Soltanto più tardi durante il giorno, quando fu più connessa alla sua parte della vita normale, capì che la sensazione di solitudine veniva da una parte più giovane, appartenente al suo passato. Una parte di sé che - disconnessa e scissa dalla attuale vita adulta di Francesca - non aveva fatto esperienza della sicurezza, del sostegno e della compagnia che aveva trovato nel suo matrimonio.
Quella parte bambina aveva semplicemente bisogno di essere rassicurata del fatto che non era tutta sola.
Alzi la mano colui o colei al quale non è mai capitato si sentirsi come due (o più) persone diverse nello stesso corpo, nei momenti o nelle giornate “storte”, nelle quali profonde emozioni o differenti stati d’animo ci coinvolgono.
A volte siamo sopraffatti da emozioni intense che fatichiamo a controllare: paura, rabbia, senso di impotenza. Il “lavoro con le parti” può aiutare a riconoscerne l’origine e a integrarle in modo efficace.
La definizione di “parte” non riguarda solo i casi di pazienti con DDI (disturbo dissociativo di identità, una volta chiamato disturbo di personalità multipla), bensì descrive ciò che è semplicemente la profonda diversità tra le varie manifestazioni della personalità di un qualsiasi individuo in preda a differenti stati d’animo.
E’ Janina Fisher in particolare, psicoterapeuta esperta nel trattamento del trauma, a fornire un’utile descrizione del procedimento che definisce “fare amicizia con le nostre parti”. Intendendo con ciò l’accettazione radicale del fatto che condividiamo il nostro corpo e la nostra vita con dei “coinquilini” (le nostre diverse parti) a volte in opposizione o contrasto tra loro. E che per vivere bene con noi stessi dobbiamo accettare e vivere in maniera amichevole e collaborativa con tutti i nostri sé, non solo con quelli che ci mettono a nostro agio.
L’idea alla base del lavoro con le parti - riprendo in questo un bell’articolo di Marta Erba, psicoterapeuta milanese - è che ogni bambino, quando si trova in una situazione di insicurezza che nessun adulto è in grado di riparare (perché nessun adulto è presente, o perché gli adulti presenti non riescono a intercettare la difficoltà in cui il bambino si trova, o perché gli adulti stessi sono la fonte di quel disagio) ha un’unica scelta per sopravvivere: disconoscere le proprie parti più vulnerabili e ferite. Quindi, con una parte di sé “continua ad andare avanti con la vita normale”, mentre le parti ferite rimangono come segregate all’interno, nascoste e inaccessibili.
Questo fenomeno si chiama “compartimentazione dissociativa” e non è di per sé patologico. La capacità della nostra mente di scindersi in parti è anzi un’ottima strategia per sopravvivere alle situazioni traumatiche: invece che “disintegrarsi” (come avviene nello scompenso psicotico), è molto meglio dissociare alcune parti, segregarle, confinarle, in modo da poter andare avanti “facendo finta” che non esistano.
Si tratta tuttavia di un sistema che alla lunga si rivela poco efficace e potenzialmente pericoloso. Le parti traumatizzate, infatti, in presenza di determinate situazioni che ricordano il trauma originario, possono irrompere nella nostra vita in modo soverchiante e incontrollato. Le riconosciamo perché sono sempre accompagnate da sensazioni fisiche potenti (un “buco in pancia”, un “nodo alla gola”, una “morsa allo stomaco”). Spesso anche da frasi negative che diciamo su noi stessi (“non merito”, “sono sbagliato”, “c’è qualcosa che non va in me”).
Quando una di queste arcaiche parti emotive irrompe nella nostra vita, succede che ci identifichiamo profondamente con essa: non la riconosciamo cioè come una parte di noi, ma abbiamo la forte sensazione di essere davvero – realmente - quel bambino spaventato, arrabbiato o angosciato. E nient’altro.
Come si fa, dunque, a lavorare con le parti?
Il primo passo è riconoscerle, fornendo loro un’età (l’età in cui è avvenuto il trauma), un aspetto, un’espressione del viso… e imparare a guardarle con solidarietà, empatia e tenerezza. Proprio come si farebbe con un bambino e non, come spesso avviene, con fastidio, astio o vergogna.
Si tratta di usare la compartimentazione dissociativa in maniera consapevole e volontaria: invece che fondersi con le parti bambine dall’emotività soverchiante, la parte adulta è incoraggiata a separarsene.
Il secondo passo, in un prossimo post.
Questo lo concludo citando Pádraig Ó Tuama, un poeta, teologo e mediatore di conflitti irlandese. Che ricorda come, in lingua irlandese, quando parli di emozioni, non dici "Sono triste". Diresti "La tristezza è su di me", "Tā Brōn Orm". E’ bellissimo, non trovi? Si, perché c'è un'implicazione nel non identificarti completamente con l'emozione. E’ esattamente ciò che si intende nel lavoro con le parti di sé. Non sono triste, è solo che la tristezza è su di me da un po'. Qualcos'altro sarà su di me un'altra volta, ed è una buona cosa da riconoscere.
Così per ciascuna emozione.
Per ogni parte di sé, o stato dell’Io.
https://www.youtube.com/watch?v=d4CQkG-dBZk