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TE LO LEGGO NEGLI OCCHI

12/5/2020

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Foto
Estate 1998. Vacanze nel Gargano, Puglia.
Terra sapida, d’aromi fragranti. Spiaggia di Vieste.
Profumi sensuali e frizzanti si spargono nell’aria: dai carnosi limoni, al rosmarino, al lentisco, al fico mediterraneo.
 
Sto leggendo un libro avvincente, sotto l’ombrellone.
Così Carolina, poco più in là.
In mezzo, le due bimbe. Piccine, allora, tutte intente alla costruzione di un castello. Secchiello e palette, in quel silenzio da concentrazione operosa, così desiderato, che i genitori vorrebbero per sempre.
 
Un tempo dilatato, piacevole e libero dagli orologi. Lo stress dell’anno lavorativo l’hai già buttato fuori dalla portiera, al casello autostradale del capoluogo dell’Emilia. Si dirà pur “sbolognato” per qualcosa, o no?
 
Giro lentamente la pagina, uno sguardo al cantiere di sabbia edilizia in movimento lì sotto, vedo solo Sara e le chiedo: “Tua sorella, dov’è?”.
“Mia sorella? Non so… era andata a prendere l’acqua…”.

Lo sguardo si trasforma in raggio di scansione, dentro una frazione laser di secondo. Punto dritto alla riva, cerco un caschetto biondo saltando ininterrottamente da un fotogramma al successivo. Niente.
Convoco qualche passante, mi rivolgo specialmente alle mamme. Per quell’istinto darwiniano che le rende ancestrali custodi della prole. Pressoché infallibili, dicono, nella ricerca.
Invece, nulla.
 
L’apprensione scala rapidamente i gradini dell’angoscia, specie per Carolina. Tasto con i palmi delle mani i centimetri d’acqua appresso e più lontani dalla riva. Sono quegli istanti in cui tutta la vita entra in un cono fattosi sottilissimo, all’estremità.
 
Le domande più terribili inondano i circuiti della mente: qualcuno l’avrà rapita, in questi giorni in cui non si parla che di pedofili? Sarà caduta in qualche fossa insidiosa di questo mare, così scandalosamente azzurro? Una bimba di quattro anni, quanto mai lontano si sarà potuta spingere? Natalia, sei ancora viva?
 
In quei momenti d’adrenalina in overdose, ogni voto, qualunque rinuncia, qualsiasi baratto all’esistenza o promessa all’eternità ti esce a raffica. Con la gravità irreversibile di una promessa sacra.
La ritroveremo, mai più?
Non c’è prezzo, non c’è condizione e cosa che valga più di poter rivedere tua figlia, riprenderla in braccio, stringerla forte, che alcun drago, demone o incidente te la possa mai più sottrarre alla vista.
Nulla.
 
Il corpo umano ha un unico sito in cui il sistema nervoso risulta direttamente esposto. Lo spiega Allan Shore, uno dei maggiori esperti nel campo delle neuroscienze affettive. E’ la retina. Perfino la costrizione e l’espansione della pupilla sono dei regolatori inconsci delle modalità in cui ci relazioniamo agli altri.
Osserva lo sguardo degli innamorati. Rivivili tu stesso, quei momenti di estasi, di fusione simbiotica. E’ l’esperienza dell’”attaccamento sicuro”. In psicologia e psicoterapia, questo concetto ha l’importanza che la teoria della relatività di Einstein ha avuto in fisica. Stiamo riuscendo a dare un nome, una logica e una tracciabilità a fenomeni che in fondo la poesia, la letteratura, l’esperienza stessa del vivere, da sempre conoscono. Quelli dell’amore, e della nevrosi nelle sue multiformi declinazioni. Della salute mentale, e dei disturbi di personalità.
 
Nessuna comunicazione implicita è più intensa del contatto oculare: mamma e bambino iniziano un prolungato gioco faccia-a-faccia e un reciproco scambio di sguardi già a due mesi di vita. Guardare profondamente negli occhi un altro essere umano fa nascere stati gioiosi di arousal (traducilo come “risveglio”, risposta vitale del sistema nervoso) sensibilmente elevato, che si amplificano reciprocamente.
Esattamente come avviene agli innamorati.
 
E’ stato un contatto che ho avvertito al gomito destro. Stavo ancora lì, sulla battigia. Totalmente confuso, smarrito, disorientato. Sono gli effetti del panico. Somatici, cognitivi ed emotivi.
Quanto saranno durati quegli istanti in cui mia figlia, quattro anni, era scomparsa? Minuti, quarti d’ora, cifre temporali di cui mi è impossibile ricostruire la durata. In ogni caso, certamente eterni.
Sì, è stato quel signore che mi aveva preso il braccio all’altezza del gomito. “Venite, hanno trovato una bambina bionda al bar, può darsi sia la vostra”.
 
La corsa, lo sguardo, il pianto liberatorio, l’abbraccio inestricabile.
Una gioia che nessuna parola umana potrà mai contenere.
Quella del pericolo scampato. Del rischio, il peggiore, scongiurato. Della riconnessione.
Della sopravvivenza. Anzi, della rinascita, per dirla tutta e più semplicemente.
 
Per questo, non riesco a non commuovermi profondamente davanti alla scena di un padre che recupera lo sguardo di sua figlia - occhi negli occhi finalmente - dopo un anno e mezzo di sparizione e di mistero. Un anno e mezzo, non un quarto d’ora. Nelle mani di una delle peggiori bande terroristiche del pianeta.
 
Si, non lo nego, anche un po’ di tristezza.
Per la cecità. No, non è quella fisica.
 
Ho un formidabile amico, si chiama Dario Sorgato, e la sa davvero lunga, su questo. E’ fenomenale. Cercalo, anche in Internet e nei Social. Ha fondato e anima instancabilmente “NoisyVision”, un’associazione che si occupa di ipovisione, della Sindrome di Usher. Può raccontarti, e mostrarti, milioni di cose molto interessanti su cosa significhi “guardare oltre i limiti”.
 
La mia tristezza è per la cecità del cuore. Per certi commenti che scorrono nei Social.
Sono pochi, ma fanno chiasso. E’ sempre così: un solo albero, magari marcio, cade fragoroso.
La foresta invece, sana e rigogliosa, cresce lenta, paziente e silenziosa.
 
La mia vena di tristezza è perché so perfettamente che certe cose, guardandosi negli occhi, non uscirebbero mai dalla bocca di un uomo ragionevole. Quando con una persona ci parli e l’ascolti faccia a faccia, tantopiù come capita a me in uno studio o ambulatorio di psicoterapia, ti rendi conto di come anche la “belva” più ottusa e aggressiva celi inevitabilmente una tigre di cartapesta. Che porta dentro molto spesso abissi di insicurezze, paure, sovrastrutture fragili come ossa corrose dall’osteoporosi.
 
E invece il ritrovarsi soli, davanti allo schermo dello smartphone con una tastiera a disposizione, ti acceca lo sguardo. Ti illude con una falsa onnipotenza, che si squaglia presto come nevischio al sole. Dimentichi perfino chi e quanti quelle cose le leggeranno, e cosa penseranno, alla fine, di te, di ciò che lasci scritto.
 
Senza due occhi che rispondono al tuo sguardo, rimangono solo i tuoi fantasmi, a possederti.
Come nei test proiettivi, tipo le macchie di inchiostro, il reattivo di Hermann Rorschach, hai presente? Ognuno ci vede (ci “proietta”) i mostri, le paure, i desideri e le frustrazioni che porta dentro sé, inconsciamente. Prendono forma e corpo in una forma astratta spiaccicata su di un foglio. 
Così i fatti, le storie, le persone che guardi e giudichi solo attraverso lo schermo del tuo telefonino o del computer: sono i tuoi, di Godzilla, persecutori e nemici immaginari. E’ da loro, che ti stai difendendo.
 
E allora questo mio sguardo, adesso, voglio usarlo bene, fino in fondo.
Così osservo il filo di amarezza tramutarsi in compassione.
Dentro me, progressivamente.
“Mindsight” la chiama Dan Siegel, il grande padre della neurobiologia interpersonale.
 
E avverto una gioia interiore, questa sì, svettare infinitamente più alta, e forte.
L’ho sperimentata.
La conosco.
 
Quella per una figlia, perduta e ritrovata.
 

          - georgia on my mind -

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    Noneto Circin

    La parola, il suono, l’immagine, sono l’oggetto dei miei interessi nel tempo libero. 
    A volte, tentano di diventare voce. 
    Nella scrittura, nella musica, nella fotografia. 
    Per passione, per divertimento.
    Insomma, per una delle cose più serie nella vita: il gioco. 
    Tramite i tasti di un pianoforte, una penna che scorre veloce, le lenti di un vecchio obiettivo. 

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