L'ABITO NON FA IL PROFUGO
Quante sono le sfumature del blu?
Dal cadetto al pervinca, si potranno mai contare tutte? Dicono sia proprio in questa casa, a una spanna dal mare, che Mimmo Modugno abbia composto la canzone più famosa al mondo. In realtà è una bufala, un “fake”, come devi dire oggi, nel linguaggio dell'era Internet. “Fake”. La notizia, non la casa. Nativo, o immigrato digitale che tu sia. “Fake”, hai capito? Già, il linguaggio. Probabilmente la funzione più straordinaria e misteriosa che noi della specie Homo Sapiens ci portiamo appresso. E' meraviglioso riflettere su come con la parola, al pari della musica e della matematica, utilizzando elementi finiti noi possiamo costruire strutture infinite. Costruire strutture infinite da elementi finiti. Ecco i numeri: 2, 4, 6, 8, 10.... con essi realizzziamo consecutive ed interminabili catene di calcoli fatti di addizioni, divisioni, moltiplicazioni... non c'è termine possibile, lo sappiamo fin dai tempi in cui portavamo il grembiulino e le 10,30 era l'ora della merenda. E le note musicali: Do, Re, Mi, Fa, Sol... nei dodici semitoni ci trovi tutte le composizioni del passato, da Monteverdi a Rachmaninov, dal Gregoriano a Scott Joplin; del presente, e di ogni futuro immaginabile. Costruire strutture infinite da elementi finiti. E con le parole? Addirittura inserendo una frase senza senzo in una più ampia, essa ritrova un significato corretto. Ad esempio, se alla cara maestra Faccini, in quarta elementare avessi detto: “Molte ragazze suona” mi sarei beccato molto probabilmente un santo predicozzo, condito da sguardo burbero ed accigliato. In realtà non era per nulla cattiva, la maestra Franca: era tanto l'affetto ed il bene che ci voleva. Se invece dico: “Andrea, che ha avuto molte ragazze, suona” ecco la medesima assurda frase (“ - molte ragazze suona - ”) acquisire d'incanto un significato sensato ed addirittura pruriginoso, non appena incastellata in una struttura maggiore, che la contiene e supera. Open up our mind, dear friends... Non c'è limite alla distanza tra il primo termine ed il predicato verbale affinchè cessi la comprensione della frase, almeno fintantochè tiene la nostra memoria operativa. Ad esempio, basta che io aggiunga ogni volta una premessa del tipo: “Mario dice che”: “Mario dice che - Andrea, che ha avuto molte ragazze, suona -” e ancora: “Giovanni dice che – Mario dice che Andrea, che ha avuto molte ragazze, suona - ”. E cosi via, senza fine... Insomma: costruire strutture infinite da elementi finiti. Dobbiamo ad una delle menti più geniali tra i viventi, quella di Noam Chomsky, lo svelarci il fatto che ogni frase ha una struttura superficiale, ed una profonda. Delle due, vince sempre la seconda. Prova ne sia che più forte della grammatica e della sintassi - che costituiscono la struttura superficiale - ciò che noi cogliamo è il significato, anche oltre gli errori, le imprecisioni o gli ipercorretismi dei bambini piccoli: "un uovo, due uovi...". Grammatica generativa, l'ha chiamata. Se uno mi dice: “Ho incontrato Nicola in moto”, io non riesco a distinguere dalla frase chi sia, quello in moto: se lui o Nicola. Tuttavia, se un altro mi riferisce che “Gianni ha sparato ad un orsa in pigiama”, nessuno avrà dubbi su chi fosse l'indossatore dell'indumento. La competenza linguistica, ricorda l'immenso Chomsky, qualunque sia la lingua parlata, è una struttura innata ed universale. Non risiede nelle regole imparate a scuola, nemmeno se insegnate dalla buona e cara maestra Faccini; bensì nella corteccia cerebrale di ogni individuo. Regole che, semplicemente, ci precedono, a qualunque latitudine. Ne deriva che ciascun neonato, alla nascita, possiede tutte le facoltà cognitive già predisposte per parlare qualunque lingua. Sarà l'esposizione selettiva alla lingua madre a “potare”, a tagliare via, l'eccesso di connessioni neuronali, che risulterebbero ridondanti ed inutili. Centotredici sono i chilometri di distanza dalla costa africana. Duecentocinque, dalla Sicilia. Un'ora e mezza di volo da Verona. 6° più a sud di Tunisi. Seimilatrecento gli abitanti. Benvenuti, questa è Lampedusa. Uno zoccolo di terra e scogli rubato al cuore del Mediterraneo, conteso nel corso dei secoli tra fenici, greci, arabi, romani, borboni, inglesi, francesi, italiani... quale avamposto militare di importanza strategica. Questioni che non si sono mai risolte tra amichevoli calici di prosecco in qualche soffice “happy hour” con pianoforte in sottofondo, o nelle amene serate di eventi estivi tra personcine profumate e di bianco vestite. Le contese territoriali sono sempre state guerra, violenza, stupri, torture e massacri. Esecuzioni sommarie e vendette. Sotto qualunque cielo, purtroppo. Tuttavia anche i drammi, talvolta si tramutano in risorse. Fu infatti quando colonnello libico Gheddafi, nel 1986, scagliò due missili sovietici “Scud” contro la base Nato qui allora residente, che Lampedusa divenne nota agli italiani. Dando così la stura al turismo di massa. Costruire strutture infinite da elementi finiti. Se dal linguaggio e dalle sue affascinanti regole criptate ci tuffiamo nel mare delle emozioni, ritroviamo il medesimo principio. Paura, rabbia, tristezza, gioia. Più la sorpresa ed il disgusto, per stare con Paul Ekman. Questa la sua lista-base, che tratteggiò nel 1972, seguendo una popolazione della Nuova Guinea isolata dal mondo. Le espressioni del viso quando un essere umano sperimenta “quella” emozione sono sempre identiche, in qualunque angolo del mondo e della storia. Vent'anni dopo, lungo la scia di altri ricercatori come Robert Plutchick, Elkman ampliò la descrizione ad ulteriori stati emotivi come l'imbarazzo, l'eccitazione, la colpa, la vergogna, la soddisfazione. Tra tutte le emozioni, le più basilari rimangono quattro, sempre le medesime: paura, rabbia, tristezza, gioia. La paura è un segnale di pericolo: risponde al bisogno di sopravvivenza. La rabbia ci segnala che un bisogno per noi importante non ha ricevuto risposta . La tristezza è una emozione che segnala il lutto, la perdita. La gioia ha la funzione di segnalare quando un bisogno ha ottenuto risposta . Paura Penso a Cristian - nome di fantasia per una situazione usuale – Rolex blue marine al polso e scarpe Prada, per tre mesi in terapia a seguito di attacchi di panico. Vive una situazione tremenda, “da impazzire”, come dice fissandomi con la pupilla dilatata dal terrore. Uno stato di angoscia indescrivibile, quando arriva e lo prende, che lo sta costringendo a evitare, cerchio dopo cerchio, tutti gli ambienti, le situazioni, addirittura le persone che gli ricordano “quel giono”. Adesso ha paura di tutto: del suo respiro, dei battiti del suo cuore. Teme di perderne il controllo, fino a morire. Ha davvero una fottutissima paura di morire. Si, da quel giorno. Anzi, da quella sera. La sera in cui, in discoteca a Jesolo, gli è “calata” male. Eppure la roba, anzi il “motorino” nel gergo del gruppo di amici, pareva della migliore qualità. Said, il marocchino, si era sempre rivelato un pusher affidabile e discreto. Si, un extracomunitario e clandestino, uno di quelli contro i quali dalla propria pagina Facebook Cristian si scagliava di continuo con parole grosse, denunciandone i “privilegi” e la disparità di trattamento rispetto agli italiani, come lui. In realtà, la “polvere” era quella di sempre. Anche il sitema neurovegetativo di Cristian stava reagendo come al solito. Le emozioni, dal punto di vista fisiologico, nel nostro corpo funzionano tutte alla stessa maniera. Si, è un fatto quasi incredibile, a pensarci. Adrenalina e cortisolo si attivano lungo il circuito ipotalamo-ipofisi-corteccia surrenale. Qualunque sia il tipo di emozione. Il gusto dipende dall'etichetta cognitiva con la quale il cervello la cataloga. E' una faccenda mentale, di “software”, non di “hardware”. Cristian, Rolex blue marine al polso e scarpe Prada, era la personificazione della paura. “Non mi riconosco più”, continuava a ripetermi. “Morirò davvero?” “Si può morire per un attacco di panico? Dimmi che non è vero. Puoi fare qualcosa per me? Ne uscirò? Ne uscirò? Aiutami, per favore...” Qui al Porto Nuovo di Lampedusa, in fondo al campo sportivo, passando davanti alle carcasse dei barconi ammassate una sopra l'altra, non riesco a non pensare anche alla paura di Ester Ada. Non aveva mai visto il mare prima, figurarsi se sapeva nuotare. Ester Ada ha diciotto anni quando parte, in fuga con il fratellino Hassan, da una storia di miseria, di fame, di sopraffazione. Immagino i suoi occhi, il suo sguardo fisso all'orizzonte e carico di sogni, quando la barca è salpata dalla costa africana. E sento il suo panico, il cuore in gola, il respiro che ha dovuto sfidare - un centimetro sotto l'altro - l'acqua che saliva alla gola quando quel dannato barcone si è rovesciato. Quanto avrà voluto, implorato, urlato una mano che si tendesse ad afferare la sua, in quei momenti. Una cima, una tavola, un pezzo qualunque di materia solida cui aggrappare i propri diciotto anni, in quell'aprile del 2009. Perché a diciotto anni è sempre e solo dannatamente ingiusto, dover morire. “Hassan, dove sei, fratello mio?”. Adrenalina, cortisolo, paura di morire, respiro che manca. Ester Ada l'hanno sepolta il 22 aprile 2009, qui a Lampedusa. Cristian non è ancora tornato ad uscire il sabato sera con i suoi amici. Ci sta pensando. Ora sta meglio, l'ansia è ampiamente sotto controllo; tuttavia sta riorientando in maniera radicale tutta la propria esistenza, a partire da un pugno di valori-base che prima aveva del tutto rimosso. Rabbia Leggo quella di Manuel - nome e identità di fantasia per una situazione autentica - attivista sociale indignato perché vede i raccoglitori di ortaggi nelle sue valli pagati tre euro l'ora. E' un'emozione che chiama alla riscossa, la rabbia. Alla ripartenza, alla vita. Una spinta al riscatto, un sentiero verso la giustizia, l'equaglianza. Quante sopraffazioni terremmo consacrate, senza di essa? Quanti dittatori, quanti fantocci ancora al potere? E colgo in molte risposte all'intervento di Manuel una rabbia di reazione, difensiva. Leggibilissima e comprensibile, quando le sicurezze-base della tua famiglia, del tuo lavoro, della tua casa, dei tuoi figli le senti minacciate. Una fiera delle frustrazioni, tutte in vetrina e ben ostese. Ciascuno fervente in una descrizione al ribasso di quanto si sia sentito sfruttato, sottopagato, penalizzato dalla sorte o dal “padrone”. Evviva la rabbia, allora. Purchè non diventi una guerra tra poveri. Dove chi ci guadagna, alla fine, sappiamo già chi sia, e rimanga. Evviva la rabbia, come quella che nella vita di coppia ti consente di superare un tradimento, una quarantena di menzogne, un'umiliazione spietata e persistente. Fino ai vertici dell'odio. E' una strada obbligata, quella della rabbia, per ricominciare a vivere. Non è consigliato, tuttavia, percorrerla da soli. Meglio che ad accompagnarti chiami qualcuno. Magari un amico, uno che davvero ti vuol bene. Lungo la rotta dell'ira non è infatti raro l'affondare, nei tanti frangenti in cui la luce del discernimento se ne spenge. “Non rinnegare mai la rabbia, ma non agire mai sotto il suo influsso”, recita l'antico adagio orientale. Se poi alla fine della rotta, dopo svariate miglia, marosi e risacche, riesci ad approdare alla libertà pacificante del perdono – che non è necessariamente riconciliazione – allora la grazia è dentro di te. Tristezza Penso a Sonia - nome di fantasia per una situazione cruda - figlia di un piccolo imprenditore veneto. E' toccato a lei trovare suo padre impiccato ad una trave dell'azienda, quattro mesi fa. Dicono fosse depresso. Dicono che avesse cercato in tutti i modi di salvare l'attività, di non licenziare gli operai, di trovare nuovi ordinativi. Ma la “crisi” se l'è inghiottito. Mario, il papà di Sonia, era un uomo buono. Una vita dedicata al lavoro. La sua vita era “il” lavoro. Viveva, Mario, per il lavoro. Quando il lavoro ha cominciato a finire, Mario la vita se l'è tolta. Sempre poche ferie, dodici ore di lavoro al giorno quando il mercato tirava. Sì, i soliti problemi con le tasse ed il fisco, ma: “Cosa vuoi, se non ci si arrangia, chi ti aiuta?”. Da un paio d'anni, quando la crisi ha cominciato a mordere, Mario è entrato in cura antidepressiva. Ma in fondo non ci credeva poi molto: “Cosa vuoi che facciano, queste pastiglie? Sono io, che devo reagire”. Ed infatti Mario, come un leone nella savana, tutte le difficoltà tecniche, commerciali ed amministrative della propria fabbrichetta le aveva sempre risolte. Da solo. “Self made man” dicono gli americani. Una sola cosa metteva in difficoltà Mario: parlare di se stesso. Dei suoi sentimenti. Delle sue paure. Nessuno gliel'aveva mai insegnato. Anzi: roba da vergognarsi, per un uomo – anzi, un maschio -come lui. Penso a Sonia, che con le unghie e con le lacrime ora mi chiede di aiutarla a non essere inghiottita nel medesimo vortice che ha inabissato suo padre: quello della depressione. E continua a ripetersi, senza indulgenza: “Perché, papà, non me ne hai voluto parlare, prima?”. E penso a Ramin Bahrami, sublime pianista persiano (si, amano definirsi così, piuttosto che “iraniani”). Probabilmente il migliore interprete vivente di Johann Sebastian Bach. L'erede di Glenn Gould. Di famiglia benestante, cotretto a migrare in Europa a 11 anni a seguito dell'avvento del regime degli Ayatollah a Teheran. Il padre, ingegnere dello Scià, incarcerato in quanto accusato di essere un oppositore del nuovo regime. Lo portano via da casa una sera. Ramin ha 8 anni, non lo può nemmeno salutare. Ramin non lo rivedrà mai più, suo padre, morto in carcere probabilmente per tortura nel 1991. Pur nella tragedia, a Ramin è andata meglio di Ester Ada su quel dannato barcone colato a picco. Ramin ha studiato in Italia, ora considera l'Italia il suo paese, anche quando porta in giro per il mondo la propria eccelsa sensibilità interpretativa. Crede apertamente nella missione di diffondere la musica come linguaggio universale, capace di parlare dritto al cuore degli umani, lì dove nascono le emozioni più profonde e risonanti. Descrivendo uno dei più celebri pezzi pianistici della scuola russa, Ramin così si esprime: “Quando ti portano via tutto ciò che è stato tuo per generazioni, tu non sai più chi sei, e non hai idea del perchè dovresti stare a questo mondo. C'è il dolore della separazione, quello di mia nonna, di mia madre, mio e dei miei fratelli, quando nostro padre venne incarcerato. C'è la solitudine ed il senso di incompletezza che mi porto dentro da allora, anche se sono circondato dalle persone che amo. Quando mi sento così, non c'è miglior consolazione della musica: ascolto il Rach3 da quando sono bambino, e ancora mi commuove e mi sprona a reagire, proprio perchè dentro c'è tutta la mia vita, quella della mia famiglia, la nostra identità e la nostra storia”. Gioia Penso a Maria, nome di fantasia per situazioni che graffiano dentro. Maria è una bella e giovane donna, più o meno a metà guado del passaggio tra i trenta e i quaranta. Un bel lavoro, un marito che la ama, pur se più con i silenzi e l'operosità che con le parole. Parole di confronto, sostegno e conforto delle quali lei avrebbe pur tanto bisogno. Specie ora, che il figlio tanto sognato non arriva, e il vuoto si fa asfissiante. E sono visite, controlli medici, terapie, speranze e tremende frustrazioni... Dall'adolescenza in poi, Maria è sempre stata molto attenta alla linea, forse anche troppo. In realtà solo lei ricorda e sente ancora in fondo al cuore quanto da piccola abbia sofferto perchè i compagni di scuola, al paesello, la prendevano sempre in giro: “Cicciona!” . Così ha sviluppato nel corso degli anni quella che è diventata la sua sopraffina qualità: il controllo. Se posso controllare i voti a scuola, posso controllare le amicizie, posso controllare il tempo e come lo passo, ma la “Champions League” di questo sport ha un solo stadio dove svolgersi: il piatto sul tavolo di casa, all'ora di pranzo e a quella di cena. Che il più delle volte, peraltro, salta. Ho seguito Maria per qualche tempo, lasciandoci con un progetto, per lei e suo marito, di tentarlo ancora un'ultima volta, quel figlio. Poi, di loro non ho più saputo nulla. L'ho incrociata casualmente, di sfuggita, qualche anno dopo. Stava uscendo da un supermercato, ma non ho fatto in tempo a parcheggiare l'auto per riuscire a raggiungerla e salutarla. Lei non si è accorta di me. Ciò che io ho visto molto bene, invece, è stato quel bimbo al suo fianco. Ed i contorni del volto di Maria. Finalmente più rotondi e paffutelli. Come sia arivato, quel bimbo, non lo so. Forse sgorgato da una fonte naturale, forse raccolto lungo le sponde di un fiume dell'esistenza, nel punto esatto dove qualcun altro l'aveva abbandonato. Ciò che ho visto bene, è stato lo sguardo, di Maria. In quegli occhi, una luce inconfondibile: quella di una vera, profonda, tanto attesa, meritatissima gioia. Le storie raccolte dalla gente di Lampedusa, specie nelle passeggiate serali lungo la principale via Roma, ora pedonalizzata, sanno di sale, di pelle, di musica, di sudore, di balli in piazza, di amicizia, di squisiti cannoli siciliani, di sangue e solidarietà. Vicende varie e variopinte, come le Citroën Méhari date in uso ai turisti con le loro curiose targhe portanti ancora le sigle di tutte le provincie d'Italia. Ad un crocicchio di donne, tra le quali due evidenti matrone dell'isola, il dialogo cui assisto è questo: “Com'è andata oggi, Abdul?” “Insomma... molta gente, non tanto venduto...” Abdul è il venditore nigeriano che sta sistemando la sua mercanzia sul selciato. Quando ripasso, un quarto d'ora dopo, incrocio una turista con al collo una delle collane di corallo che Abdul teneva sul tappeto. L'espressione sul viso di Abdul é quella di un largo (e scaltro) sorriso, un riflesso d'avorio nel crepuscolo di Lampedusa, mentre ci fissiamo per un istante negli occhi. Al bar di fianco invece lavora come cameriere Karim, di provenienza etiope. Karim è diverso da Abdul, come ciascuno di noi è diverso da chiunque altro. Nella sua postura, nel suo atteggiamento, in tutto il suo modo di fare non si scorge nemmeno l'ombra dell'astuzia commerciale di Abdul. Tutt'altro temperamento, tutt'altra personalità, forse la medesima storia di migrazione. “Come va?”, gli chiedo. “Un po'' bene, un po' male”, la sua risposta masticata. Ma è dal suo sguardo, che trapela la “skyline” di immagini difficilmente traducibili in parole, oltre l'atteggiamento cordiale e formalmente amichevole che tiene con i clienti. Quando non vivi a contatto, non conosci e non dialoghi con le persone, vince sempre il pre-giudizio. Come quello che omologa Abdul e Karim alla stessa categoria, rimuovendo tutto ciò che sta prima, dietro e dentro il loro migrare. Il loro sfidare la morte prima attraverso deserti e bande criminali, poi le onde del mare su barconi decomposti. Pre-giudizio e stereotipi mentali che tradiscono in primo luogo l'intelligenza di chi li emette, prima che l'identità delle persone. Chiedi ai pescatori di Lampedusa cosa ne pensano, della sciagurata politica dei “respingimenti” attuata da quei governanti che poi si stracciano le vesti per avere il crocifisso nelle aule scolastiche. Chiedilo alla comunità dei credenti, chiedilo alle donne. A loro, gente di mare che la solidarietà e la generosità ce l'hanno nel sangue; un po' per necessità, come dicono:“Se non ci aiutiamo tra di noi, chi altro ci aiuta?”. A loro, che come prima regola quando c'è un uomo in mare è soccorrerlo, sempre e comunque, a qualunque costo. Abbi buon vento, piccolo Jamaal da Aleppo! Probabilmente partirai domani, in fuga dalla fame e dalla barbarie di una guerra cieca e fratricida. Che tu possa scorgere presto una terraferma stabile e sicura. Abbi buon vento, Cristian “da Jesolo”! Che tu possa cogliere presto un orizzonte di significato al tuo essere al mondo. Più forte delle tue paure, meno fragile dei valori cui ora vuoi approdare. Costruire strutture infinite da elementi finiti. Ultimo giorno a Lampedusa. Domani si riparte. E' quasi sera, ormai. Esco dopo un ultimo, insaziabile bagno in queste acque turchesi e cristalline. Il sole di settembre scalda ancora, qui nella bianchissima baia dell'isola dei conigli. Mi getto di schiena, stremato, sulla sabbia della battigia. Chiudo gli occhi, e vedo giungere una folla smisurata. Sono un'infinità. Quasi una moltitudine biblica. Hanno fame, tanta. E sete, tanta. Costruire strutture infinite da elementi finiti. Riapro gli occhi, e vedo che si radunano tutti attorno ad uno di loro. Uno come loro. Identico l'aspetto, identico il vestiario. Gli chiedono da mangiare. Ma sono rimasti solo cinque pani, e appena due pesci. |