IL MESTIERE PIU' GRANDE
I trenta, trentacinque, quarant'anni.
Li ricordo come l'età delle migliori energie.
Ogni genitore sa come sia questa, la “finestra” in cui oggi decidi se vuoi mettere al mondo dei figli.
Che è sempre e comunque un “accoglierli” al mondo. Come nell'adozione, sottraendoli alla nube dell'insignificanza. Donando loro un nome, una famiglia, un'identità.
Poi i cuccioli crescono, imboccano inesorabilmente l'impervio sentiero dell'adolescenza.
Di quel tenero cicciobello, di quella bambolina con gli occhi spalancati al mondo inebriati di meraviglia, sembra restare soltanto il ricordo.
Alla sete di scoprire, alle inesauribili domande, l'infinita voglia di curiosare, di imparare, si sostituiscono silenzi talvolta impenetrabili.
Rimane qualche foto, stampata nell'aura nostalgica delle vacanze al mare, o delle passeggiate tra i boschi dolomitici.
Pensavi non dovesse conoscere termine, l'età dell'innocenza. L'era nella quale eri sempre e inevitabilmente un supereroe, agli occhi di tuo figlio. Niente di meno.
Credevi non saresti potuto morire, mai.
Quante storie, quotidianamente, mi capita di ascoltare. Di genitori disorientati, talvolta disperati. Smarriti in vicoli ciechi dove la comunicazione con i figli adolescenti diviene guerriglia, imboscata insidiosa, a fallimento garantito.
E storie di figli, come Anna (nome di fantasia per una bellissima ragazza vera) che mi dice: “Sai, a me manca un papà, non Mario” (nome inventato per un uomo vivente, ex-marito, suo genitore per sempre almeno a livello giuridico).
Quanti casi - insospettabili agli occhi di molti - che conducono fino alle soglie di una clinica, o una caserma dei carabinieri, una comunità terapeutica.
Sembra incredibile. Non l'avresti immaginato, mai. Escluso, da ogni previsione.
Allora penso che il jazz è una straordinaria metafora dell'esistenza.
Ti viene assegnato un pezzo noto, “standard” si chiama tra musicisti.
All'inizio è semplice, facile, scorrevole. Chi non sa canticchiare “O sole mio”, “Volare”, o “Un piccolo grande amore?”.
Poi sei chiamato a cambiare registro, progressione melodica.
Talvolta ritmo, tonalità.
Devi eseguire una variazione, insomma. Devi improvvisarci sopra.
Ti serve intuito, tecnica, passione, sensibilità. Fantasia.
E devi rimanere assolutamente in contatto con gli altri strumentisti. In ascolto, in connessione.
Non devi perderti il “feeling” con il pubblico. Lo tocchi, inconfondibile, sotto la punta delle dita.
E' li che lo “tasti”.
Ogni volta è differente. Non lo puoi prevedere.
Pensi di essere tu a scegliere le note; ti accorgi invece che sono loro, a condurti. Dove e come non avresti mai previsto o calcolato.
Un assolo, nel jazz, non ti viene mai allo stesso modo.
Due figli, tre mondi diversi. Il loro, e il tuo.
Il tempo passa, e ti cambia. Modifica, trasforma.
Giorno dopo giorno. Nome dopo nome. Relazione dopo relazione.
A un certo punto ti guardi indietro, e ti accorgi che il risultato non è poi così male.
Certo, non lo sapresti ripetere, allo stesso modo.
Allora rilassati, e passa il testimone.
Lascia che sia tuo figlio, a mostrarti cosa suonano i ragazzi d'oggi.
Probabile che non ti piaccia del tutto, il loro groove.
Puoi trovarlo noioso, stereotipo, ripetitivo.
Invece ascolta bene: magari ti accorgi, dietro luci psichedeliche e un ossessivo “bum, bum”, di due occhietti furbi e vivacissimi che ancora ti stanno chiedendo:
“Papi, giochiamo?”.
- Up & Up -
Li ricordo come l'età delle migliori energie.
Ogni genitore sa come sia questa, la “finestra” in cui oggi decidi se vuoi mettere al mondo dei figli.
Che è sempre e comunque un “accoglierli” al mondo. Come nell'adozione, sottraendoli alla nube dell'insignificanza. Donando loro un nome, una famiglia, un'identità.
Poi i cuccioli crescono, imboccano inesorabilmente l'impervio sentiero dell'adolescenza.
Di quel tenero cicciobello, di quella bambolina con gli occhi spalancati al mondo inebriati di meraviglia, sembra restare soltanto il ricordo.
Alla sete di scoprire, alle inesauribili domande, l'infinita voglia di curiosare, di imparare, si sostituiscono silenzi talvolta impenetrabili.
Rimane qualche foto, stampata nell'aura nostalgica delle vacanze al mare, o delle passeggiate tra i boschi dolomitici.
Pensavi non dovesse conoscere termine, l'età dell'innocenza. L'era nella quale eri sempre e inevitabilmente un supereroe, agli occhi di tuo figlio. Niente di meno.
Credevi non saresti potuto morire, mai.
Quante storie, quotidianamente, mi capita di ascoltare. Di genitori disorientati, talvolta disperati. Smarriti in vicoli ciechi dove la comunicazione con i figli adolescenti diviene guerriglia, imboscata insidiosa, a fallimento garantito.
E storie di figli, come Anna (nome di fantasia per una bellissima ragazza vera) che mi dice: “Sai, a me manca un papà, non Mario” (nome inventato per un uomo vivente, ex-marito, suo genitore per sempre almeno a livello giuridico).
Quanti casi - insospettabili agli occhi di molti - che conducono fino alle soglie di una clinica, o una caserma dei carabinieri, una comunità terapeutica.
Sembra incredibile. Non l'avresti immaginato, mai. Escluso, da ogni previsione.
Allora penso che il jazz è una straordinaria metafora dell'esistenza.
Ti viene assegnato un pezzo noto, “standard” si chiama tra musicisti.
All'inizio è semplice, facile, scorrevole. Chi non sa canticchiare “O sole mio”, “Volare”, o “Un piccolo grande amore?”.
Poi sei chiamato a cambiare registro, progressione melodica.
Talvolta ritmo, tonalità.
Devi eseguire una variazione, insomma. Devi improvvisarci sopra.
Ti serve intuito, tecnica, passione, sensibilità. Fantasia.
E devi rimanere assolutamente in contatto con gli altri strumentisti. In ascolto, in connessione.
Non devi perderti il “feeling” con il pubblico. Lo tocchi, inconfondibile, sotto la punta delle dita.
E' li che lo “tasti”.
Ogni volta è differente. Non lo puoi prevedere.
Pensi di essere tu a scegliere le note; ti accorgi invece che sono loro, a condurti. Dove e come non avresti mai previsto o calcolato.
Un assolo, nel jazz, non ti viene mai allo stesso modo.
Due figli, tre mondi diversi. Il loro, e il tuo.
Il tempo passa, e ti cambia. Modifica, trasforma.
Giorno dopo giorno. Nome dopo nome. Relazione dopo relazione.
A un certo punto ti guardi indietro, e ti accorgi che il risultato non è poi così male.
Certo, non lo sapresti ripetere, allo stesso modo.
Allora rilassati, e passa il testimone.
Lascia che sia tuo figlio, a mostrarti cosa suonano i ragazzi d'oggi.
Probabile che non ti piaccia del tutto, il loro groove.
Puoi trovarlo noioso, stereotipo, ripetitivo.
Invece ascolta bene: magari ti accorgi, dietro luci psichedeliche e un ossessivo “bum, bum”, di due occhietti furbi e vivacissimi che ancora ti stanno chiedendo:
“Papi, giochiamo?”.
- Up & Up -