Monte Berico. Più in basso, lo stadio Menti. Ci gioca il Lanerossi Vicenza. Lo vedevi spiccare, sulla sinistra, quando arrivavi da Padova, nel punto in cui la statale penetra dentro il centro storico.
Più che agli efferati delitti della banda Ludwig (due benestanti rampolli dell’alta borghesia veronese che nel luglio 1982, giusto l’anno del “Mundial”, massacrarono due frati a colpi di martellate, mentre passeggiavano al fresco della brezza serale estiva) la memoria mi conduce a quel settembre, la pianola sotto le dita e un migliaio di ragazzi davanti.
Più in basso, lo stadio Menti.
Don Remigio mi aveva convocato, come sempre, e a quei raduni diocesani, regionali e nazionali mi trovavo dietro la vecchia Farfisa. Anzi, sopra. Lui a dirigere il coro, io a sostenere i canti con la tastiera antelucana, che dalla casa dei campi scuola a Meida di Fassa, a casa Pio X, fin dentro la pancia del pullman che ci stava conducendo ad Assisi, di chilometri ne aveva macinati probabilmente più di quante note quelle cinque ormai sbilenche ottave ne avessero mai fatto scaturire.
Non ho mai capito a fondo perché avesse scelto me. Forse ero l’unico disponibile, in quel momento. Più semplicemente, una questione di fortuna. Trovarmi là, in quelle occasioni. O una simpatia, non decodificabile alle leggi galileiane, che ti convoca. Punto. E basta.
Come allo stadio Appiani, l’anno prima. La “Festa dell’Accoglienza”.
Certo, suonare nella basilica superiore di Assisi un fascino del tutto particolare lo rappresentò. Ogni successiva volta in cui ci rimetto piede, nel corso degli anni, torno a calpestare quel preciso metro quadro dove poggiava il piedistallo. E mi sembra di rivedere i volti, risentire i brividi dietro la schiena, quei tremori convulsivi nelle dita adolescenti quand’è il momento di dare la nota, e l’attacco.
Momenti di gloria. A volte del tutto inattesi, inaspettati.
Ma che rimangono, indelebili.
Ciascuno ne ha qualcuno, tra le pagine della propria storia.
Chissà anche te, quanti ne potresti raccontare.
Come persone, come famiglie, come nazione.
Come quei goal. Incisi nell’estate. Quella caldissima, del 1982.
No, non l’ho mai ritenuto un fenomeno. Non la potenza devastante di Ruud Gullit, non l’astuzia di Michel Platini, non gli incantesimi maliardi di Maradona.
Pablito sapeva essere l’uomo giusto nel posto giusto. Al momento, giusto.
Fiuto, intuito, opportunismo cinico. Nei panni di un galantuomo, gentile, disponibile. Mai scorretto. Lo smilzo “numero 9” del Lanerossi Vicenza, che guadagna il pallone d’oro.
Ci hai regalato emozioni indelebili. Ci hai inscritti nel posto più alto in alto, campioni del mondo. Per una notte estiva di scorribande folli, a clacson spianati, tuffi nelle vasche, tricolori al vento. Nei riccioli il sudore, misto a lacrime di commozione.
L’uomo che serve, nel momento opportuno.
Nulla più.
Ciao, Pablito.