TUTTI INNOCENTI, O QUASI
Anno strano, quel 1978.
Era un giovedì, la mattina di marzo in cui già dopo le prime tre ore di italiano anche a scuola cominciava a girare la notizia che le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro e sterminato la sua scorta a colpi di mitra. Eravamo in quarta liceo, la quarta C.
La primavera alle porte aveva già portato qualcuno ad abbandonare la corriera: linea della "Veneta" per chi veniva dall'area a sud di Padova, "Siamic" per la maggior parte degli altri. Dal portone uscivamo ormai motorizzati, specialmente in sella alle Vespe ed alle Lambrette. In realtà nel cortile ne contavi molte delle prime, rispetto alle seconde. Le ET3 erano le più gettonate, evoluzione prestazionale della 50 special, con la quale condivideva dimensioni e telaio. Ma la vera novità erano le recentissime PX; i più fortunati con le frecce di direzione, luminosissime a dominare gli incroci, appena imbruniva.
Da invidia...
Ma la Lambretta era la Lambretta, solida con il suo telaio in monotubo d'acciaio, equilibrata nel basso baricentro dato dal motore con il cilindro orizzontale, parallelo al suolo.
Certo, nel 1978 la fabbrica "Innocenti" di Milano che le produceva aveva chiuso la catena di montaggio già sette anni prima, cedendola l'anno dopo al governo indiano. Per cui le lambrette che giravano tra noi studenti erano in gran parte d'occasione o eredità di qualche zio da tempo stabilizzatosi su quattro ruote. Nitido esempio di imborghesimento, agli occhi degli adolescenti che eravamo, nutriti a pane all'uva ed anarchia.
Arrivò l'estate, quella in cui con Alberto Bonini avevamo deciso di trascorrere le vacanze su due ruote. Lui in realtà preferiva quelle a pedale nelle quale era un campione di resistenza, ma dato che la meta prescelta erano le Dolomiti, il rapporto costi-benefici deponeva nettamente a mio favore e del mezzo alimentato a miscela.
Nel luglio del 1978 i Serrai di Sottoguda erano ancora una pubblica strada aperta al traffico normale. Suggestiva, magnifica, incredibile gola nello spacco della montagna, con una bava d'asfalto a tracciarne la scia, sul fondo a fianco del torrente.
Arrivi dal lago Fedaia, oltrepassi malga Ciapela e ti tuffi giù, nell'orrido, con lo scoppiettìo del due tempi a far da contrappunto alle pieghe delle piccole gomme da 10 pollici. E i freni – a tamburo – riescono quel che possono. Avere uno zaino militare da 30 kg. al portapacchi posteriore non ti facilita il compito.
Specie quando tutto comincia ad ondeggiare più del previsto, senza preavviso, e in mezzo giro di volano realizzi che hai forato la ruota posteriore.
La cosa più difficile, in quei frangenti, è raggiungere un accordo ragionevole con quello che ti siede dietro, il passeggero.
Tu cominci a controsterzare, l'altro si butta dalla parte opposta.
Arriva il contraccolpo quando la sbandata giunge al limite e di botto riprendi l'aderenza (mai un minimo di gentilezza...).
La sella allora ti ricaccia in alto, più in alto che manco fosse un KTM ci potevi andare.
E' il momento in cui più nemmeno le pupille continuano a collaborare: una già giù nel fondo del torrente (Pettorina, l'hanno chiamato... lo vedi che ti serviva la moto da cross...?) l'altra oltre le nubi, in uno squarcio di cielo cobalto rubato ai fianchi delle altissime rocce, quasi una preghiera esaudita.
Alla fine ti arrendi, e lasci alla gravità il verdetto finale. Con inerzia.
Quando tutto si è fermato, quell'asfalto scuro, duro e finalmente fermo, l'avrei baciato.
Nonostante i jeans lacerati e gli occhiali persi in fondo, sull'erba.
Fermo, finalmente fermo.
Il vantaggio della Lambretta con il portapacchi dietro era che la ruota di scorta te la portavi sempre appresso.
Le Vespe PX invece ce l'avevano sotto il cofano sinistro. Mezza nascosta. Ma vuoi mettere il fascino della ruota di scorta in bella vista?
E così te la cambiavi, la gomma forata, e ripartivi. Verso casa, dove ovviamente non avresti raccontato nulla sull'accaduto.
A nessuno.
Guai, al mondo.
Era un giovedì, la mattina di marzo in cui già dopo le prime tre ore di italiano anche a scuola cominciava a girare la notizia che le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro e sterminato la sua scorta a colpi di mitra. Eravamo in quarta liceo, la quarta C.
La primavera alle porte aveva già portato qualcuno ad abbandonare la corriera: linea della "Veneta" per chi veniva dall'area a sud di Padova, "Siamic" per la maggior parte degli altri. Dal portone uscivamo ormai motorizzati, specialmente in sella alle Vespe ed alle Lambrette. In realtà nel cortile ne contavi molte delle prime, rispetto alle seconde. Le ET3 erano le più gettonate, evoluzione prestazionale della 50 special, con la quale condivideva dimensioni e telaio. Ma la vera novità erano le recentissime PX; i più fortunati con le frecce di direzione, luminosissime a dominare gli incroci, appena imbruniva.
Da invidia...
Ma la Lambretta era la Lambretta, solida con il suo telaio in monotubo d'acciaio, equilibrata nel basso baricentro dato dal motore con il cilindro orizzontale, parallelo al suolo.
Certo, nel 1978 la fabbrica "Innocenti" di Milano che le produceva aveva chiuso la catena di montaggio già sette anni prima, cedendola l'anno dopo al governo indiano. Per cui le lambrette che giravano tra noi studenti erano in gran parte d'occasione o eredità di qualche zio da tempo stabilizzatosi su quattro ruote. Nitido esempio di imborghesimento, agli occhi degli adolescenti che eravamo, nutriti a pane all'uva ed anarchia.
Arrivò l'estate, quella in cui con Alberto Bonini avevamo deciso di trascorrere le vacanze su due ruote. Lui in realtà preferiva quelle a pedale nelle quale era un campione di resistenza, ma dato che la meta prescelta erano le Dolomiti, il rapporto costi-benefici deponeva nettamente a mio favore e del mezzo alimentato a miscela.
Nel luglio del 1978 i Serrai di Sottoguda erano ancora una pubblica strada aperta al traffico normale. Suggestiva, magnifica, incredibile gola nello spacco della montagna, con una bava d'asfalto a tracciarne la scia, sul fondo a fianco del torrente.
Arrivi dal lago Fedaia, oltrepassi malga Ciapela e ti tuffi giù, nell'orrido, con lo scoppiettìo del due tempi a far da contrappunto alle pieghe delle piccole gomme da 10 pollici. E i freni – a tamburo – riescono quel che possono. Avere uno zaino militare da 30 kg. al portapacchi posteriore non ti facilita il compito.
Specie quando tutto comincia ad ondeggiare più del previsto, senza preavviso, e in mezzo giro di volano realizzi che hai forato la ruota posteriore.
La cosa più difficile, in quei frangenti, è raggiungere un accordo ragionevole con quello che ti siede dietro, il passeggero.
Tu cominci a controsterzare, l'altro si butta dalla parte opposta.
Arriva il contraccolpo quando la sbandata giunge al limite e di botto riprendi l'aderenza (mai un minimo di gentilezza...).
La sella allora ti ricaccia in alto, più in alto che manco fosse un KTM ci potevi andare.
E' il momento in cui più nemmeno le pupille continuano a collaborare: una già giù nel fondo del torrente (Pettorina, l'hanno chiamato... lo vedi che ti serviva la moto da cross...?) l'altra oltre le nubi, in uno squarcio di cielo cobalto rubato ai fianchi delle altissime rocce, quasi una preghiera esaudita.
Alla fine ti arrendi, e lasci alla gravità il verdetto finale. Con inerzia.
Quando tutto si è fermato, quell'asfalto scuro, duro e finalmente fermo, l'avrei baciato.
Nonostante i jeans lacerati e gli occhiali persi in fondo, sull'erba.
Fermo, finalmente fermo.
Il vantaggio della Lambretta con il portapacchi dietro era che la ruota di scorta te la portavi sempre appresso.
Le Vespe PX invece ce l'avevano sotto il cofano sinistro. Mezza nascosta. Ma vuoi mettere il fascino della ruota di scorta in bella vista?
E così te la cambiavi, la gomma forata, e ripartivi. Verso casa, dove ovviamente non avresti raccontato nulla sull'accaduto.
A nessuno.
Guai, al mondo.