“Scusa, ma tu l’hai mai visto il primo che arriva dopo l’ultimo? Cosa ultimo si chiama a fare, se dopo di lui arriva il primo?”
E’ l’indovinello – un po’ idiota, lo riconosco – con il quale mi piace stuzzicare i bambini fino agli otto anni, l’età nella quale, a dire di Jean Piaget, il padre della psicologia dell’Età Evolutiva, si consolida il pensiero cosiddetto “reversibile”. La capacità, in altre parole, di compiere alcune operazioni mentali elementari, sia di ordine spaziale sia di ordine logico e numerico, e della acquisizione di un certo numero di nozioni che formano la base del ragionamento comune (lunghezza, durata, classe, serie, ecc.)
Idiota, l’indovinello, fino a un certo punto, in verità. 31 dicembre. Ultimo giorno dell’anno.
L’anno che finisce, che quattro stagioni ha visto transitare, alternandosi in sequenza.
A mezzanotte in punto, accompagnato da botti e brindisi, capiterà – atteso e puntualissimo, a spaccare il minuto secondo manco fossimo tutti a Greenwich – il primo.
Capodanno, il primo giorno del nuovo entrante.
Quindi auguri, abbracci e baci dentro auspici di benevolente cambiamento. In meglio, obviously.
Cambiamento. La cosa più facile del mondo, potrebbe sembrare.
E invece no.
Perché a fronte alcune parti di noi che vorrebbero trasformarsi, evolvere, crescere e maturare, altre si oppongono, strenuamente, attaccate come una cozza sullo scoglio.
Alcune parti di noi spingono sull’acceleratore, altre tirano il freno a mano.
Per qual motivo?
Perché cambiare costa, e per certi aspetti incute timore. Paura.
Meglio allora la sicurezza delle abitudini note, la comoda “comfort-zone” che tanto protegge e rassicura. A questo tendono, alcune “parti” di noi. A proteggerci.
“Parti”, si. E non stiamo parlando del disturbo schizofrenico, ma della normale quotidianità. Nonostante ci piaccia considerarci “uno”, arriva – inevitabile prima o poi – il momento nel quale ci scopriamo dentro non solo Dr. Jekill e Mr. Hide, ma addirittura una vociante e tormentata assemblea condominiale. Stati d’animo e “voci” che sentiamo dentro, a volte in concorde sintonia, altre contrapposte e stridenti in quella sorta di lotta greco-romana del conflitto interiore.
Le “parti” non sono stupide. Nessuna, lo è. Cercano semplicemente un vantaggio. Tutti lo facciamo. Le due squadre principali? Chiamiamole esigenza di novità e bisogno di sicurezza. Curiosità versus protezione. Crescita contro mantenimento.
Due squadre. Come in una partita a calcio.
Come in politica, come nella società, come in famiglia.
Allora il mio augurio stasera è che siano 90 minuti - anzi dodici mesi - avvincenti. Da divertirsi, che nel piacere sta l’ingrediente per ogni successo. Quando ci divertiamo, le cose riescono bene. Non avvertiamo fatica; anzi lo sforzo - atletico e/o mentale - ci genera quel gusto, quella sorta di godimento che conduce alla soddisfazione per l’opera compiuta.
Che sia una partita divertente. Aldilà delle paure, dei timori, delle “incongruenze” che possiamo constatare.
Siamo umani, dopotutto.
Siamo umani, soprattutto.
Buon 2023!