BAO, BAO, PINO.

Avevo 17 anni quando è successo la prima volta.
La ricordo come fosse ieri, quella sera d'estate.
E' bella, l'estate in campagna.
Le giornate sembrano non finire mai, il sole al tramonto gioca a nascondino con le cime dei Colli Euganei, l'aria calda lungo le strade le profuma d'erba, di fieno, quando ci corri in moto.
Già, la moto.
La Lambretta, quella rossa.
Era la sera di San Rocco.
Dovevamo suonare a Piove di Sacco, su quel palchetto improvvisato nella piazzetta a fianco la chiesa. Le ragazze erano già partite in auto. Si sa: le coriste viaggiano sempre in prima classe.
Ma per quale dannato motivo avessero dimenticato l'amplificatore, non l'ho mai capito.
La Lancia Flavia era ormai già scomparsa in fondo al rettilineo di via Marconi, ma il senso di onnipotenza che provi a quell'età ti può far credere di raggiungerla di slancio. Basta dare tutto il gas che la Lambretta riesce a digerire.
Sapevo che li avrei raggiunti, sorpassati, bloccati e costretti a ritornare in paese, a riprendere l'amplificatore per le tastiere.
In effetti, la velocità di punta raggiunta su quel nastro di asfalto, aumentata dal rombo del silenziatore alterato e dal vento forte nei capelli, dato che negli anni '70 ancora il casco non era diventato un obbligo, il senso di essere un semidio te lo dava tutto. Alato, invincibile, inesorabile, rapace.
Non con la stessa presunta lucidità compresi come mai quella 127 amaranto che avevo iniziato a superare, buttandomi sulla corsia di sinistra un centinaio di metri prima, fosse ora d'improvviso di traverso, in mezzo alla strada. Mostrandomi - oscena - tutta la sua fiancata.
Stava girando a sinistra, entrando nel piazzale della carrozzeria. Dannatamente ferma, in mezzo alla strada, aspettando che il cancello si aprisse.
Si, è stata la prima volta.
La prima volta in cui mi è stato dato il privilegio di contare quegli istanti - tre o quattro, forse - in cui ti rendi conto che non te ne resteranno altri da vivere, poi.
E' una percezione assoluta. Di una chiarezza adamantina: la forza e la potenza di una rivelazione trascendente.
Un'altra cosa, ricordo oggi di quegli attimi, mentre la gomma posteriore della Lambretta, ululando come una lupa ferita e inchiodata, tirava un'ultima lunghissima riga nera sull'asfalto. Di aver avuto il tempo per pensare che era ormai troppo tardi per cambiare il corso del destino, e troppo, dannatamente troppo presto, per dover andarmene per sempre.
A diciassette anni, la vita è ancora tutta un'incompiuta.
La seconda volta, era il primo giorno di primavera.
Il ventuno di marzo, del primo anno del nuovo secolo, nel millennio di fresco iniziato.
La Renault Scenic cavalcava allegra la E45, l'impervia nodosa statale che attraversa l'appennino umbro-marchigiano.
Carolina aveva discusso il giorno prima la sua tesi di laurea a Roma. Un traguardo tagliato con fatica e soddisfazione, dividendosi tra lavoro, studio e famiglia, tirando su le due piccole che adesso sedevano con lei sul sedile posteriore. Al mio fianco, davanti, mio suocero; con i suoi inesauribili racconti di guerra.
A volte sono allucinazioni, a volte incubi da cui ti svegli di soprassalto nel cuore della notte.
Ma quel TIR di colpo a pochi metri davanti a me, all'uscita della galleria, postosi d'improvviso nella corsia di sorpasso sopra il cavalcavia, giusto dove il tunnel si interrompe, aveva tutta l'ingombrante sembianza di materia dura. Bruta, solida, di grigio pesante metallo triste.
Eccoli ancora, gli istanti dell'esistenza in cui non riesci minimamente ad afferrare la facoltà di decidere alcunché.
Sarà stato quindi l'istinto, o forse una di quelle concatenazioni neurali che ti fanno seguire in automatico una pista in qualche modo ipotizzabile d'intuito.
Lo sterzo tutto a sinistra, solo per evitare l'impatto con il rimorchio.
Si, l'impressione di aver calcolato se la frenata avesse potuto attutire l'infilarsi sotto il respingente, e quanta parte di auto ne fosse rimasta fuori - almeno in grado di salvare Carolina e le piccole nella parte posteriore - ricordo di averla avuta.
Ciò che invece era ormai fuori di ogni ponderabile ipotesi, erano i cristalli che andavano frantumandosi, quei palloni bianchi di botto gonfi sul viso, le urla delle bambine, il guard-rail entrato nel cofano e innalzatosi tutto davanti a me, come il pennone di una nave allo sbando.
Perché non sento dolore?
Perché quest'auto continua ad andare, senza più controllo, e girando su se stessa ha invaso - impazzita - la carreggiata opposta?
Ci saranno uno, o due, o tre di colossali camion come quello che mi ha appena tagliato la strada, che stanno sopraggiungendo in senso contrario a noi, ma lungo la loro dritta inarrestabile via, a porre fine a tutto questo?
Domande rotolanti nel tempo di un infinito breve spazio. Quello di due corsie.
Quelle della superstrada Orte-Cesena, direzione Roma, località valico del Verghereto.
Le 15,30 di un 21 marzo, il primo giorno di una stagione che andava sbocciando, quella del 2000 e uno.
Domande interrotte dallo schianto della parte posteriore della Scenic, adesso esplosa e girata su se stessa, contro l'opposta massicciata del monte, a lato della galleria.
Sani, terrorizzati, ma fermi, e salvi.
Solo qualche costola rotta, grazie al legame delle cinture di sicurezza.
Ma vivi, tutti. Risparmiati al peggio.
E così andò pure quella calda sera di san Rocco, quando la Lambretta rossa si infiilò a siluro dentro la fiancata della 127 amaranto, in uno schianto bellico di lamiere. Catapultandomici sopra, in alto, nel cielo melograno della sera.
A ritrovare il suolo, illeso, solo venti metri più avanti.
Solo con una falange di un dito rotta.
Non è subito, il tempo dei pensieri e delle riflessioni.
Del pianto dirotto e liberatorio, delle domande sul perché a te sia andata così, e a tanti - troppi - altri, tolta per sempre la possibilità di raccontarlo.
Non è al Pronto Soccorso dell'ospedale, dove ti portano urgenti, con le sirene accese, a prendersi cura delle botte del corpo, che hai ancora modo di rendertene conto.
Non è nemmeno lungo la lenta strada del ritorno, quella che il 21 marzo restava da percorrere e sulla quale ora mi stava conducendo un amico generoso e rassicurante: “Vi è andata bene, dai, poteva succedere che... C'erano trenta metri di vuoto sotto il cavalcavia... Davvero, un miracolo...”
Per me, è stato solo quando ho infine varcato la soglia di casa.
Quando, a sera ormai inoltrata, per rassicurarmi che fosse davvero vero, mentre le piccole si lavavano come d'abitudine i denti davanti allo specchio, io di nascosto mi sono fermato ad osservarle, protetto dalla porta semichiusa.
Di nascosto, per ascoltarle senza essere visto, mentre intonavano la filastrocca della buona notte. Con i piedini nudi (quello sinistro, si) che battevano sincroni - al ritmo dello spazzolino - il ritornello dell'amata canzoncina:
BAO-BAO-BAO-BAO-BAO-BAO, PINO...
Si, era vero.
Davvero.
Vera e improvvisamente lampante, la consapevolezza che - di nascosto - mi ha inondato.
Cosa conta davvero nella vita?
Denaro? Politica? Carriera?
Le ridicole fazioni e gli inutili crucci che quotidianamente ci auto-costruiamo?
No, una sola cosa, è quella che davvero mi importava:
BAO, BAO , PINO...
La ricordo come fosse ieri, quella sera d'estate.
E' bella, l'estate in campagna.
Le giornate sembrano non finire mai, il sole al tramonto gioca a nascondino con le cime dei Colli Euganei, l'aria calda lungo le strade le profuma d'erba, di fieno, quando ci corri in moto.
Già, la moto.
La Lambretta, quella rossa.
Era la sera di San Rocco.
Dovevamo suonare a Piove di Sacco, su quel palchetto improvvisato nella piazzetta a fianco la chiesa. Le ragazze erano già partite in auto. Si sa: le coriste viaggiano sempre in prima classe.
Ma per quale dannato motivo avessero dimenticato l'amplificatore, non l'ho mai capito.
La Lancia Flavia era ormai già scomparsa in fondo al rettilineo di via Marconi, ma il senso di onnipotenza che provi a quell'età ti può far credere di raggiungerla di slancio. Basta dare tutto il gas che la Lambretta riesce a digerire.
Sapevo che li avrei raggiunti, sorpassati, bloccati e costretti a ritornare in paese, a riprendere l'amplificatore per le tastiere.
In effetti, la velocità di punta raggiunta su quel nastro di asfalto, aumentata dal rombo del silenziatore alterato e dal vento forte nei capelli, dato che negli anni '70 ancora il casco non era diventato un obbligo, il senso di essere un semidio te lo dava tutto. Alato, invincibile, inesorabile, rapace.
Non con la stessa presunta lucidità compresi come mai quella 127 amaranto che avevo iniziato a superare, buttandomi sulla corsia di sinistra un centinaio di metri prima, fosse ora d'improvviso di traverso, in mezzo alla strada. Mostrandomi - oscena - tutta la sua fiancata.
Stava girando a sinistra, entrando nel piazzale della carrozzeria. Dannatamente ferma, in mezzo alla strada, aspettando che il cancello si aprisse.
Si, è stata la prima volta.
La prima volta in cui mi è stato dato il privilegio di contare quegli istanti - tre o quattro, forse - in cui ti rendi conto che non te ne resteranno altri da vivere, poi.
E' una percezione assoluta. Di una chiarezza adamantina: la forza e la potenza di una rivelazione trascendente.
Un'altra cosa, ricordo oggi di quegli attimi, mentre la gomma posteriore della Lambretta, ululando come una lupa ferita e inchiodata, tirava un'ultima lunghissima riga nera sull'asfalto. Di aver avuto il tempo per pensare che era ormai troppo tardi per cambiare il corso del destino, e troppo, dannatamente troppo presto, per dover andarmene per sempre.
A diciassette anni, la vita è ancora tutta un'incompiuta.
La seconda volta, era il primo giorno di primavera.
Il ventuno di marzo, del primo anno del nuovo secolo, nel millennio di fresco iniziato.
La Renault Scenic cavalcava allegra la E45, l'impervia nodosa statale che attraversa l'appennino umbro-marchigiano.
Carolina aveva discusso il giorno prima la sua tesi di laurea a Roma. Un traguardo tagliato con fatica e soddisfazione, dividendosi tra lavoro, studio e famiglia, tirando su le due piccole che adesso sedevano con lei sul sedile posteriore. Al mio fianco, davanti, mio suocero; con i suoi inesauribili racconti di guerra.
A volte sono allucinazioni, a volte incubi da cui ti svegli di soprassalto nel cuore della notte.
Ma quel TIR di colpo a pochi metri davanti a me, all'uscita della galleria, postosi d'improvviso nella corsia di sorpasso sopra il cavalcavia, giusto dove il tunnel si interrompe, aveva tutta l'ingombrante sembianza di materia dura. Bruta, solida, di grigio pesante metallo triste.
Eccoli ancora, gli istanti dell'esistenza in cui non riesci minimamente ad afferrare la facoltà di decidere alcunché.
Sarà stato quindi l'istinto, o forse una di quelle concatenazioni neurali che ti fanno seguire in automatico una pista in qualche modo ipotizzabile d'intuito.
Lo sterzo tutto a sinistra, solo per evitare l'impatto con il rimorchio.
Si, l'impressione di aver calcolato se la frenata avesse potuto attutire l'infilarsi sotto il respingente, e quanta parte di auto ne fosse rimasta fuori - almeno in grado di salvare Carolina e le piccole nella parte posteriore - ricordo di averla avuta.
Ciò che invece era ormai fuori di ogni ponderabile ipotesi, erano i cristalli che andavano frantumandosi, quei palloni bianchi di botto gonfi sul viso, le urla delle bambine, il guard-rail entrato nel cofano e innalzatosi tutto davanti a me, come il pennone di una nave allo sbando.
Perché non sento dolore?
Perché quest'auto continua ad andare, senza più controllo, e girando su se stessa ha invaso - impazzita - la carreggiata opposta?
Ci saranno uno, o due, o tre di colossali camion come quello che mi ha appena tagliato la strada, che stanno sopraggiungendo in senso contrario a noi, ma lungo la loro dritta inarrestabile via, a porre fine a tutto questo?
Domande rotolanti nel tempo di un infinito breve spazio. Quello di due corsie.
Quelle della superstrada Orte-Cesena, direzione Roma, località valico del Verghereto.
Le 15,30 di un 21 marzo, il primo giorno di una stagione che andava sbocciando, quella del 2000 e uno.
Domande interrotte dallo schianto della parte posteriore della Scenic, adesso esplosa e girata su se stessa, contro l'opposta massicciata del monte, a lato della galleria.
Sani, terrorizzati, ma fermi, e salvi.
Solo qualche costola rotta, grazie al legame delle cinture di sicurezza.
Ma vivi, tutti. Risparmiati al peggio.
E così andò pure quella calda sera di san Rocco, quando la Lambretta rossa si infiilò a siluro dentro la fiancata della 127 amaranto, in uno schianto bellico di lamiere. Catapultandomici sopra, in alto, nel cielo melograno della sera.
A ritrovare il suolo, illeso, solo venti metri più avanti.
Solo con una falange di un dito rotta.
Non è subito, il tempo dei pensieri e delle riflessioni.
Del pianto dirotto e liberatorio, delle domande sul perché a te sia andata così, e a tanti - troppi - altri, tolta per sempre la possibilità di raccontarlo.
Non è al Pronto Soccorso dell'ospedale, dove ti portano urgenti, con le sirene accese, a prendersi cura delle botte del corpo, che hai ancora modo di rendertene conto.
Non è nemmeno lungo la lenta strada del ritorno, quella che il 21 marzo restava da percorrere e sulla quale ora mi stava conducendo un amico generoso e rassicurante: “Vi è andata bene, dai, poteva succedere che... C'erano trenta metri di vuoto sotto il cavalcavia... Davvero, un miracolo...”
Per me, è stato solo quando ho infine varcato la soglia di casa.
Quando, a sera ormai inoltrata, per rassicurarmi che fosse davvero vero, mentre le piccole si lavavano come d'abitudine i denti davanti allo specchio, io di nascosto mi sono fermato ad osservarle, protetto dalla porta semichiusa.
Di nascosto, per ascoltarle senza essere visto, mentre intonavano la filastrocca della buona notte. Con i piedini nudi (quello sinistro, si) che battevano sincroni - al ritmo dello spazzolino - il ritornello dell'amata canzoncina:
BAO-BAO-BAO-BAO-BAO-BAO, PINO...
Si, era vero.
Davvero.
Vera e improvvisamente lampante, la consapevolezza che - di nascosto - mi ha inondato.
Cosa conta davvero nella vita?
Denaro? Politica? Carriera?
Le ridicole fazioni e gli inutili crucci che quotidianamente ci auto-costruiamo?
No, una sola cosa, è quella che davvero mi importava:
BAO, BAO , PINO...