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NON DI SOLO PANE

12/8/2020

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Anno 1927, Chicago. 
Siamo alla Western Electric, un colosso dell’ingegneria delle telecomunicazioni. Ci lavorano ventinovemila persone. Vi si producono cavi e apparecchiature telefoniche. 
La psicologia del lavoro si sta consolidando come scienza sperimentale. 
​
Per misurare l’effetto della luce sulla produttività degli operai, vengono costituiti due gruppi: il primo viene sottoposto a variazioni di intensità luminosa, il secondo continua a lavorare sotto una luce costante. I dipendenti vengono informati degli obiettivi delle ricerche, che mirano a far emergere i fattori in grado di contribuire a un maggior livello di soddisfazione dei lavoratori. E, conseguentemente, a una maggiore produttività.

Con l’aumento dell’intensità della luce si nota un miglioramento della produttività. Ma il fatto singolare e del tutto inatteso è che migliora contestualmente anche la produttività del reparto a fianco, che continua a lavorare con un invariato livello di illuminazione, per disporre di un elemento di controllo.

Elton Mayo, lo psicologo di origine australiana incaricato della ricerca, si interroga sulle ragioni dello strano fenomeno.

Prende allora sei operaie, sei giovani ragazze che assemblano relè. Lavorano per quarantotto ore alla settimana, anche il sabato. Non hanno nessuna pausa, e producono in media centoquarantaquattromila relè.
Mayo le mette in un luogo separato dell’azienda, e comincia a studiare quello che fanno. Poi introduce delle variabili, dei cambiamenti, e guarda come va a finire.

All’inizio, Mayo introduce il lavoro a cottimo: più lavori, più guadagni. La produzione aumenta moltissimo.

Poi, introduce due pause, piccole: cinque minuti al mattino, cinque minuti al pomeriggio. Anche qui, la produzione aumenta.

Poi le pause aumentano: diventano dieci minuti. Dieci al mattino, dieci al pomeriggio. La produzione aumenta.

Le pause diventano sei, un ulteriore cambiamento di cinque minuti l’una. In questo caso, la produzione diminuisce. Le ragazze, interrogate, rispondono che perdono il ritmo. Ci sono troppe interruzioni.

Poi, un altro cambiamento: durante la pausa del mattino, nei dieci minuti, viene servito un pasto caldo: offre la ditta. Anche in questo caso, la produzione aumenta.

Un ulteriore cambiamento, per vedere che effetto ha la riduzione dell’orario di lavoro: si lavora mezz’ora di meno ogni giorno. La produzione, anche in questo caso, continua ad aumentare.

Un altro cambiamento: la riduzione di un’altra mezz’ora di lavoro. Quindi si lavora un’ora al meno al giorno. La produzione rimane invariata.

Poi, un cambiamento assolutamente radicale: tutto torna come prima. Quarantott’ore, niente, pause, niente pasto caldo. Niente uscita anticipata dal lavoro. La produzione aumenta moltissimo.

Mayo ci mette un po’ a capire cosa può essere successo. 
Poi, ha l’intuizione: quei sei soggetti di esperimenti, quelle sei ragazze, sono diventate un gruppo. Hanno sperimentato la bellezza, la passione di interessare a qualcuno. A qualcuno che le sta studiando, ma si interessa a loro. E’ l’effetto di “fare meglio”, di essere più produttivi quando qualcuno ha un interesse verso di noi. 

Proviamo a pensare cosa poteva essere la vita di sei ragazze nel 1927, nella periferia di Chicago, e capiamo che se qualcuno dimostra interesse, uno psicologo ci studia, ci osserva, rimane un po’ vicino a noi, qualcosa cambia dentro di noi, ci viene più voglia, più entusiasmo, anche di lavorare di più.

Sono esattamente queste le parole con cui Massimo Cirri, psicologo del lavoro, autore teatrale e conduttore radiofonico descrive il celebre “Effetto Hawthorne” della Western Electric di Chicago.

E tu adesso capisci perché i like su Facebook siano antidepressivi. 
E, al contempo, diano dipendenza. Come le droghe dopaminergiche, tipo la cocaina. 

E perché John Bowlby avesse – ancora una volta – dannatamente ragione, quando sosteneva che il bisogno primario di ogni essere umano è di ricevere attenzioni e cure. 
Di venire “riconosciuto”.


        - too much love will kill you -

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BEPI MATONèA

2/8/2020

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I tasti sono di avorio. 
Mi basta questo, per osservarla con la deferenza che si riserva a una rispettabile signora. Di una certa età. 
Il lignaggio, nella nobiltà, lo si coglie dai particolari. Dai lineamenti del volto, dall'eleganza nelle movenze.  Ogni ruga nel viso, il solco di un amore in gioventù. Qualcuno segreto, altri sicuramente alla luce del sole.

"Tienila tu, te la regalo."
"Sei matto? Perché?"
 "Era di mio padre."
 "A maggior ragione, ne sarai affezionato."
 "Si. Ma la fisarmonica è uno strumento che ha un suono troppo melanconico, per me. Non riesco ad ascoltarla. Troppa tristezza. Troppa malinconia. Tienila tu."


Non aveva tutti i torti. Lo scrive anche il grande Gabriel Garcia Marquez: “Non so cos’abbia di tanto comunicativo la fisarmonica che quando la sentiamo ci si stringe il cuore. Io personalmente, farei innalzare una statua a questo mantice nostalgico, amaramente umano, che tanto ha dell’animale triste”.
 
Per gli amici è sempre stato "Bepi Matonéa". A scuola, il primo della classe.
Per gli strizzacervelli che l'hanno avuto in cura, un caso conclamato di DOCP. Disturbo Ossessivo di Personalità. Che va distinto dal semplice DOC, come leggi nei manuali diagnostici, in quanto più pervasivo. Più stabile. Un vero tratto del carattere, insomma.

Qual'è il problema?
"Tirar de longo", per dirla nel linguaggio della sua terra, quella veneta.
Su tutto. Su tutti. 
Su tutte, specialmente. Tant'è che una donna "buona" per sé, non gli era ancora riuscito di trovarla. O conservarla, più precisamente.
Ci scappava sempre quel piccolo particolare, quel difettuccio trascurabile, ma...
Le ragazze lo mollavano inesorabilmente perché, prima o poi, saltava sempre fuori qualcosa che "veniva prima" di loro. Che era considerato più importante, necessario. Prioritario.

Come vuoi che potesse durare, quindi?

Una Paolo Soprani. Risale probabilmente agli anni '40 del Novecento. Il secolo andato. Di ballate, qualcuna anche un po' jazz, deve averne accompagnate diverse.
è uno strumento bellissimo, la fisarmonica. Completo. Ci esegui la melodia, e l'accompagnamento. Il cantabile, e gli arrangiamenti. Qualcuno ne conserva solamente l’immagine folkloristica, zingaresca.
Invece è come un organo.  Quasi un'orchestra.
Per metà, la suoni come se fossi cieco. La mano sinistra, quella dedicata ai bottoni dei bassi, non la vedi. Non la puoi proprio guardare, rimane nascosta dal mantice. Quei tasti lì, li devi solo "sentire". Riconoscere a memoria. Memoria tattile, e cenestesica. 
Certo, richiede studio, esercizio. Applicazione, continuità. Come tutte le passioni.
A volte pensi che "spontanea" si dica di una cosa che ti viene senza fatica. È vero, ma solo come ultimo anello di una catena che si chiama apprendimento.

Bepi Matonéa. Dovevi sentirlo, nella sua incessante sequela di recriminazioni, scrupoli, dubbi e titubanze, quando partiva. Un disco rotto. Una campana da morto.
Pensa che una volta fece la corte per sei mesi a una ragazza. Dico: sei. Quando finalmente riuscì a farsi dare il numero di telefono, e a ottenere di portarla fuori a cena, all'appuntamento poi non si è nemmeno presentato. Ripensandoci, gli veniva da pensare. A cosa, nemmeno lui sapeva bene.
Però... gli veniva da pensare.

Il problema, in una parola, era il controllo. Che tentava di esercitare su tutto. Sui tutti.
Che poi, da quando aveva scoperto Facebook, il suo "mal di vivere" era assurto a livelli parossistici.
Costantemente appiccicato allo schermo. Ne era diventato letteralmente schiavo. A leggere i commenti della gente, a replicarci di suo, in un'agonica spirale senza fondo nella quale frustrazione, idiozia, luoghi comuni e dipendenza perditempo precipitano l’una addosso all’altra.

Una vita diventata assurda. Una compulsione senza più respiro. Hai presente come se - cose che per fortuna accadono solo nei film, mica nella realtà del ventunesimo secolo - ti capitasse di morire strozzato, mentre tre uomini ti tengono bloccato a terra, ammanettato, e un quarto ti soffoca senza pietà, togliendoti fino all'ultimo soffio d'aria, premendo a tutto peso il suo ginocchio sul tuo collo, dietro un ghigno criminale? Cose da film, per fortuna: mica capitano, nella realtà. 
O di spegnerti lottando allo spasimo delle forze in un letto d'ospedale, mentre i medici attorno a te le provano tutte, soffiandoti nei polmoni, a viva forza, quantità d'ossigeno a ettolitri, nel tentativo di vincerla su di un virus fetente e micidiale, ancor oggi più forte delle terapie clinicamente disponibili?

Ecco, il Disturbo Ossessivo di Personalità è così.
Logorante, pervasivo.  In una parola: asfissiante.
 
Lo sai perché dicono sia uno strumento vivo, la fisarmonica? A differenza di altri, specie quelli moderni che senza alimentazione elettrica sono e rimangono del tutto spenti, freddi, quasi cadaveri?
No, non è solo perché i materiali che la costituiscono sono la prosecuzione di altre esistenze: il legno, l’avorio, oltre all’acciaio delle ance.
 
La fisarmonica vive perché ha un polmone.
Sì, la fisarmonica respira. Lo senti dal soffio. Dal volume del suono.
Quanto e come, lo moduli abbracciandola.
Abbracciandola, si. E tenendola appresso al cuore.
Intensamente, o rallentando; accelerando, o sospendendo la pressione, quasi a farla sussurrare.
In un ininterrotto andirivieni, modulando il ritmo.
Rispettando le pause.
Che, come diceva qualcuno, la musica è solo il suono del silenzio tra una nota e l’altra.
 
Lasciando scorrere la mano sopra i tasti “ciechi”.
Fidandoti, con leggerezza. Li conosci, ti sono familiari.
Che se ti parte il tarlo del controllo, diviene ansia.
 
Come quando ami, per davvero.
Che non cerchi la felicità, “semmai, proteggila”.
 
Fino al termine del tango.
Fino all’ultimo respiro.


        - every breath you take -


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    Noneto Circin

    La parola, il suono, l’immagine, sono l’oggetto dei miei interessi nel tempo libero. 
    A volte, tentano di diventare voce. 
    Nella scrittura, nella musica, nella fotografia. 
    Per passione, per divertimento.
    Insomma, per una delle cose più serie nella vita: il gioco. 
    Tramite i tasti di un pianoforte, una penna che scorre veloce, le lenti di un vecchio obiettivo. 

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