Neanche in qualche più classica ostaria, al fresco chiaroscuro di alcun romantico campiello.
Della città più suggestiva al mondo, è vero, la frase richiama l'assonanza a una più che consueta espressione conviviale.
Suscitar sorrisi è del resto gioco facile, avventurandosi in qualche umoristica traduzione English - Venexian del tipo:
"It's not finger" (No xe dito)
"Your Mother Cow" (To mare vaca)
“I live in Longbridge” (Stago a Pontelongo)
“I'm getting bored” ( - censurato - )
Il discorso che propongo è tuttavia ben men faceto: verte su uno dei più classici archetipi proposti da Carl Gustav Jung, lo psichiatra di Zurigo allievo dapprima prediletto e successivamente avverso a Sigmund Freud.
Archetipo: “rappresentazione mentale primaria, contenuta nell’inconscio collettivo che si manifesta in simboli universali presenti in tutte le culture ed in ogni epoca storica”.
In sostanza, qualcosa di inesorabile, che esiste prima, durante e dopo la nostra venuta al mondo come individui, dotato di un significato valido in ogni parte del globo.
Esempi?
La Madre, il Vecchio, il Bambino... la Juve (come delirio di onnipotenza per i tifosi bianconeri, ossessione persecutoria per quelli interisti).
Uno degli archetipi più forti è appunto quello dell'Ombra.
Usciamo ordunque dal bacareto e, saldato il conto all'oste per il buon “goto” de vin (dai contemporanei riconvertito in “spriss”) affacciamoci allo scoperto per ampliare lo sguardo verso gli orizzonti che l'analisi junghiana dischiude.
Così Carl Jung in “Psicologia e Religione” (1938-1940): “Ognuno è seguito da un’Ombra, tanto più nera e densa quanto meno è incorporata nella vita cosciente dell’individuo.”
Incrociamo subito l'arcinoto Robert Louis Stevenson, che nel suo libro più famoso “Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde” descrive in modo magistrale un caso di scissione dell’Ombra, ovvero un rifiuto di questa, che continuerà a vivere una vita autonoma senza alcuna altra relazione con il resto della personalità.
L’Ombra riguarda quegli aspetti relativi a colpe, vergogne, autosvalutazione, infantilismi, che generalmente si tende a proiettare su altre persone.
Se Sigmund Freud riteneva che la nevrosi scaturisse dalla repressione della libido, cioè di quella fenomenale energia che la sessualità e l'aggressività umana contengono, Jung pensa invece che il disagio psichico - fino alla vera e propria malattia mentale - abbia altrettanta origine nella rimozione della dimensione religiosa.
Ho letto molti commenti, in questi giorni, sul caso del prete padovano resosi responsabile di spregevoli nefandezze di abuso a sfondo erotico. Diverse analisi seguono il crinale sociologico, altre educativo-pedagogico, altre ancora morale-esortativo.
Non molte di queste riflessioni mi paiono invece considerare l'inevitabile compresenza, nella psiche umana, della dimensione Luce e di quella Ombra.
Del buon grano e della zizzania, per esprimersi in termini evangelici.
Credo che agli autori di questi articoli - come a me che in questo momento sto scrivendo - farebbe bene gettare anche uno sguardo interiore di autoconsapevolezza.
Rispondere in verità alla domanda se nelle pieghe delle proprie fantasie, dei sogni notturni, delle rappresentazioni mentali - proprio mentre si vanno a descrivere le gesta del turpe prete - non si possa riconoscere lo stesso demone.
Ciò non significa che tutti ci troviamo sempre rischiosamente sul ciglio di una “messa in atto” di queste fantasie.
Significa piuttosto che noi non potremmo parlarne, descriverle, commentarle se non abitassero già profondamente nella nostra mente sotto forma di immagini, pensieri, rappresentazioni.
Quando poi qualcuno disgraziatamente - come il prete padovano - arriva ad agirle a livello di comportamento, cade automaticamente in quel circuito di rinforzo che le neuroscienze ci hanno insegnato a chiamare “dopaminergico”.
Un'attivazione a quel punto anche biochimica, che sta alla base di ogni dipendenza.
E qui “vanno a nozze” (lo so, espressione volutamente impropria”...) nel distorcere, cancellare, generalizzare eventi e comportamenti, tutti quei meccanismi di difesa noti come scissione, razionalizzazione, ipercompensazione, rimozione et cetera.
E' sotto gli occhi di tutti con quanta facilità ci si possa trasformare, nella posizione di chi giudica, in “leoni da smartphone” scagliandosi contro le colpe altrui. Si chiama “proiezione”.
Quando questo meccanismo è eccessivo, l’individuo rischia di identificarsi troppo con la sua parte “luce” e cioè con la persona che rappresenta. In altre parole, la maschera con la quale l’individuo gioca il suo ruolo nel mondo e con gli altri.
Rimuovendo nel contempo la trave che sta nel proprio occhio, a discapito della pagliuzza altrui.
Si conosce poi un altro meccanismo dell’Io, chiamato "identificazione con l’ombra".
Si tratta della scelta di identificarsi con la parte più negativa di sé, di dare continuamente una cattiva impressione personale, creando sempre degli ostacoli là dove esistono solo nella mente del soggetto.
Esempi ne incontriamo quotidianamente: a scuola nel ragazzo deprivato affettivamente che diventa autolesionista o sabotatore; sul posto di lavoro nel relazionarci con colleghi costantemente acidi e ipercritici perché frustrati professionalmente e/o economicamente; nel palcoscenico dei social media con i compulsivi dello "sputtaniamoli tutti", illusorio succedaneo a una radicale insoddisfazione esistenziale.
E' con questi scompartimenti della psiche che ritengo valga la pena confrontarsi.
Come educatori, giornalisti, terapeuti. O come semplici commentatori.
Il lavoro clinico dello psicanalista, lo scavare nelle paure, nelle fobie, nelle dimensioni segrete e nei desideri delle persone, conferma quotidianamente l'efficacia del passaggio evangelico nel quale il Nazareno esorta il pubblico dei moralisti presenti alla lapidazione della donna sorpresa in adulterio (agito con un uomo, a quanto si può supporre) apostrofandoli così: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”.
Una provocazione non dissimile dalla constatazione di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, in “Memorie del sottosuolo”:
“Ogni uomo ha dei ricordi che racconterebbe solo agli amici.
Ha anche cose nella mente che non rivelerebbe neanche agli amici, ma solo a se stesso, e in segreto.
Ma ci sono altre cose che un uomo ha paura di rivelare persino a se stesso, e ogni uomo perbene ha un certo numero di cose del genere accantonate nella mente.”
Morale della favola, utile a mio avviso in primis agli educatori:
“Non si diventa illuminati perché ci si immagina qualcosa di chiaro,
ma perché si rende cosciente l’oscuro”.
Queste le “ipsissima verba” di Carl Gustav Jung, lungo una scia di pensiero terapeutico che lo stesso Luigi Maria Rulla sj, psichiatra e teologo capostipite di schiere di formatori, ha definito “Integrazione”.
- a wither shade of pale -