TODO PASA
Miguel, chiamiamolo Miguel.
Causa una serie di misteriosi omicidi verificatisi nella piana, tutti gli eventi pubblici erano stati sospesi.
Sine die.
Qualsiasi forma di aggregazione soppressa.
A data (imprevedibile) da destinarsi.
Troppo pericoloso esporsi agli agguati del finora invisibile killer, che prediligeva colpire nell'ombra. Perlopiù in corrispondenza di eventi ricreativi, musicali o di intrattenimento.
Miguel. Non poter più suonare, esibirsi. Da ciò, per lui, la genesi della depressione. La caduta dell'autostima. L'insicurezza. Condita da qualche attacco di panico, a prevalenza nei week end.
Eppur con la chitarra ci sapeva fare. Sul serio.
Non v'era “muchacha” che non s'illanguidisse, alle lamentose note di “Cielito Lindo” o ancor più di “Besame Mucho”, ogniqualvolta l'attaccava. Besame Mucho. Un brano scritto nel 1940 dalla conterranea Consuelo Velázquez, prima di compiere ventiquattro anni. Secondo la stessa autrice, composto senza ancora che lei conoscesse l'amore. Rapidamente divenne una delle canzoni più popolari del XX secolo.
L'intero Messico in stato di emergenza. Tutte le attività lavorative chiuse. Negozi sbarrati. Locali deserti. Guadalajara, Monterrey, La Paz, fino alla capitale con i suoi sei milioni di abitanti e duemilatrecentro metri di altezza sul livello del mare: ridotte a città fantasma. Tutti barricati nelle abitazioni.
Di fondo era un timido, Miguel. Tuttavia le conferme - di cui tutti abbiamo gran bisogno - gli avevano portato di ritorno, dal palcoscenico, un potente rinforzo del carattere.
D'altronde, se noi esistiamo, è solo attraverso lo sguardo altrui. Ce l'ha ricordato Jean Paul Sartre, per primo. E Lacan, lo psicanalista “eretico” francese, questo concetto l’aveva poi potentemente ripescato. Il desiderio è sempre solo uno: quello del desiderio dell'altro. Di esserne oggetto.
Non è vero che desideriamo le cose. Desideriamo che qualcuno ci guardi, ci pensi.
Ci presti attenzione.
Eventualmente, per mezzo delle cose.
Essere importanti per qualcuno: questo, il vero scopo. Il valore, il significato. L’obiettivo.
E l'esserci. L'esserci. Poter contare su qualcuno. Di accessibile, responsivo, stabilmente ingaggiato. Si, vabbè, dette in questi termini, non trovi metrica, non scovi paroliere che te le metta su di un pentagramma, queste parole…
La paura dell’invisibile assassino (probabilmente più d’uno, chi poteva dirlo?) si era diffusa come una pandemia in tutto il territorio messicano.
Uccisi per soffocamento. Ogni cadavere mostrava - inequivocabili - i segni di morte per asfissia.
Terribili a vedersi, quei globi oculari propulsi fuori dalle orbite. Lo sforzo sovrumano a guadagnare l’ultima briciola d’ossigeno. Del tutto inutile, evidentemente.
Ma l'aspetto ancor più drammatico era l'amnesia indotta nei presenti, negli astanti alla scena del crimine. Pare che il delinquente disponesse di chissà quali poteri o sostanza stupefacente, per cancellare ogni immagine o ricordo nei circuiti della memoria.
Pur agendo in luogo pubblico, nessuno tratteneva traccia del volto dell’assassino, o altro minimo dettaglio dell'evento.
Conservavano memoria del dopo, ma non del prima.
Nessuna testimonianza utile alle indagini poteva quindi venire raccolta.
Ricordavano il dopo, ma non il prima. Neppure a lungo termine.
Vuoi conoscere l'aspetto più truce, angosciante, sconvolgente in conseguenza, di tutta la questione?
Nessuno partecipava ai funerali. Riti deserti, di una desolazione sconfinata. Il prete, e il defunto.
No one else.
Perché non c’era “amico” che riconoscesse più la persona. Mica per altro. Che era stata magari il compagno o la compagna di una vita.
O il folle amore di una passione travolgente. Quella che strappa i capelli.
O l'indicibile esperienza di una sincronia di pensieri, affetti e sensazioni, sopra ogni immaginazione.
Vabbè, mi dirai: pensa che novità. Non è quello che accade, sempre, quando un amore finisce?
Perché, gli amori finiscono?
Lo so, il solo parlarne puzza di morte.
Eppure, è così. Lo sai, lo sappiamo.
Continuava a sostenerlo anche il cinico Felipe, l’amico filosofo - un autentico misogino, in verità - con il quale in quei giorni occlusi da noia e tristo isolamento Miguel si trovava a conversare.
Via telefono, ovviamente.
Con quel suo disquisire su Seneca: “Nihil est tam mobile quam feminarum voluntas” (Niente è tanto mobile come i voleri delle donne); oppure Gaio Valerio Catullo: “Mulier cupido quod dicit amanti in vento et rapida scribere oportet acqua” (Ciò che una donna dice all’amante pieno di desiderio bisognerebbe scriverlo nel vento e nell’acqua).
No, Miguel a ciò, in fondo, non credeva.
Non poteva crederci.
Ancora troppo viva, l'impronta dei neri occhi di Carmensita, giù in fondo, in fondo al cuore.
Quello sguardo. Il suo, sguardo.
Nessuno dei presenti agli omicidi ricordava alcunché della scena dell’assassinio, l’abbiamo detto.
“Amnesia dissociativa accentuata da isolamento socio/relazionale”, l’etichetta diagnostica prevalente. Non tutti gli psichiatri erano però concordi, a spiegare la sindrome, il fenomeno.
Qualcuno invocava gli antichi meccanismi di difesa freudiani della rimozione. Una sorta di “interruttore salvavita” che protegge la mente dal corto circuito causato dal trauma.
Come in amore, del resto. Davvero impossibile “tenere assieme” nella memoria i sentimenti di delusione e frustrazione con quelli che avevano alimentato le inebrianti fasi iniziali dell'innamoramento. Conservare nel medesimo contenitore mnestico le frasi deliranti, le esperienze inebrianti della fase “farfalle nello stomaco” con la bruciante irritazione, la frustrazione e il desiderio di allontanamento e fuga tipico delle separazioni.
Altri medici e psicologi, di formazione più legata all’Interpersonal Neurobiology, invocavano il ruolo dell'ossitocina. Siamo fatti di chimica, inutile negarlo. Lo conosci, quell'esperimento di Bartz e Hollander sulla fiducia? Si tratta di un gioco di ruolo che vede in campo: 1) degli investitori e 2) dei “brokers” truffaldini. Bene: se tramite uno spray nasale fai inspirare ossitocina agli 1) investitori, questi anche se a un certo punto vengono informati che i 2) brokers li stanno raggirando, dichiareranno di avere comunque fiducia in loro, sebbene la loro mente razionale abbia perfettamente registrato il fatto che li stanno imbrogliando. L'ossitocina, ormone dell'attaccamento. Scorre a fiumi, in una donna durante il parto. Nondimeno, nei rapporti sessuali vissuti in un contesto di sintonia emotiva/relazionale. Più semplicemente, anche solo nelle coccole.
A questo punto, sveliamo il fatto che il personaggio di Miguel, il protagonista di questa storia, sta solo nella fantasia.
Miguel però sei tu, Miguel sono io.
Miguel può esserlo ciascuno di noi.
Juan Vallejo Corona, invece, meglio noto come il Killer del Machete, è realmente vissuto. Nato a Autlán de Navarro il 7 febbraio 1934 e deceduto in carcere il 4 marzo dell'anno scorso. Autore di venticinque omicidi, condannato successivamente a venticinque ergastoli.
Come fu possibile catturarlo e neutralizzarlo, nel racconto di Miguel? In questa storia inventata, però basata su fatti e fenomeni reali?
Beh, il merito principale va ascritto a Fernando Ángeles Gonzales, un anziano maresciallo di polizia giudiziaria, appassionato di filosofia orientale e già campione di arti marziali.
La serrata imposta dal governo a tutto il paese, il blocco di ogni attività commerciale e ricreativa, lo svuotamento delle piazze con l’intera popolazione messicana reclusa nelle proprie case aveva prodotto l’effetto reattivo di spingere il criminale ad esporsi, a uscire dall’ombra dentro cui si celava. Moderni sistemi di videosorveglianza sarebbero poi stati d’ausilio all’opera di individuazione, di “salvataggio di immagini”, se non della memoria cognitiva.
Anche un criminologo di bassa lega ti sa spiegare i motivi per cui un serial killer ti sfida, e come tende ad ingaggiarti nel suo duello criminale. Fernando Gonzales di più: avendo studiato i trentasei stratagemmi dell’antica arte cinese della guerra, ben conosceva l’efficacia dell’aforisma: “Fai salire il nemico in soffitta, e togli la scala”.
La storia dice che dopo l’arresto dello psicopatico Corona, avvenuto il 26 maggio 1971, scoppiarono clamorosi festeggiamenti in tutto il paese. Dovevi vederli. Guadalajara che pareva carnevale. I colori e la gente che ballava lungo le avenidas - impazzita di gioia - a città del Messico. Le persone che finalmente tornavano a stringersi, abbracciarsi, guardarsi dritte negli occhi, naso a naso, senza più timore l’uno dell’altro. I falò notturni lungo le spiagge dello Yucatan.
Che poi, questa vicenda di Juan, il killer Corona, aveva fornito a ciascuno l’opportunità di un “ripasso” educativo mica male, a dire il vero.
Ad esempio la consapevolezza che il lavoro è importante, ma la sopravvivenza - e la salute - di più.
Che ospedali, scuole e polizia richiedono risorse da parte dello stato.
Che se alcuni cittadini non evadono le tasse, tutti ne paghiamo di meno.
E le strutture di assistenza, educative e di sicurezza meglio funzionano, di conseguenza.
Ma il recupero dei ricordi nella mente, specie quelli a lungo termine che significano in una sola parola: “identità”? Come sarebbe stato possibile attuarlo nelle persone, negli esseri umani così traumatizzati dall’”effetto Corona”?
Quale farmaco, quale terapia poteva mai aver successo in un’impresa così ardua, dato che tutto, anche la più minima traccia neuronale sembrava cancellata, distrutta, resettata?
Identità personale, relazionale.
Addirittura civile: un intero popolo per troppo tempo paralizzato dalla paura, rinchiuso entro angusti schemi di sospetto e paranoia. Oltre alla cancellazione delle personalità, rimanevano evidenti, in più di qualcuno, permanenti sintomi di fobia sociale, di evitamento dei contatti.
Miguel s'era messo in testa una missione. Di promozione umana, sosteneva. Da svolgere nella popolazione, a partire dal pubblico nei suoi concerti.
L'aveva battezzata così: operazione “Risveglio delle Buone Memorie”.
Come funziona?
Semplice.
Aveva già potuto constatare il sorprendente effetto, in questo senso, di un particolare brano musicale. Una canzone. Effetto terapeutico: dimostrato. Si trattava di un’evidenza addirittura clinica!
Sua la musica; il testo l’aveva invece pescato dal grande Pablo Neruda, il sublime poeta cileno. Premio Nobel per la letteratura – ironia della sorte – proprio nell’anno dell’arresto di Juan, il Corona. Insignito nell’anno in cui l’assassino “invisibile”, il killer dei corpi e degli affetti, era stato fisicamente reso innocuo.
Di questo brano, agli scienziati il compito di decifrarne il meccanismo d'azione nelle strutture cerebrali deputate: ippocampo e zona mediale del lobo temporale, perlopiù.
A Miguel, però, questi particolari non interessavano.
A Miguel basta cantarla, ogni sera al termine dei suoi concerti, questa canzone.
”Quítame el pan si quieres
quítame el aire, pero
no me quites tu risa.
No me quites la rosa,
la lanza que desgranas,
el agua que de pronto
estalla en tu alegría,
la repentina ola
de planta que te nace.
Niégame el pan, el aire,
la luz, la primavera,
pero tu risa nunca
porque me moriría”
”Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l'aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l'acqua che d'improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d'argento che ti nasce.
Negami il pane, l'aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei”
P.S. I bambini di allora, oggi divenuti adulti, ricordano ancora con piacere quanto era stato divertente disegnare e poi affiggere ai balconi di casa quei bellissimi cartelloni a colori con la scritta: “Todo va a estar bien!”.
- el dindondero -
Causa una serie di misteriosi omicidi verificatisi nella piana, tutti gli eventi pubblici erano stati sospesi.
Sine die.
Qualsiasi forma di aggregazione soppressa.
A data (imprevedibile) da destinarsi.
Troppo pericoloso esporsi agli agguati del finora invisibile killer, che prediligeva colpire nell'ombra. Perlopiù in corrispondenza di eventi ricreativi, musicali o di intrattenimento.
Miguel. Non poter più suonare, esibirsi. Da ciò, per lui, la genesi della depressione. La caduta dell'autostima. L'insicurezza. Condita da qualche attacco di panico, a prevalenza nei week end.
Eppur con la chitarra ci sapeva fare. Sul serio.
Non v'era “muchacha” che non s'illanguidisse, alle lamentose note di “Cielito Lindo” o ancor più di “Besame Mucho”, ogniqualvolta l'attaccava. Besame Mucho. Un brano scritto nel 1940 dalla conterranea Consuelo Velázquez, prima di compiere ventiquattro anni. Secondo la stessa autrice, composto senza ancora che lei conoscesse l'amore. Rapidamente divenne una delle canzoni più popolari del XX secolo.
L'intero Messico in stato di emergenza. Tutte le attività lavorative chiuse. Negozi sbarrati. Locali deserti. Guadalajara, Monterrey, La Paz, fino alla capitale con i suoi sei milioni di abitanti e duemilatrecentro metri di altezza sul livello del mare: ridotte a città fantasma. Tutti barricati nelle abitazioni.
Di fondo era un timido, Miguel. Tuttavia le conferme - di cui tutti abbiamo gran bisogno - gli avevano portato di ritorno, dal palcoscenico, un potente rinforzo del carattere.
D'altronde, se noi esistiamo, è solo attraverso lo sguardo altrui. Ce l'ha ricordato Jean Paul Sartre, per primo. E Lacan, lo psicanalista “eretico” francese, questo concetto l’aveva poi potentemente ripescato. Il desiderio è sempre solo uno: quello del desiderio dell'altro. Di esserne oggetto.
Non è vero che desideriamo le cose. Desideriamo che qualcuno ci guardi, ci pensi.
Ci presti attenzione.
Eventualmente, per mezzo delle cose.
Essere importanti per qualcuno: questo, il vero scopo. Il valore, il significato. L’obiettivo.
E l'esserci. L'esserci. Poter contare su qualcuno. Di accessibile, responsivo, stabilmente ingaggiato. Si, vabbè, dette in questi termini, non trovi metrica, non scovi paroliere che te le metta su di un pentagramma, queste parole…
La paura dell’invisibile assassino (probabilmente più d’uno, chi poteva dirlo?) si era diffusa come una pandemia in tutto il territorio messicano.
Uccisi per soffocamento. Ogni cadavere mostrava - inequivocabili - i segni di morte per asfissia.
Terribili a vedersi, quei globi oculari propulsi fuori dalle orbite. Lo sforzo sovrumano a guadagnare l’ultima briciola d’ossigeno. Del tutto inutile, evidentemente.
Ma l'aspetto ancor più drammatico era l'amnesia indotta nei presenti, negli astanti alla scena del crimine. Pare che il delinquente disponesse di chissà quali poteri o sostanza stupefacente, per cancellare ogni immagine o ricordo nei circuiti della memoria.
Pur agendo in luogo pubblico, nessuno tratteneva traccia del volto dell’assassino, o altro minimo dettaglio dell'evento.
Conservavano memoria del dopo, ma non del prima.
Nessuna testimonianza utile alle indagini poteva quindi venire raccolta.
Ricordavano il dopo, ma non il prima. Neppure a lungo termine.
Vuoi conoscere l'aspetto più truce, angosciante, sconvolgente in conseguenza, di tutta la questione?
Nessuno partecipava ai funerali. Riti deserti, di una desolazione sconfinata. Il prete, e il defunto.
No one else.
Perché non c’era “amico” che riconoscesse più la persona. Mica per altro. Che era stata magari il compagno o la compagna di una vita.
O il folle amore di una passione travolgente. Quella che strappa i capelli.
O l'indicibile esperienza di una sincronia di pensieri, affetti e sensazioni, sopra ogni immaginazione.
Vabbè, mi dirai: pensa che novità. Non è quello che accade, sempre, quando un amore finisce?
Perché, gli amori finiscono?
Lo so, il solo parlarne puzza di morte.
Eppure, è così. Lo sai, lo sappiamo.
Continuava a sostenerlo anche il cinico Felipe, l’amico filosofo - un autentico misogino, in verità - con il quale in quei giorni occlusi da noia e tristo isolamento Miguel si trovava a conversare.
Via telefono, ovviamente.
Con quel suo disquisire su Seneca: “Nihil est tam mobile quam feminarum voluntas” (Niente è tanto mobile come i voleri delle donne); oppure Gaio Valerio Catullo: “Mulier cupido quod dicit amanti in vento et rapida scribere oportet acqua” (Ciò che una donna dice all’amante pieno di desiderio bisognerebbe scriverlo nel vento e nell’acqua).
No, Miguel a ciò, in fondo, non credeva.
Non poteva crederci.
Ancora troppo viva, l'impronta dei neri occhi di Carmensita, giù in fondo, in fondo al cuore.
Quello sguardo. Il suo, sguardo.
Nessuno dei presenti agli omicidi ricordava alcunché della scena dell’assassinio, l’abbiamo detto.
“Amnesia dissociativa accentuata da isolamento socio/relazionale”, l’etichetta diagnostica prevalente. Non tutti gli psichiatri erano però concordi, a spiegare la sindrome, il fenomeno.
Qualcuno invocava gli antichi meccanismi di difesa freudiani della rimozione. Una sorta di “interruttore salvavita” che protegge la mente dal corto circuito causato dal trauma.
Come in amore, del resto. Davvero impossibile “tenere assieme” nella memoria i sentimenti di delusione e frustrazione con quelli che avevano alimentato le inebrianti fasi iniziali dell'innamoramento. Conservare nel medesimo contenitore mnestico le frasi deliranti, le esperienze inebrianti della fase “farfalle nello stomaco” con la bruciante irritazione, la frustrazione e il desiderio di allontanamento e fuga tipico delle separazioni.
Altri medici e psicologi, di formazione più legata all’Interpersonal Neurobiology, invocavano il ruolo dell'ossitocina. Siamo fatti di chimica, inutile negarlo. Lo conosci, quell'esperimento di Bartz e Hollander sulla fiducia? Si tratta di un gioco di ruolo che vede in campo: 1) degli investitori e 2) dei “brokers” truffaldini. Bene: se tramite uno spray nasale fai inspirare ossitocina agli 1) investitori, questi anche se a un certo punto vengono informati che i 2) brokers li stanno raggirando, dichiareranno di avere comunque fiducia in loro, sebbene la loro mente razionale abbia perfettamente registrato il fatto che li stanno imbrogliando. L'ossitocina, ormone dell'attaccamento. Scorre a fiumi, in una donna durante il parto. Nondimeno, nei rapporti sessuali vissuti in un contesto di sintonia emotiva/relazionale. Più semplicemente, anche solo nelle coccole.
A questo punto, sveliamo il fatto che il personaggio di Miguel, il protagonista di questa storia, sta solo nella fantasia.
Miguel però sei tu, Miguel sono io.
Miguel può esserlo ciascuno di noi.
Juan Vallejo Corona, invece, meglio noto come il Killer del Machete, è realmente vissuto. Nato a Autlán de Navarro il 7 febbraio 1934 e deceduto in carcere il 4 marzo dell'anno scorso. Autore di venticinque omicidi, condannato successivamente a venticinque ergastoli.
Come fu possibile catturarlo e neutralizzarlo, nel racconto di Miguel? In questa storia inventata, però basata su fatti e fenomeni reali?
Beh, il merito principale va ascritto a Fernando Ángeles Gonzales, un anziano maresciallo di polizia giudiziaria, appassionato di filosofia orientale e già campione di arti marziali.
La serrata imposta dal governo a tutto il paese, il blocco di ogni attività commerciale e ricreativa, lo svuotamento delle piazze con l’intera popolazione messicana reclusa nelle proprie case aveva prodotto l’effetto reattivo di spingere il criminale ad esporsi, a uscire dall’ombra dentro cui si celava. Moderni sistemi di videosorveglianza sarebbero poi stati d’ausilio all’opera di individuazione, di “salvataggio di immagini”, se non della memoria cognitiva.
Anche un criminologo di bassa lega ti sa spiegare i motivi per cui un serial killer ti sfida, e come tende ad ingaggiarti nel suo duello criminale. Fernando Gonzales di più: avendo studiato i trentasei stratagemmi dell’antica arte cinese della guerra, ben conosceva l’efficacia dell’aforisma: “Fai salire il nemico in soffitta, e togli la scala”.
La storia dice che dopo l’arresto dello psicopatico Corona, avvenuto il 26 maggio 1971, scoppiarono clamorosi festeggiamenti in tutto il paese. Dovevi vederli. Guadalajara che pareva carnevale. I colori e la gente che ballava lungo le avenidas - impazzita di gioia - a città del Messico. Le persone che finalmente tornavano a stringersi, abbracciarsi, guardarsi dritte negli occhi, naso a naso, senza più timore l’uno dell’altro. I falò notturni lungo le spiagge dello Yucatan.
Che poi, questa vicenda di Juan, il killer Corona, aveva fornito a ciascuno l’opportunità di un “ripasso” educativo mica male, a dire il vero.
Ad esempio la consapevolezza che il lavoro è importante, ma la sopravvivenza - e la salute - di più.
Che ospedali, scuole e polizia richiedono risorse da parte dello stato.
Che se alcuni cittadini non evadono le tasse, tutti ne paghiamo di meno.
E le strutture di assistenza, educative e di sicurezza meglio funzionano, di conseguenza.
Ma il recupero dei ricordi nella mente, specie quelli a lungo termine che significano in una sola parola: “identità”? Come sarebbe stato possibile attuarlo nelle persone, negli esseri umani così traumatizzati dall’”effetto Corona”?
Quale farmaco, quale terapia poteva mai aver successo in un’impresa così ardua, dato che tutto, anche la più minima traccia neuronale sembrava cancellata, distrutta, resettata?
Identità personale, relazionale.
Addirittura civile: un intero popolo per troppo tempo paralizzato dalla paura, rinchiuso entro angusti schemi di sospetto e paranoia. Oltre alla cancellazione delle personalità, rimanevano evidenti, in più di qualcuno, permanenti sintomi di fobia sociale, di evitamento dei contatti.
Miguel s'era messo in testa una missione. Di promozione umana, sosteneva. Da svolgere nella popolazione, a partire dal pubblico nei suoi concerti.
L'aveva battezzata così: operazione “Risveglio delle Buone Memorie”.
Come funziona?
Semplice.
Aveva già potuto constatare il sorprendente effetto, in questo senso, di un particolare brano musicale. Una canzone. Effetto terapeutico: dimostrato. Si trattava di un’evidenza addirittura clinica!
Sua la musica; il testo l’aveva invece pescato dal grande Pablo Neruda, il sublime poeta cileno. Premio Nobel per la letteratura – ironia della sorte – proprio nell’anno dell’arresto di Juan, il Corona. Insignito nell’anno in cui l’assassino “invisibile”, il killer dei corpi e degli affetti, era stato fisicamente reso innocuo.
Di questo brano, agli scienziati il compito di decifrarne il meccanismo d'azione nelle strutture cerebrali deputate: ippocampo e zona mediale del lobo temporale, perlopiù.
A Miguel, però, questi particolari non interessavano.
A Miguel basta cantarla, ogni sera al termine dei suoi concerti, questa canzone.
”Quítame el pan si quieres
quítame el aire, pero
no me quites tu risa.
No me quites la rosa,
la lanza que desgranas,
el agua que de pronto
estalla en tu alegría,
la repentina ola
de planta que te nace.
Niégame el pan, el aire,
la luz, la primavera,
pero tu risa nunca
porque me moriría”
”Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l'aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l'acqua che d'improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d'argento che ti nasce.
Negami il pane, l'aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei”
P.S. I bambini di allora, oggi divenuti adulti, ricordano ancora con piacere quanto era stato divertente disegnare e poi affiggere ai balconi di casa quei bellissimi cartelloni a colori con la scritta: “Todo va a estar bien!”.
- el dindondero -