CAPITANO MIO CAPITANO
Dannazione.
Dannazione!
Abbiamo perso la traccia del sentiero. Più precisamente: è il sentiero, che è scomparso. Travolto, sfregiato, abortito sotto questa massa di larici, abeti e faggi scannati dalla furia del vento.
Eppure l'escursione era iniziata bene. Giornata luminosa. Il freddo siberiano patito nell'ombra del tratto iniziale aveva ceduto progressivamente il passo ai raggi di un vivo e allegro sole dicembrino.
Si, ti è capitato altre volte. Di smarrire la traccia. L'orientamento.
E allora senti quel grumo che sale in gola, il tam-tam nel petto che si fa più fitto, fastidiosamente insistente. Inesorabile.
Ma se era così pulito, il percorso, fino al bivio sotto il Castelaz...
E' vero: le tracce del devastante fortunale (ma per che diamine li chiamano così: “fortunali” queste ciclopiche mani del vento, che senza giudizio né pietà devastano come orbi mostri case, suoli e vegetazione) si vedono tutte.
Altre mani, tuttavia, quelle silenziose e mai stanche della gente veneta - qui nella declinazione montanara - hanno presto ripulito spazi di selva, tagliati e rimossi tronchi traversi, ripianato orizzonti.
Per questo l'escursione metteva ottimismo. Addirittura un paio di ragazze con il cane a seguito, baldanzose e galoppanti (loro) ti erano passate sorridenti a fianco, gioiose nelle tute sgargianti da runners e le scarpe hi-tech, quasi promesse di un traguardo prossimo, di meritata soddisfazione e sudato riposo.
E invece ti ritrovi lì, in fondo a quella gola, peraltro ben segnalata dalla carta topografica e dall'indice gps. Tutto coincide, fuorché la presenza del sentiero. Tutto d'intorno, l'orrida triste sequela di alberi squartati al suolo, un ginepraio di rami massacrati dove affondi e ti confondi oltre la rabbia, fino alle soglie del panico.
Ti senti l'uomo sbagliato, nel posto giusto.
Controlli ancora la Tabacco, resetti il ricevitore sul satellite: tutto a posto.
Ma che cavolo, a posto?
Gli scarponi scendono a ogni movimento dentro un'indefinibile quantità di torba, aghi di pino, ramoscelli inconsistenti e un suolo senza fondo. Provi a girarti, e zaino – maglione – pantaloni si lacerano, incagliati nei rovi, riluttanti a seguirti.
In-one-word: ti senti perso. Ti sei, perso.
Allora riapri la cartina e ti metti a calcolare: quanto ci vuole, a tornare indietro? Quante ore di cammino?
Quanto ne resta, della luce del sole, in questo minimo meriggio datato 27 dicembre?
Ti basterà il tempo, oltre le forze, per recuperare l'auto nella piazzola di partenza, senza scomodare il soccorso alpino? Si, perché farsi venire a prendere su un anello naturalistico e poi doverlo raccontare agli amici, c'è pure da vergognarsi che non ti basterebbe una vita.
Così provi a chiamare: “C'è qualcuno?”
Alzi la voce: “C'è qualcuno?”
“C'è, qualcunooo!?”
Silenzio.
Verde.
Tanto, verde.
Troppo, verde.
E legno, dappertutto. Soprattutto, dove non ci dovrebbe stare.
Nella direzione – orizzontale e di traverso – dove non ci dovrebbe proprio stare.
A un certo punto, inaspettatamente, in lontananza e quasi mimetizzate tra le foglie, scorgi due figure umane. Chiami più forte, fai un cenno con la mano.
Uno di loro ti risponde.
“Se ne esce, da questo sentiero?”
“Da dove siete venuti?”
“Da Ciamber”.
Silenzio.
“Stiamo mappando gli schianti. Aspettate che vi raggiungo.”
“Occhi turchini e giacca uguale”. Non so perché, ma mentre lo guardo avvicinarsi, un balzo dopo l'altro, verso la fossa dove ci siamo incastrati, mi sale alla mente quel brano di De André. Spero in una migliore disposizione d'animo, in questo “generale”. Avrà circa trent'anni, e oltre la giacca azzurra – ora ce l'ho a due passi – uno sguardo gentile.
“Seguitemi, vi accompagno io.”
Ti ricordi da piccolo, quando t'eri cacciato in una brutta situazione, di quelle che sembrano senza scampo e prima di sera, appena dopo il pianto, arrivava l'animatore, o il capo scout, o l'amico più grande, magari tuo padre, che te ne tirava fuori? Ecco, lo stato d'animo è lo stesso. Sollievo, adrenalina che scende, speranza di farcela, senso di sicurezza come di una corda che nulla può recidere.
“Non potete scendere verso gli schianti. Non se ne esce. Dovete tenervi a monte, girare alto.”
Dio li benedica, questi montanari. Poche parole, solo quelle giuste.
Per dimostrarmi meno stupido di quanto mi senta, tento una conversazione.
“Un bel disastro, in questa parte della valle.”
“Si, altre zone sono state più fortunate. Qui il vento è salito tutto dentro.”
“E tutta questa legna, che ne fate? Riuscite a recuperarla?”
“Mmmhhh...”
“Ho letto nel giornale che la vogliono gli austriaci, per farne pellet.”
“Si, per noi è roba piccola. Non so se ci daranno qualcosa, o se dovremo dargliela gratis. Più facile la seconda.”
La faccio breve, nel racconto.
Dopo una quarantina di minuti di saliscendi lungo i fianchi della gola, a spirale attorno allo sfacelo di questa vegetazione demolita, ci lascia in una piazzola.
“Da qui proseguite dritti. Oltre la casera, trovate la rotabile. Vi porta al parcheggio, oltre quel dosso.”
Metto d'istinto mano al portafogli, prendo un paio di biglietti di qualche decina di euro e sto per porgerglieli.
“No, No! Che fai? Lascia stare!”
“Dai, ti prego, se non c'eri tu, col cavolo che arrivavamo a casa, stasera...”
“No, no, davvero”, con quello sguardo gentile e carico - lui, pensa un po'! - di soddisfazione.
Giuro, non so cosa gli avrei dato, in segno di ringraziamento.
Anche - data l'ora, un panino. Lo avrei tirato fuori dallo zaino. Alla Nutella, magari.
E invece niente. Manco un “selfie”, ha voluto prendersi. Magari poteva farsene – un po' – vanto con gli amici. Dopotutto, un salvataggio alpino non è un'usuale azione quotidiana.
E invece, niente.
Escludo pure vedrò domani una sua intervista in prima pagina nella Gazzetta Zoldana intitolata:
“Abbiamo finalmente sconfitto lo smarrimento degli escursionisti nelle Dolomiti”.
No, i montanari, qui – declinazione della gente veneta in versione bellunese – sono fatti così.
Siamo, un po' fatti così.
“Vado a raggiungere il mio amico”.
Lo seguo con lo sguardo, mentre con due balzi è già lontano, oltre e di nuovo dentro la linea del bosco.
Mi rimane dentro un senso di sconfinata gratitudine.
Di leggerezza, per lo scampato pericolo. Come quando appoggi un peso di quelli che ti spezzavano la schiena.
E un groppo, stavolta diverso, che sento di nuovo salire in gola.
E nella mente mi ritorna una frase.
Non ricordo dove l'ho sentita. Ma l'inconscio, si sa, è un magazzino di memorie, non sempre catalogate e rintracciabili.
Aspetta, forse ricordo... o forse no. Di sicuro, non è più una frase “di moda”, oggi.
Non può esserlo, nell'epoca dei selfie, del “veniamo prima noi” - ma quanto angusto e maleodorante è, questo taschino del “prima noi” - del narcisismo e della nevrotica paranoide “la colpa, è loro”.
La frase?
“Non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra”.
Dove mai l'avrò ascoltata?
Mah.
- ti insegnerò a volare -
Dannazione!
Abbiamo perso la traccia del sentiero. Più precisamente: è il sentiero, che è scomparso. Travolto, sfregiato, abortito sotto questa massa di larici, abeti e faggi scannati dalla furia del vento.
Eppure l'escursione era iniziata bene. Giornata luminosa. Il freddo siberiano patito nell'ombra del tratto iniziale aveva ceduto progressivamente il passo ai raggi di un vivo e allegro sole dicembrino.
Si, ti è capitato altre volte. Di smarrire la traccia. L'orientamento.
E allora senti quel grumo che sale in gola, il tam-tam nel petto che si fa più fitto, fastidiosamente insistente. Inesorabile.
Ma se era così pulito, il percorso, fino al bivio sotto il Castelaz...
E' vero: le tracce del devastante fortunale (ma per che diamine li chiamano così: “fortunali” queste ciclopiche mani del vento, che senza giudizio né pietà devastano come orbi mostri case, suoli e vegetazione) si vedono tutte.
Altre mani, tuttavia, quelle silenziose e mai stanche della gente veneta - qui nella declinazione montanara - hanno presto ripulito spazi di selva, tagliati e rimossi tronchi traversi, ripianato orizzonti.
Per questo l'escursione metteva ottimismo. Addirittura un paio di ragazze con il cane a seguito, baldanzose e galoppanti (loro) ti erano passate sorridenti a fianco, gioiose nelle tute sgargianti da runners e le scarpe hi-tech, quasi promesse di un traguardo prossimo, di meritata soddisfazione e sudato riposo.
E invece ti ritrovi lì, in fondo a quella gola, peraltro ben segnalata dalla carta topografica e dall'indice gps. Tutto coincide, fuorché la presenza del sentiero. Tutto d'intorno, l'orrida triste sequela di alberi squartati al suolo, un ginepraio di rami massacrati dove affondi e ti confondi oltre la rabbia, fino alle soglie del panico.
Ti senti l'uomo sbagliato, nel posto giusto.
Controlli ancora la Tabacco, resetti il ricevitore sul satellite: tutto a posto.
Ma che cavolo, a posto?
Gli scarponi scendono a ogni movimento dentro un'indefinibile quantità di torba, aghi di pino, ramoscelli inconsistenti e un suolo senza fondo. Provi a girarti, e zaino – maglione – pantaloni si lacerano, incagliati nei rovi, riluttanti a seguirti.
In-one-word: ti senti perso. Ti sei, perso.
Allora riapri la cartina e ti metti a calcolare: quanto ci vuole, a tornare indietro? Quante ore di cammino?
Quanto ne resta, della luce del sole, in questo minimo meriggio datato 27 dicembre?
Ti basterà il tempo, oltre le forze, per recuperare l'auto nella piazzola di partenza, senza scomodare il soccorso alpino? Si, perché farsi venire a prendere su un anello naturalistico e poi doverlo raccontare agli amici, c'è pure da vergognarsi che non ti basterebbe una vita.
Così provi a chiamare: “C'è qualcuno?”
Alzi la voce: “C'è qualcuno?”
“C'è, qualcunooo!?”
Silenzio.
Verde.
Tanto, verde.
Troppo, verde.
E legno, dappertutto. Soprattutto, dove non ci dovrebbe stare.
Nella direzione – orizzontale e di traverso – dove non ci dovrebbe proprio stare.
A un certo punto, inaspettatamente, in lontananza e quasi mimetizzate tra le foglie, scorgi due figure umane. Chiami più forte, fai un cenno con la mano.
Uno di loro ti risponde.
“Se ne esce, da questo sentiero?”
“Da dove siete venuti?”
“Da Ciamber”.
Silenzio.
“Stiamo mappando gli schianti. Aspettate che vi raggiungo.”
“Occhi turchini e giacca uguale”. Non so perché, ma mentre lo guardo avvicinarsi, un balzo dopo l'altro, verso la fossa dove ci siamo incastrati, mi sale alla mente quel brano di De André. Spero in una migliore disposizione d'animo, in questo “generale”. Avrà circa trent'anni, e oltre la giacca azzurra – ora ce l'ho a due passi – uno sguardo gentile.
“Seguitemi, vi accompagno io.”
Ti ricordi da piccolo, quando t'eri cacciato in una brutta situazione, di quelle che sembrano senza scampo e prima di sera, appena dopo il pianto, arrivava l'animatore, o il capo scout, o l'amico più grande, magari tuo padre, che te ne tirava fuori? Ecco, lo stato d'animo è lo stesso. Sollievo, adrenalina che scende, speranza di farcela, senso di sicurezza come di una corda che nulla può recidere.
“Non potete scendere verso gli schianti. Non se ne esce. Dovete tenervi a monte, girare alto.”
Dio li benedica, questi montanari. Poche parole, solo quelle giuste.
Per dimostrarmi meno stupido di quanto mi senta, tento una conversazione.
“Un bel disastro, in questa parte della valle.”
“Si, altre zone sono state più fortunate. Qui il vento è salito tutto dentro.”
“E tutta questa legna, che ne fate? Riuscite a recuperarla?”
“Mmmhhh...”
“Ho letto nel giornale che la vogliono gli austriaci, per farne pellet.”
“Si, per noi è roba piccola. Non so se ci daranno qualcosa, o se dovremo dargliela gratis. Più facile la seconda.”
La faccio breve, nel racconto.
Dopo una quarantina di minuti di saliscendi lungo i fianchi della gola, a spirale attorno allo sfacelo di questa vegetazione demolita, ci lascia in una piazzola.
“Da qui proseguite dritti. Oltre la casera, trovate la rotabile. Vi porta al parcheggio, oltre quel dosso.”
Metto d'istinto mano al portafogli, prendo un paio di biglietti di qualche decina di euro e sto per porgerglieli.
“No, No! Che fai? Lascia stare!”
“Dai, ti prego, se non c'eri tu, col cavolo che arrivavamo a casa, stasera...”
“No, no, davvero”, con quello sguardo gentile e carico - lui, pensa un po'! - di soddisfazione.
Giuro, non so cosa gli avrei dato, in segno di ringraziamento.
Anche - data l'ora, un panino. Lo avrei tirato fuori dallo zaino. Alla Nutella, magari.
E invece niente. Manco un “selfie”, ha voluto prendersi. Magari poteva farsene – un po' – vanto con gli amici. Dopotutto, un salvataggio alpino non è un'usuale azione quotidiana.
E invece, niente.
Escludo pure vedrò domani una sua intervista in prima pagina nella Gazzetta Zoldana intitolata:
“Abbiamo finalmente sconfitto lo smarrimento degli escursionisti nelle Dolomiti”.
No, i montanari, qui – declinazione della gente veneta in versione bellunese – sono fatti così.
Siamo, un po' fatti così.
“Vado a raggiungere il mio amico”.
Lo seguo con lo sguardo, mentre con due balzi è già lontano, oltre e di nuovo dentro la linea del bosco.
Mi rimane dentro un senso di sconfinata gratitudine.
Di leggerezza, per lo scampato pericolo. Come quando appoggi un peso di quelli che ti spezzavano la schiena.
E un groppo, stavolta diverso, che sento di nuovo salire in gola.
E nella mente mi ritorna una frase.
Non ricordo dove l'ho sentita. Ma l'inconscio, si sa, è un magazzino di memorie, non sempre catalogate e rintracciabili.
Aspetta, forse ricordo... o forse no. Di sicuro, non è più una frase “di moda”, oggi.
Non può esserlo, nell'epoca dei selfie, del “veniamo prima noi” - ma quanto angusto e maleodorante è, questo taschino del “prima noi” - del narcisismo e della nevrotica paranoide “la colpa, è loro”.
La frase?
“Non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra”.
Dove mai l'avrò ascoltata?
Mah.
- ti insegnerò a volare -