Così Josh Brolin, attore statunitense la cui travagliata biografia familiare e affettiva ne testimonia la veridicità.
Ed è davvero così.
Al di là della distruttività disperata e senza scampo nella trama, ciò che emerge in questa pellicola è la è la descrizione di ciò che le ferite di attaccamento possono produrre nell'esistenza di un individuo.
Quando addirittura di veri abusi infantili si tratta, l'esito del disagio psichico è pressoché scontato.
Lo sfogo in una violenza cieca come tentativo “riparatore” può riguardare un'intera parte della società, qualora le frustrazioni di una moltitudine trovino un catalizzatore che ne attivi i processi di identificazione. Così la maschera da clown, così per certi versi i gilet gialli, così ogni forma di rivoluzione che a partire da reali ragioni di ingiustizia si trasformi - senza capacità di autoregolazione - in tirannide cieca e foriera di morte.
Il paradosso, anche qui come nella vita reale, sta nel rovesciamento di prospettiva che la conoscenza della reale storia di vita delle persone può fornire.
La vittima diviene colpevole; Il colpevole vittima, senza soluzione di continuità.
L'assassino di oggi è stato il bimbo abusato di ieri.
L'anafettivo contemporaneo, il figlio cui nessuno ha badato per ciò che era in se stesso, piuttosto che come prolungamento o parentesi dell'ego genitoriale.
Di drammatica verità, tornando alla psicopatologia individuale, una delle constatazioni che il protagonista scrive nel proprio diario:
“La cosa divertente delle malattie mentali è che la gente pretende che ti comporti come se non ce l’avessi”.
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