In adolescenza, l'indice di prevalenza delle condotte autolesionistiche (significa: la diffusione statistica del fenomeno) è del 15-20%, con un'età di esordio attorno ai 13-14 anni.
I curatori della quinta edizione del DSM (Il manuale descrittivo dei sisturbi mentali, American Psychiatric Association, 2013) hanno deciso di inserire nell’ultima edizione le categorie diagnostiche di “Autolesionismo non suicidario” (NSSI: not suicidal self injury) e “Autolesionismo non suicidario non altrimenti specificato” (NSSI-NAS) nella categoria dei disturbi diagnosticati generalmente per la prima volta nell’infanzia, fanciullezza e adolescenza.
La domanda – inquietante – è sempre la stessa: perché i ragazzi si fanno del male?
Se si chiede a uno di questi adolescenti perché si tortura così, tramite ferite autoinferte, per incisione e scarificazione, egli generalmente ha difficoltà a rispondere, salvo dire che in fin dei conti tutto ciò lo consola. Mentre il successo sociale, scolastico e relazionale è sempre labile, provvisorio, aleatorio - come del resto tutto quello che nella vita dipende dalla risposta degli altri - il dolore e la sofferenza provocati dall'autodistruzione sono sempre a portata di mano.
Ecco come si svela, in un'ottica psicanalitica, l'apparente paradosso: per il suo effetto consolatorio e rassicurante. Rassicura e conforta il fatto che l'Io ritrovi un ruolo attivo di fronte alla minaccia di essere sopraffatto dagli altri. (Ovviamente, se qualcuno cercasse di imporre all'adolescente le sofferenze che si infligge da solo, egli si ribellerebbe con tutte le sue forze).
Il terreno di coltura per tutto ciò, a livello psicologico-evolutivo ma potremmo ben dire anche nella sfera socio-politica, è il monte di delusioni accumulate, proporzionali all'intensità del desiderio sottostante.
“Meglio farsi del male da soli, che temere l'aggressione degli altri”.
Erik Erickson la definiva “identità negativa”. Negativa, ma pur sempre un'identità.
“Chi trova un NEMICO trova un tesoro”, quando l'Io è fragile, non dimentichiamolo.
Per certuni l'unica forma di autoaffermazione è l'insultare e accusare qualcun altro.
Cercare “la colpa” sempre all'esterno da sé, sviluppando quel senso paranoide di persecuzione che tanto serve a rammendare brandelli di autostima inesistente e gradi di insicurezza che non di rado sfociano in debilitanti sintomatologie di ansia e panico.
Freud ben spiegava come il masochismo contenga una componente erotica, legata cioè al Principio del Piacere: l'autolesionismo lenisce la sofferenza, come una vera e propria anestesia delle emozioni. Paura, tristezza, angoscia vengono cancellate dalla sensazione corporea (fame nell'anoressia, dolore fisico nelle automutilazioni) in una spirale che conduce a forme di dipendenza, quasi inestricabile.
Personalmente credo che un elemento ancora più forte riesca a spiegare come mai – anche a livello adulto, anche a livello relazionale e sociale – talvolta abbracciamo la logica del “tanto peggio, tanto meglio”: il bisogno di autocontrollo, di guadagnare una posizione attiva.
L'uso contemporaneo dei Social, dove anche gli analfabeti ritengono di poter disquisire indifferentemente e con competenza di epidemiologia, diritto costituzionale, fisica nucleare e logiche di finanza, lo sta a dimostrare. In questo caso non entra in gioco il piacere, né tantomeno un progetto di crescita esistenziale, o politico, o relazionale. In gioco c'è solo il bisogno compulsivo di un'autostimolazione per sentirsi vivi.
Per un adulto che vive vicino a un ragazzo in età evolutiva (genitore, educatore, allenatore...) è talvolta difficile capire le motivazioni sottostanti ai comportamenti autodistruttivi. Sconcertano, non di rado irritano, indispongono. E' necessario comprendere che non si tratta di una scelta volontaria, contrariamente a quanto crede l'adolescente.
Autoinfliggersi delle ferite, ribellarsi all'autorità scegliendo la via dell'indipendenza, talvolta dell'isolamento, protestare “contro” a prescindere, negando ai propri stessi occhi il fatto che senza supporto e dipendenza (fisica, economica, di tutela) non si sopravvive, sono tutte manifestazioni comportamentali utili a sentirsi vivi e soffrire (emotivamente) un po' meno.
Tocca a noi adulti non lasciare gli adolescenti prigionieri di queste condotte compulsive e coatte, stereotipe e ripetitive. Tocca ai padri proporre dei fermi “NO” assieme a interminabili occasioni di dialogo, proposte alternative di espressione del disagio (la musica, l'arte, lo sport...) e soluzioni utili a riconquistare fiducia in se stessi e negli altri.
Saranno (saremo) questi padri sufficientemente forti e autorevoli?
Carismatici, e pazienti?
Ce la possiamo fare.
- tu sei buono e ti tirano le pietre -