PAESI BASSI, CORTESIA IN QUOTA
Loquace, o taciturno. Impulsivo, o riflessivo. Tirchio, o scialacquone. Garbato, o petulante...
La domanda è sempre la medesima: con il carattere che abbiamo ci siamo nati, o sono state le circostanze della vita a cucircelo addosso? “Nosce Te Ipsum” (γνῶϑι σεαυτόν - conosci te stesso) recita l'antico detto sul frontespizio del tempio di Apollo in Delfi. Chissà perchè gli umani hanno così bisogno di catalogarsi. Forse che le etichette e le classificazioni, comprese quelle sociali, ci fanno sentire più sicuri? “Io sono estroverso”; “Io invece sono negato per la matematica!” “Dicono che sono impulsivo”... Di sicuro, avere delle categorie riconosciute e riconoscibili cui riferirsi è un po' come poter tastare il muro della stanza quando va via la luce. Mi sono sempre chiesto se esista una popolazione più gentile, o perlomeno più cordiale e socievole di un'altra. Certo che davanti al sorriso di questa bionda ragazza belga del bar cui sto chiedendo la strada per il parcheggio, la partita la riterrei già chiusa. Senza bisogno dei supplementari. Parlandomi in un fluentissimo inglese, prende il sottobicchiere della birra e perde ben più di cinque minuti a disegnarmi la mappa, incrocio per incrocio, verificando quasi sottovoce se io abbia ben compreso le direzioni su cui svoltare. Il che, per la risaputa differenza tra il cervello femminile - prevalentemente verbale - e quello visuospaziale maschile, mi è già di per sè uno squisito dono. Penso siano i larghi orizzonti di queste piane sconfinate, o l'incontenibile libertà del vento che qui soffia inarrestabile, a rendere così accoglienti e responsive le persone. Ne è testimonianza l'ininterrotto fluire delle biciclette, lungo ogni via, ad ogni ora del giorno, condotte da persone di tutte le età, di tutti i generi. Così come i nugoli di pale eoliche lungo le skylines degli orizzonti, moderne pronipoti degli antichi mulini a vento, rotori meccanici e motori di un'economia “a misura d'uomo”. Raymond Cattell, uno dei tanti che ci ha provato, è partito dalla tavola degli elementi di Mendeleev per tentare una classificazione dei diversi tratti della personalità. Quasi ovvio per lui, un chimico inglese convertitosi da grande - e alla grande - alla psicologia. Attorno agli anni '50 del '900, prese tutti gli aggettivi del dizionario inglese (più di diciassettemila) che definiscono caratteristiche comportamentali e li “shakerò” tramite un processo statistico-matematico noto come analisi fattoriale per distillare 16 fondamentali tratti che a suo modo di vedere costituiscono gli “atomi” della personalità. Da ciò il celeberrimo “16 PF – Personality Factors” un test utilizzato ancor oggi nella psicologia dell'orientamento e nella selezione del personale. Tratti distinti, precisi, “indivisibili”. Come elementi fisico-chimici, appunto. Certo che a vederlo da vicino, l'Atomium qui a Bruxelles un certo effetto lo fa davvero. Tirato su nel 1958 per l'Expo Universale, me lo ricordavo nelle illustrazioni del “Conoscere”, l'enciclopedia di noi scolari negli anni '60. Tuttavia dal vero è molto più “huge” di quanto pensassi. Si, sarebbe bello disporre di una sorta di DNA della personalità. Ed in effetti il codice genetico ereditato da mamma e papà è per ciascuno di noi la prima delle tre radici dalle quali traiamo la linfa della nostra identità. Le restanti due sono l'educazione ricevuta e l'ambiente sociale nel quale ci troviamo a crescere. Che poi, di cosa stiamo parlando? Di “come io mi vedo”, cioè l'autoimmagine? O di “come sono” realmente, cioè la mia effettiva struttura caratteriale? O piuttosto della valutazione che gli altri esprimono su di noi, cioè il “come mi vedono”? Una trentina d'anni dopo Cattell, Bandura e Mischel – il primo candese, l'altro austriaco di origine ebrea - prendono la questione da un altro lato: dicono che ciò che conta è l'”autoefficacia”: in altre parole, il livello di fiducia che ciascuno nutre nelle proprie competenze e capacità. Il “Ce la posso/non ce la posso fare”. Lo “Yes, I can”, insomma. E come dar torto a Bandura e Mischel? Le vedi, le facce dei calciatori che si avvicinano al dischetto del rigore in queste partite dei mondiali? Quei volti proiettati in primo piano nei maxischermi che in queste piazze dei “Paesi Bassi” la gente segue in manipoli vocianti, tra fiumi di birra scura? In questi aggregati di umanità, attorno ai tavolini delle brasserie, puoi riconoscere la terra madre di ciascuno. Dalle striscie sulle guance e sulla fronte; dalle bandiere, dai fazzoletti, dalle magliette, dal colore della loro Nazionale. Rosso i belgi, arancio gi olandesi, e poi il giallo-verde brasiliano, e poi i cileni, e gli africani... Ma le vedi, la vedi, la faccia del calciatore che sta andando a tirare il rigore? E il portiere che tenta in tutti i modi di disturbarlo, di innervosirlo? Già dallo sguardo ti puoi immaginare se il tiro lo metterà nel sacco o se all'improvviso la gamba gli si ammoscia e la palla non varcherà la linea, in un orribile indelebile flop. Lo vedi dallo sguardo, se quel calciatore ci crede. Lo capisci dalla postura, se si sente sicuro di sè o se la sta cagando sotto. O se sta indecorosamente bluffando. Questa è l'autoefficacia secondo gli studiosi della teoria cognitivo-sociale: l'autostima riguarda l'essere, l'autoefficacia il fare. “Yes, I can”.... or not? E guarda la gente: la gente in queste piazze. Le piazze di Bruges, Anversa, Loviano. E poi le piazze di Amsterdam, Gouda, Delft, Den Haag, in Olanda. Guarda le reazioni ai falli degli avversari, guarda come si indignano per una ammonizione o a una decisione ambigua dell'arbitro. Come è possibile che la stessa azione venga giudicata in maniera diametralmente opposta, solo perchè hai addosso una maglietta di un altro colore rispetto a chi ti siede a fianco? Bah, davvero: quando i costruttivisti sostengono che la realtà è niente più di ciò che noi ci edifichiamo attorno ed addosso, tirando su dal nostro interno i muri del “giusto”, dello “sbagliato”, del “buono”, del “vero”, del “legale”... del ”clandestino”, esprimono probabilmente una grande oggettiva verità. Oggettiva loro malgrado, verrebbe da dire, rispetto al relativismo che propugnano... Maturana, Watzlawick , Nardone: una bella compagnia di spietati dissacratori della sacra scienza positivista. Di molte certezze che si rivelano, in questa luce, niente più che convinzioni. Una questione peraltro già posta dal buon Parmenide di Elea, cinquecento anni avanti Cristo, nel suo celebre aforisma: “Perciò furono solo soltanto nomi le cose che i mortali - persuasi - ritennero vere”. Già: “Nomina nuda tenemus” scrive Umberto Eco nel “Nome della rosa”. Soltanto etichette, categorie, noi possiamo adoperare. Nei giudizi, nella politica, nelle relazioni, nelle regole sociali. Praticamente niente più che fuffa, quindi. Aria fritta. Sarà così anche per gli aggettivi che usiamo per descrivere il carattere? Terribile. Da sentirsi mancare la terra sotto i piedi. Si, i nomi sono sono codici, convenzioni. Ma i volti no. I volti sono persone, sono storia; sono dolore e passioni; i volti sono sguardi unici ed irripetibili. Come i tratti della propria grafia. In un volto ci leggi le emozioni, le gioie e i sogni di vittoria, le paure più recondite ed i segreti del cuore, se fai attenzione. Anche gli errori, gli angusti egoismi e le acrimonie un po' patetiche che tutti portiamo dentro, certo. Ma se è vero come è vero che dietro ogni altrui comportamento “strano” si cela una sofferenza a noi sconosciuta, un volto esprime sempre la verità più nuda di un essere umano. Che alla fine sia proprio questa, ciò che chiamiamo identità? Quassù nei Paesi cosiddetti Bassi, ho visto volti gentili e senza trucco. Ho visto volti che mi piacciono. |