JACK LAROCCIA
Suo nonno era di Matera, la nonna di Vittorio Veneto.
Negli anni '20 del novecento non era poi così infrequente, che certi amori nascessero negli anfratti di terza classe di un bastimento diretto in America.
Storie di emigranti, storie di sogni, sudori, speranze.
Il Colorado, al confine con il Wyoming. Questo il posto dove Jack, negli angoli delle vene ancora contorni di scorza bellunese, si era rifugiato dopo l'assassinio di suo padre.
Una storia di alcool e ricettazione, mafia d'importazione.
Che questo avesse contribuito al suo licenziamento, nessuno sapeva dimostrarlo con certezza.
Forse si, forse no. Probabilmente i motivi erano altri.
La vita aveva già provveduto a deluderlo abbastanza. Una moglie che l'aveva lasciato nel preciso istante in cui la polizia era entrata in casa.
Un figlio sparito dietro i fumi della “beat generation”.
I pochi amici di una volta, rintanati giù in fondo nella town, a San Francisco. West Coast.
Nessuno mai che si ricordasse di spendere una telefonata, un messaggio. Un semplice whatsapp.
Del resto, uno sportivo ex-atleta, un medico affermato in uno dei più prestigiosi ospedali degli States che cade povero, triste, ombroso e abbandona la professione, diventa in poco tempo indifferente agli appetiti e ai desideri, anche delle femmine.
Eppure Jack da giovane ci sapeva fare, si. Anche con la chitarra.
Fisicamente, non fu in realtà la sua statura, per nulla imponente, a renderlo attrattivo, quanto la proporzione delle sue leve.
Spaccava legna, adesso, Jack Laroccia.
Non come si potrebbe credere, quasi una macchina seriale di colpi assestati senza pensiero consapevole. Lui, ai tronchi, prima ci parlava. Era convinto che quel legno, nei cui cerchi giacciono tutte le stagioni trascorse e conosciute, lo stesse ad ascoltare.
Ascoltare: che raro verbo.
Giù al St. Lukes Hospital, in corsia o in ambulatorio, non aveva mai incrociato molti individui disposti a questo dono. Anzi: era a lui che toccava silenziare fatica e frustrazione, per mettersi in ricezione delle ansie, del dolore, della disperazione dei pazienti e dei loro familiari.
I colleghi?
Tutti con qualcosa di “più importante” nella testa e nelle gambe. O in mezzo, alle gambe.
Ecco perché Jack, ora un uomo dei boschi e delle alture, i tronchi li rispettava.
Un po' come i pazienti un tempo, tutto sommato.
In ciascuno di essi trovava le sottili differenze. Le sfumature nell'ambrato, la diversa morfologia della corteccia. Prima di procedere alla frazione, sezionandoli con cura, li esaminava con attenzione. Uno ad uno a uno. Quasi una diagnosi.
Certamente, un atteggiamento di cura e diligente rispetto.
E poi li caricava sulle spalle, più che poteva, per trascinarli giù alla baita.
Quant'è lo sforzo che un uomo può sopportare in vita?
Quanti chili può reggere, una colonna vertebrale?
Quale il carico, prima che ti si spacchino le membra, non lasciandoti altro scampo che di stramazzare al suolo?
Jack Laroccia queste domande, adesso, aveva smesso di porsele.
Parlava agli alberi, ascoltava la voce del torrente.
Il medesimo corso che unisce la foce alla sorgente, mutando semplicemente il nome: rivolo, ruscello, alveo, fiume.
Scendendo la china, ascoltava il ritmo dei suoi passi. Il peso di ogni falcata, la risposta sorda della torba sotto la suola della scarpa.
E poi la neve, d'inverno.
Dove il silenzio si fa quadro e cornice al tempo stesso.
Quando la legna, concedendosi alla fiamma, si consuma in dono.
Così, a favore di Jack, restituendogli grata tanta cura. Il fuoco a farsi voce, nel crepitio dentro al camino.
I pensieri a farsi strada, lungo le istantanee della vita che è trascorsa.
Alcune in bianco e nero o in un opaco seppia, frammenti di noiosa logora quotidianità.
Altre più vermiglie, dall'apice scarlatto. E quelle lunghe e profonde, color dell'amaranto. I momenti della vampa costante e persistente.
I muscoli di Jack, oggi, sono quelli forgiati dal lavoro.
Muscoli di un uomo aduso all'esercizio del supporto. Della vigilante custodia.
Altri maschi, giù in città, li gonfiano tirando pesi sterili, dentro l'aria condizionata delle palestre in circonvallazione. Ingerendo fagioli chimici.
Muscoli tronfi d'acqua, buoni solo a esibirli in qualche spiaggia della costa.
Ho udito anch'io la voce di Jack.
Nei momenti in cui la disperazione ti si affaccia e presentifica.
Nello sguardo smarrito di chi ha irrimediabilmente perduto l'amore, il legame, il senso di ogni cosa.
L'ho udita uscire dalla schiuma verde del disgusto e dello schifo, dentro bolle di rabbia che s'alzano dal travaso di un tradimento vigliacco e inaspettato.
Nella paralisi facciale di chi vive schiacciato sotto il giogo di un conflitto, dove qualunque cosa puoi pensare, qualsiasi verbo pronunciare, sai che sarà un errore per qualcuno. Una fonte certa di dolore inevitabile.
Dentro l'orizzonte buio di chi va enumerando - consapevole - le ultime cifre delle aurore, svegliandosi al mattino. Contandole alla rovescia, mentre un male inesorabile se lo sta portando via. E lui lo sa.
Forse c'è un Jack Laroccia dentro ciascuno di noi.
E se trovare una persona amica disposta a custodire pezzi della tua storia può esser cosa rara, c'è sempre un bosco, a cui parlare.
Se invece quel qualcuno ti capita davvero un giorno di incontrarlo, allora una buona stella brilla di sicuro, da lassù.
Come in certe notti senza nubi.
Come adesso, quassù nel Colorado.
Dove il cielo è di cristallo, e quella stella pare splendere così vicina e vera, che potresti quasi accarezzarla.
Prima che la luce forte del giorno tutto riavvolga. E quella stella riprenda la scia.
Quasi una sirena che rituffa, libera e gioiosa, nel suo mare.
- guarda i muscoli del capitano -
Negli anni '20 del novecento non era poi così infrequente, che certi amori nascessero negli anfratti di terza classe di un bastimento diretto in America.
Storie di emigranti, storie di sogni, sudori, speranze.
Il Colorado, al confine con il Wyoming. Questo il posto dove Jack, negli angoli delle vene ancora contorni di scorza bellunese, si era rifugiato dopo l'assassinio di suo padre.
Una storia di alcool e ricettazione, mafia d'importazione.
Che questo avesse contribuito al suo licenziamento, nessuno sapeva dimostrarlo con certezza.
Forse si, forse no. Probabilmente i motivi erano altri.
La vita aveva già provveduto a deluderlo abbastanza. Una moglie che l'aveva lasciato nel preciso istante in cui la polizia era entrata in casa.
Un figlio sparito dietro i fumi della “beat generation”.
I pochi amici di una volta, rintanati giù in fondo nella town, a San Francisco. West Coast.
Nessuno mai che si ricordasse di spendere una telefonata, un messaggio. Un semplice whatsapp.
Del resto, uno sportivo ex-atleta, un medico affermato in uno dei più prestigiosi ospedali degli States che cade povero, triste, ombroso e abbandona la professione, diventa in poco tempo indifferente agli appetiti e ai desideri, anche delle femmine.
Eppure Jack da giovane ci sapeva fare, si. Anche con la chitarra.
Fisicamente, non fu in realtà la sua statura, per nulla imponente, a renderlo attrattivo, quanto la proporzione delle sue leve.
Spaccava legna, adesso, Jack Laroccia.
Non come si potrebbe credere, quasi una macchina seriale di colpi assestati senza pensiero consapevole. Lui, ai tronchi, prima ci parlava. Era convinto che quel legno, nei cui cerchi giacciono tutte le stagioni trascorse e conosciute, lo stesse ad ascoltare.
Ascoltare: che raro verbo.
Giù al St. Lukes Hospital, in corsia o in ambulatorio, non aveva mai incrociato molti individui disposti a questo dono. Anzi: era a lui che toccava silenziare fatica e frustrazione, per mettersi in ricezione delle ansie, del dolore, della disperazione dei pazienti e dei loro familiari.
I colleghi?
Tutti con qualcosa di “più importante” nella testa e nelle gambe. O in mezzo, alle gambe.
Ecco perché Jack, ora un uomo dei boschi e delle alture, i tronchi li rispettava.
Un po' come i pazienti un tempo, tutto sommato.
In ciascuno di essi trovava le sottili differenze. Le sfumature nell'ambrato, la diversa morfologia della corteccia. Prima di procedere alla frazione, sezionandoli con cura, li esaminava con attenzione. Uno ad uno a uno. Quasi una diagnosi.
Certamente, un atteggiamento di cura e diligente rispetto.
E poi li caricava sulle spalle, più che poteva, per trascinarli giù alla baita.
Quant'è lo sforzo che un uomo può sopportare in vita?
Quanti chili può reggere, una colonna vertebrale?
Quale il carico, prima che ti si spacchino le membra, non lasciandoti altro scampo che di stramazzare al suolo?
Jack Laroccia queste domande, adesso, aveva smesso di porsele.
Parlava agli alberi, ascoltava la voce del torrente.
Il medesimo corso che unisce la foce alla sorgente, mutando semplicemente il nome: rivolo, ruscello, alveo, fiume.
Scendendo la china, ascoltava il ritmo dei suoi passi. Il peso di ogni falcata, la risposta sorda della torba sotto la suola della scarpa.
E poi la neve, d'inverno.
Dove il silenzio si fa quadro e cornice al tempo stesso.
Quando la legna, concedendosi alla fiamma, si consuma in dono.
Così, a favore di Jack, restituendogli grata tanta cura. Il fuoco a farsi voce, nel crepitio dentro al camino.
I pensieri a farsi strada, lungo le istantanee della vita che è trascorsa.
Alcune in bianco e nero o in un opaco seppia, frammenti di noiosa logora quotidianità.
Altre più vermiglie, dall'apice scarlatto. E quelle lunghe e profonde, color dell'amaranto. I momenti della vampa costante e persistente.
I muscoli di Jack, oggi, sono quelli forgiati dal lavoro.
Muscoli di un uomo aduso all'esercizio del supporto. Della vigilante custodia.
Altri maschi, giù in città, li gonfiano tirando pesi sterili, dentro l'aria condizionata delle palestre in circonvallazione. Ingerendo fagioli chimici.
Muscoli tronfi d'acqua, buoni solo a esibirli in qualche spiaggia della costa.
Ho udito anch'io la voce di Jack.
Nei momenti in cui la disperazione ti si affaccia e presentifica.
Nello sguardo smarrito di chi ha irrimediabilmente perduto l'amore, il legame, il senso di ogni cosa.
L'ho udita uscire dalla schiuma verde del disgusto e dello schifo, dentro bolle di rabbia che s'alzano dal travaso di un tradimento vigliacco e inaspettato.
Nella paralisi facciale di chi vive schiacciato sotto il giogo di un conflitto, dove qualunque cosa puoi pensare, qualsiasi verbo pronunciare, sai che sarà un errore per qualcuno. Una fonte certa di dolore inevitabile.
Dentro l'orizzonte buio di chi va enumerando - consapevole - le ultime cifre delle aurore, svegliandosi al mattino. Contandole alla rovescia, mentre un male inesorabile se lo sta portando via. E lui lo sa.
Forse c'è un Jack Laroccia dentro ciascuno di noi.
E se trovare una persona amica disposta a custodire pezzi della tua storia può esser cosa rara, c'è sempre un bosco, a cui parlare.
Se invece quel qualcuno ti capita davvero un giorno di incontrarlo, allora una buona stella brilla di sicuro, da lassù.
Come in certe notti senza nubi.
Come adesso, quassù nel Colorado.
Dove il cielo è di cristallo, e quella stella pare splendere così vicina e vera, che potresti quasi accarezzarla.
Prima che la luce forte del giorno tutto riavvolga. E quella stella riprenda la scia.
Quasi una sirena che rituffa, libera e gioiosa, nel suo mare.
- guarda i muscoli del capitano -
|
|