebook è spesso un palcoscenico di psicopatologia spicciola. Quella della vita quotidiana, come la definiva Freud. Quella cioè degli atti mancati, dei lapsus e dei falsi ricordi. E di piccoli “deliri di onnipotenza”.
Ce lo chiedevamo, l’altra sera, con il bicchiere caldo in mano: com’è possibile che l’insulto, la squalifica, la diffamazione, il razzismo siano stati sdoganati al ruolo di stili normali di comunicazione?
La passione per l'acetilene, per il saldatore, gli era rimasta. Forse troppo.
Lo ricordo come fosse ieri. All’improvviso, un botto terrificante.
Una nuvola di fumo. Due case più in là. Giusto dove stava l’officina, in via San Polo.
I segni delle ustioni sul volto non si sarebbero cancellati. Mai più. Come Niki Lauda, il pilota. L’asso della Ferrari.
Aveva esagerato nell’intraprendenza. Un’operazione di saldatura troppo vicina a un serbatoio ancora saturo di combustibile. Un’imprudenza, e il nostro caro Angelo, il meccanico con le ali, se ne stava davvero volando via. Un sabato pomeriggio, appena dopo pranzo.
Invece la buona sorte, o il suo omonimo custode - quello che si dice il buon Dio ci abbia posto a guardaspalle - ce l’ha tenuto quaggiù, ancora un bel po’.
Genio, e sregolatezza; fantasia, e più di qualche briciolo di follia.
Vabbè, un po' canaglia lo era sempre stato, anche lui, Angelo Sartore, “The Tailor King”.
Pensa a quella volta della 126. La Fiat, 126. Bianca, la prima macchina che ho guidato. Ci ho fatto la patente. Era di mia mamma, che ci andava a consegnare le ricette della farmacia. Ma vuoi mettere, con quelle due strisce di nastro adesivo nero? Le avevo tirate, belle dritte e parallele, dal paraurti anteriore fino al cofano motore, che stava dietro. Una larga, e una stretta. Proprio come un’auto da rally. Quasi la Lancia Fuvia HF di Franco Munari, che avevo comprato (il nastro adesivo) da “Goti”, la ferramenta del paese. Un negozio in cui ci trovavi di tutto. Di tutto. “Goti: I’ve Got It!” è il payoff pubblicitario, se anche quest’altro glorioso esercente paesano lo immagini nel Kent.
Allora, ti stavo raccontando del “canaglia”. C'era un problema con la pompa dell'olio, evidentemente. La spia rossa sul cruscotto me lo segnalava. Ammetto di essere stato sempre un po' pignolo, e fors’anche è colpa mia, che gli ho rotto troppo le scatole, con la mia insistenza. Ma non dimenticherò, mai, lo giuro, quel sorriso da sotto il berrettino che dopo l’incidente calzava sempre, con cui mi ha congedato: “Vai tranquillo, che quella spia non la vedrai mai più accendersi. Mai più. Garantito”.
Ed era vero. Ho scoperto, qualche tempo dopo, il perché.
Aveva riparato la pompa dell’olio, sì.
Ma aveva anche disconnesso il filo elettrico della relativa spia di segnalazione.
Davvero, quella spia non si sarebbe mai più accesa. Mai più.
Forse, effettivamente, con la mia insistenza devo averlo importunato oltre una giusta misura, il buon Angelo.
Ma torniamo a questa notte, di Natale. In questa piazza, con questi amici fuori dalla chiesa. Allo scambio di idee su come la gente sembri più incattivita, più chiusa nel proprio orticello, impaurita, sospettosa, aggressiva.
Ripenso a quella lettura, a quell’articolo. Si parla degli stili di leadership. Nella definizione accademica e manageriale, è legata ad atteggiamenti comunicativi di apertura. Al giorno d’oggi, però, sta riemergendo una tipologia di leadership legata al rifiuto dell’empatia e della diplomazia. Viene definita come “leadership negativa”. Gli esempi, non occorre citarli. Crea un senso di sicurezza e di identità, ma ti fa pagare il conto in termini di libertà. Di intelligenza, di capacità di “saper leggere” dentro gli eventi, le culture, le coscienze. Di apertura mentale e credito all’esperienza.
La leadership negativa si basa sulla negazione, sul rifiuto, sulla difesa delle proprie posizioni a priori e sulla squalifica dell’avversario. Una risposta sbagliata a problemi reali, ancora una volta.
Hai capito perché è sempre più probabile che tanti utenti “social”, dietro certi cattivi maestri, scordino ogni freno inibitorio, ogni pausa di riflessività, ogni ragionamento critico e sparino gas, spruzzino olio bruciato addosso alla gente, indistintamente, come un vecchio catorcio che ha i filtri intasati e le valvole fuse?
I neurobiologi localizzano nelle aree prefrontali della corteccia cerebrale la funzione di “regolazione emotiva”, così la chiamano. Mia nonna avrebbe più semplicemente detto “Dòpara el xarvéo” (“Usa il cervello”).
Si chiama anche discernimento. Riflessività. Consapevolezza. In ogni caso, sempre e comunque: rispetto.
Angelo Sartore aveva sostituito il filtro dell’olio. Però, adesso che vent’anni non li ho più - e da un pezzetto, ohibò - mi avrebbe sicuramente detto prima che se non mi fossi dato una calmata, mi avrebbe tagliato anche il filo della spia. Ne sono sicuro. Me l’avrebbe detto. Stavolta si, me l’avrebbe detto.
Perché i filtri vanno puliti. Vanno tenuti attivi. Anche quelli della comunicazione.
Specie in “Piazza Facebook”.
Sennò capitano i guai. E ti ritrovi col motore - e le relazioni interpersonali - “a ramengo”.
Chissà dove sarà adesso, su cosa starà ancora “trafficando”, Angelo “The Tailor King”.
Io credo che Clint Eastwood ce lo raffigurerebbe ancora là, nella campagna inglese.
Magari mentre sta uscendo dall’autofficina, per un giro di prova col bolide appena riparato.
Sostituito anche il filtro dell’olio, obviously!
Finestrino - anzi: deflettore - aperto, autoradio accesa a un discreto volume.
Cosa sta ascoltando?
Sicuramente questa:
“Quel gran genio del mio amico
Lui saprebbe cosa fare
Con un cacciavite in mano fa miracoli
Con le mani sporche d'olio
Pulirebbe forse il filtro
Soffiandoci un po'
Scinderesti poi la gente
Quella chiara dalla no
E potresti ripartire
Certamente non volare ma viaggiare.
Sì, viaggiare
Evitando le buche più dure
Gentilmente senza fumo con amore…”
- senza per questo ricadere nelle tue paure -
Sguardo svelto, furbo e sagace: il suo marchio di fabbrica.
Immagina che l'officina, piuttosto che in via San Polo, a quel tempo fosse stata collocata in Inghilterra. Magari nel Kent, anche lì in un borgo di provincia, in mezzo alla campagna fiorita.
Fantastico, pensarla nei pressi del circuito automobilistico di Brands Hatch.
Guardalo, nella sua tuta blu, ovviamente macchiata d'olio saturo, la chiave inglese in mano.
Leggi bene la scritta sull'insegna, il frontespizio, sopra l'ingresso: “Tailor King, Power In The Wings” (traduzione al ragù: “SartoRe, la Potenza Nelle Ali”).
Vabbè, se Clint Eastwood un giorno gli dedicherà un film, queste saranno le dritte utili.
Nella realtà, invece, per noi ragazzi, era semplicemente un mago.
Specie da quella volta che s'era inventato il doppio carburatore.
Ingegno tradotto in ingranaggi. Meccanica allo stato dell'arte. Pillole di poesia, entro scatole cardaniche. Questo, fu Angelo Sartore.
Io a quel tempo avevo un Gilera 50 enduro. I miei due amici, Ennio, un Fantic Motor Caballero e Massimo, un Aspes 50 Cross. Forse “Navaho” come sigla.
Il guaio sta nel fatto che Massimo era suo figlio. Il figlio di Angelo. Un guaio, sì: perché nelle elaborazioni del motore - lo puoi ben intuire - io ed Ennio restavamo inevitabilmente, e sempre, spacciati.
Saldare la lega d'alluminio, questo era il problema. La difficoltà. Pochi ci riuscivano.
Per il “doppio”, Angelo nell'inconscio deve aver avuto sicuramente un archetipo, più o meno junghiano. Ti dico solo che nell’occasione di una sfilata di carri carnevaleschi, quell'anno a metà negli '80 del secolo scorso, aveva realizzato “la machina più pazza del mondo”. Esiste anche qualche documentazione filmata, in rete. Era riuscito a tagliare in due - invisibilmente - una Citroen Dyane che al momento opportuno, tra lo stupore del pubblico a bocca aperta, mezza la sganciava che rimaneva ferma come un vagone defunto lungo la ferrovia, mentre con l'altra se ne filava via, sghignazzando allegro e slalomando tra la gente.
Bene, Massimo un bel giorno arriva in piazza, ovviamente a cavallo del suo Aspes. Lo guardiamo, e ci accorgiamo che al posto del carburatore da 20 mm., la maggior aspirazione cui noi osavamo per “truccare” il motore al posto del misero “14” prescritto dal codice stradale, lui fa sfoggio di ben due carburatori. Sì, da 14 mm. come da normativa, ma uniti in un collettore di aspirazione sdoppiato e mirabilmente realizzato tramite una magistrale saldatura che pareva uscito di fabbrica, ancor senza brevetto.
Hai capito, il genio di Angelo Sartore? 14 + 14 mica fa venti... 28, fa!
Ventotto, mannaggia!
E al carabiniere che ti fermava – casomai – potevi raccontare che uno dei due “14” era “di riserva”.
Mi trovavo l'altra sera nella medesima piazza. Una quarantina di anni dopo, fors'anche qualcuno in più.
Notte di Natale. Appena usciti dalla messa, a riscaldarci con il the caldo, o la cioccolata, offerta dalle associazioni di volontariato del Comune. Attorno al gazebo, tante persone; ci si scambia gli auguri, qualche chiacchera con gli amici.
Inevitabilmente il discorso cade sui temi di quest'era “social”. Pareri, commenti, riflessioni. E ti ritrovi a dire: “Caspita, per fortuna che ci conoscevamo prima, con quello lì, altrimenti a leggere quello che scrive su Facebook, col cavolo, che oggi sarebbe un amico”. L'avresti ritenuto un mona, o un esaltato.
Più probabilmente, una miscela mal riuscita di entrambi gli ingredienti.
Quanta cattiveria, quanta frustrazione. Quanta rabbia, quanta inutile aggressività distruttiva. Facebook sta diventando un brutto posto, vien da pensare a volte. Affermazioni senza filtro, prive di ogni analisi. Sessismo gratuito, ignoranza (letteralmente = “non conoscenza”) elevata a camera di consiglio.
E’il tema del male. Dell’ombra junghiana. O del peccato, a seguire Agostino di Ippona. "Il male esiste - scrive Jung - nessuno sta fuori dalla nera Ombra collettiva dell’umanità. Solo gli sciocchi possono trascurare a lungo le premesse della propria natura. La natura umana è capace di malvagità infinita, e le cattive azioni sono altrettanto reali di quelle buone".
Servono didascalie? Guardavo l’altra sera un film sul tema dei “desaparecidos” durante il periodo della dittatura argentina. Su questo, come sugli altri genocidi della storia, si fatica a sostenere lo sguardo. Oceani di dolore, torture, sofferenza, lutti. Traumi che serviranno intere generazioni, per elaborarli.
Il potere del male, delle tossine, del veleno e dell’inquinamento - anche ideologico - sono purtroppo forti: nove mesi per mettere al mondo un essere umano (e una vita per crescerlo), una stupida pallottola per ucciderlo. In un istante. Come in un motore: bastano poche sbavature di metallo, infimi trucioli a provocare un grippaggio, una fusione.
A questo, servono i filtri dell’olio!
Si, credo davvero che una piazza - una piazza vera, fatta di persone in carne ed ossa - che si incontrano viso a viso, sia pur sotto le berrette di lana data la temperatura, sia il posto giusto, per questi discorsi. Anche nella notte di Natale.
Perché?
Lo ribadisce un recente articolo di “State of Mind”: la Piazza oggi, per molti, è diventata quella dei social media. Il dato tuttavia che più impressiona è la mancanza di consapevolezza (o assenza di filtri, dillo come vuoi) che ciò che scrivi viene letto da tutti, e rimane a testimonianza, anche quando le emozioni evaporano.
Un tempo le discussioni si risolvevano attorno a un tavolo del bar, e la mattina dopo tutti al lavoro.
C'era dell'altro cui pensare. E dedicarsi. Adesso invece capita di leggere “sparate” senza consapevolezza dei ruoli e delle competenze: repliche e controrepliche, astiosità irrisolte in un’escalation senza freni. Facebook è spesso un palcoscenico di psicopatologia spicciola. Quella della vita quotidiana, come la definiva Freud. Quella cioè degli atti mancati, dei lapsus e dei falsi ricordi. E di piccoli “deliri di onnipotenza”.
Ce lo chiedevamo, l’altra sera, con il bicchiere caldo in mano: com’è possibile che l’insulto, la squalifica, la diffamazione, il razzismo siano stati sdoganati al ruolo di stili normali di comunicazione?
La passione per l'acetilene, per il saldatore, gli era rimasta. Forse troppo.
Lo ricordo come fosse ieri. All’improvviso, un botto terrificante.
Una nuvola di fumo. Due case più in là. Giusto dove stava l’officina, in via San Polo.
I segni delle ustioni sul volto non si sarebbero cancellati. Mai più. Come Niki Lauda, il pilota. L’asso della Ferrari.
Aveva esagerato nell’intraprendenza. Un’operazione di saldatura troppo vicina a un serbatoio ancora saturo di combustibile. Un’imprudenza, e il nostro caro Angelo, il meccanico con le ali, se ne stava davvero volando via. Un sabato pomeriggio, appena dopo pranzo.
Invece la buona sorte, o il suo omonimo custode - quello che si dice il buon Dio ci abbia posto a guardaspalle - ce l’ha tenuto quaggiù, ancora un bel po’.
Genio, e sregolatezza; fantasia, e più di qualche briciolo di follia.
Vabbè, un po' canaglia lo era sempre stato, anche lui, Angelo Sartore, “The Tailor King”.
Pensa a quella volta della 126. La Fiat, 126. Bianca, la prima macchina che ho guidato. Ci ho fatto la patente. Era di mia mamma, che ci andava a consegnare le ricette della farmacia. Ma vuoi mettere, con quelle due strisce di nastro adesivo nero? Le avevo tirate, belle dritte e parallele, dal paraurti anteriore fino al cofano motore, che stava dietro. Una larga, e una stretta. Proprio come un’auto da rally. Quasi la Lancia Fuvia HF di Franco Munari, che avevo comprato (il nastro adesivo) da “Goti”, la ferramenta del paese. Un negozio in cui ci trovavi di tutto. Di tutto. “Goti: I’ve Got It!” è il payoff pubblicitario, se anche quest’altro glorioso esercente paesano lo immagini nel Kent.
Allora, ti stavo raccontando del “canaglia”. C'era un problema con la pompa dell'olio, evidentemente. La spia rossa sul cruscotto me lo segnalava. Ammetto di essere stato sempre un po' pignolo, e fors’anche è colpa mia, che gli ho rotto troppo le scatole, con la mia insistenza. Ma non dimenticherò, mai, lo giuro, quel sorriso da sotto il berrettino che dopo l’incidente calzava sempre, con cui mi ha congedato: “Vai tranquillo, che quella spia non la vedrai mai più accendersi. Mai più. Garantito”.
Ed era vero. Ho scoperto, qualche tempo dopo, il perché.
Aveva riparato la pompa dell’olio, sì.
Ma aveva anche disconnesso il filo elettrico della relativa spia di segnalazione.
Davvero, quella spia non si sarebbe mai più accesa. Mai più.
Forse, effettivamente, con la mia insistenza devo averlo importunato oltre una giusta misura, il buon Angelo.
Ma torniamo a questa notte, di Natale. In questa piazza, con questi amici fuori dalla chiesa. Allo scambio di idee su come la gente sembri più incattivita, più chiusa nel proprio orticello, impaurita, sospettosa, aggressiva.
Ripenso a quella lettura, a quell’articolo. Si parla degli stili di leadership. Nella definizione accademica e manageriale, è legata ad atteggiamenti comunicativi di apertura. Al giorno d’oggi, però, sta riemergendo una tipologia di leadership legata al rifiuto dell’empatia e della diplomazia. Viene definita come “leadership negativa”. Gli esempi, non occorre citarli. Crea un senso di sicurezza e di identità, ma ti fa pagare il conto in termini di libertà. Di intelligenza, di capacità di “saper leggere” dentro gli eventi, le culture, le coscienze. Di apertura mentale e credito all’esperienza.
La leadership negativa si basa sulla negazione, sul rifiuto, sulla difesa delle proprie posizioni a priori e sulla squalifica dell’avversario. Una risposta sbagliata a problemi reali, ancora una volta.
Hai capito perché è sempre più probabile che tanti utenti “social”, dietro certi cattivi maestri, scordino ogni freno inibitorio, ogni pausa di riflessività, ogni ragionamento critico e sparino gas, spruzzino olio bruciato addosso alla gente, indistintamente, come un vecchio catorcio che ha i filtri intasati e le valvole fuse?
I neurobiologi localizzano nelle aree prefrontali della corteccia cerebrale la funzione di “regolazione emotiva”, così la chiamano. Mia nonna avrebbe più semplicemente detto “Dòpara el xarvéo” (“Usa il cervello”).
Si chiama anche discernimento. Riflessività. Consapevolezza. In ogni caso, sempre e comunque: rispetto.
Angelo Sartore aveva sostituito il filtro dell’olio. Però, adesso che vent’anni non li ho più - e da un pezzetto, ohibò - mi avrebbe sicuramente detto prima che se non mi fossi dato una calmata, mi avrebbe tagliato anche il filo della spia. Ne sono sicuro. Me l’avrebbe detto. Stavolta si, me l’avrebbe detto.
Perché i filtri vanno puliti. Vanno tenuti attivi. Anche quelli della comunicazione.
Specie in “Piazza Facebook”.
Sennò capitano i guai. E ti ritrovi col motore - e le relazioni interpersonali - “a ramengo”.
Chissà dove sarà adesso, su cosa starà ancora “trafficando”, Angelo “The Tailor King”.
Io credo che Clint Eastwood ce lo raffigurerebbe ancora là, nella campagna inglese.
Magari mentre sta uscendo dall’autofficina, per un giro di prova col bolide appena riparato.
Sostituito anche il filtro dell’olio, obviously!
Finestrino - anzi: deflettore - aperto, autoradio accesa a un discreto volume.
Cosa sta ascoltando?
Sicuramente questa:
“Quel gran genio del mio amico
Lui saprebbe cosa fare
Con un cacciavite in mano fa miracoli
Con le mani sporche d'olio
Pulirebbe forse il filtro
Soffiandoci un po'
Scinderesti poi la gente
Quella chiara dalla no
E potresti ripartire
Certamente non volare ma viaggiare.
Sì, viaggiare
Evitando le buche più dure
Gentilmente senza fumo con amore…”
- senza per questo ricadere nelle tue paure -