I soldi di carta, che a metà degli anni '70 ci servivano tra l'altro per comprare la merenda.
Il mitico “pan con l'uva” che il fornaio distribuiva giù in cortile, all'ora dell'intervallo.
Era un assalto. Una lotta all'ultimo gomito.
Per questo l'impresa veniva commissionata, a turno.
All'inizio pensavo fosse proprio il motivo per cui sentivo parlare di “lotta di classe”.
Occhio per occhio. Canino per canino.
Uno per tutti, tutti per uno.
Quel giorno toccava a me. Apposta mi ero piazzato più vicino possibile alla porta, pronto a scattare come Pietro Mennea allo sparo della finale dei 200 piani.
La Bixio, la prof. di lettere, non aveva però ancora terminato la sua orazione sul Petrarca.
“Soffrite con gioia”, amava ripetere il cinico Zago, il prof. di ginnastica, sotto quel suo baffetto stronzo. Giubbetto attillato, anch'esso alla Freddie Mercury.
Niente a che vedere con Boschini, l'insegnante dell'anno precedente, che alla succursale negli impianti sportivi dell'Antonianum ospitava nelle sue (e nostre) ore l'amico Riccardo Patrese, il patavino campione nella Formula Uno.
Che goduria, vederlo arrivare su quella fighissima 131 Abarth color aragosta!
Sul campo di pallone non si rivelava tuttavia un asso quanto lungo l'asfalto dei circuiti mondiali. Ricordo un libidinosissimo “tunnel” che gli somministrai, e una ciclopica successiva testata in un colpo di testa mal calcolato, cinque minuti dopo.
Forse pensava di stare a Montecarlo, con il casco ancora in testa.
Si, ho sofferto, ma con scarsissima gioia.
Non tanto in quella occasione: un certo godimento nel vedere il campione delle quattroruote stramazzare nella polvere, come un ciclista domenicale, confesso di averlo provato.
Fu l'altra, di volta.
Quando la professoressa Bixio, al suono della campanella e il mio piede destro già di molto proposto fuor dall'uscio, mi gela e paralizza, apostrofandomi stizzita: “Ma insomma, Contin! Io non ho ancora finito con Petrarca! Dov'é il rispetto?”
Credo di aver attraversato in volto tutti i colori dello spettro elettromagnetico.
Dal lilla violetto fino al vermiglio.
Mi sarei nascosto saltando dritto in braccio alla materna Lorena Bison, sparendovi due banchi più in fondo.
Vabbè, quante storie, per un pan con l'uva!
Pur sempre di bisogni primari si trattava, no?
E dire che erano gli anni delle lotte anarchiche, dei picchetti fuori dal portone del liceo la mattina degli scioperi. Ricordi di mandibole rotte, di sirene delle jeep con su i “celerini” chiamati a ripristinare l'ordine.
Neri patavini contro rossi internazionali. Autonomia Operaia. Il congresso di Bologna nel 1977 alle grida di slogan tutt'altro che epidermici: “Zangherì, Zangherà (Zangheri l'allora sindaco della città felsinea) il congresso si farà!”.
Oppure: “Lotta dura, per la verdura!”
Una volta al mese in Italiano, però, con la Bixio si discuteva in classe la lettura di un libro.
Ricordo benissimo “L'arte di amare” di Erich Fromm. Mi era piaciuto, davvero. Proprio tanto.
Solo qualche anno più tardi, del medesimo autore, ebbi modo di scoprire “Fuga dalla libertà”.
Una folgorazione. Scritto nel 1941, attuale oggi più che mai.
Erich Fromm, psicanalista freudiano ortodosso, esponente di spicco della cosiddetta “Scuola di Francoforte”.
Dice che è faticosa, la libertà. Che non si può mai dare per scontata.
Paradossalmente, a qualcuno può spaventare così tanto da spingerlo a mettere in atto dei veri e propri inconsapevoli ”meccanismi di fuga”.
Il primo è la distruttività.
Il secondo, il conformismo.
Il terzo, infine, l'autoritarismo.
La distruttività. Una strategia che l'essere umano mette in atto per liberarsi da questo “fardello” che è la libertà. Usando violenza, supero il mio senso di impotenza, di svalorizzazione, di insignificanza andando “contro” qualcuno.
L'altro serve da stampella al mio inconscio senso di mediocrità, se non di totale vacuità interiore.
Non di rado, l'accompagna una razionalizzazione. Con la quale si giustifica l'aggressività che colpisce determinate persone o gruppi sociali, considerati ai propri occhi “meritevoli” di violenza, discriminazione, spregio.
Il conformismo. Qui il soggetto fugge dal proprio isolamento consegnandosi mani e piedi ai meccanismi che egli ritiene funzionali al sopravvivere in società. Per venire accettato dagli altri significativi, l'individuo procede all'annullamento del proprio sé. Attraverso la moda, le omologazioni del linguaggio, dell'acconciatura, del vestiario, degli “status symbol”.
L'autoritarismo, infine, è un “gettarsi nelle braccia” di qualcuno di potente. Che ai propri occhi appare enormemente potente. Che dia sicurezza. Almeno apparente. Ciuffo arancione o radici bolsceviche che possieda, poca ne fa, di differenza.
Fromm la definisce posizione “sadomasochista”. Perché la sofferenza patita non è il fine ultimo, ma un mezzo. Queste dinamiche di sottomissione e dominio sono funzionali ad entrambe le parti.
Al “duce”, che ne guadagna in potere.
Al decerebrato (quanti se ne contano, a misurare la diuturna dose di post che vengono condivisi a partire da siti-bufala) che finalmente ha modo di sentirsi qualcuno, nell'”esercito di giustizia” di uno forte.
In questo post, se non lo si è capito, volevo parlare della libertà.
Il luogo comune su di essa, quello tipo “Baci Perugina”, recita che “dove finisce la tua, comincia la mia”.
E viceversa.
A me piace un'altra distinzione: quella che si pone tra libertà da, la libertà di, libertà per.
Posso divenire libero “dal” carcere, il giorno dell'amnistia.
Sul piazzale antistante, chiuso il portone alle mie spalle, mi ritrovo libero “di” scegliere.
Come Jake, mentre il Brother Elwood lo viene a prendere sulla Bluesmobile.
Mai rinunciare in partenza a queste libertà.
Nel momento in cui mi rimetto in gioco, tuttavia, la mia libertà è sempre funzionale a qualcosa.
“Per” uno scopo. Se me la tengo in tasca, rimane inconcludente.
Che allora io mi scopra “in missione per conto di Dio” o votato a sfuggire il lanciafiamme di un amore disilluso, mi conviene adoperarla, la mia libertà.
Sapendo che ciò equivale - automaticamente e inevitabilmente - a rinunciare a una parte di essa.
“Per” uno scopo.
Vivere, è scegliere.
Libertà fa rima con responsabilità.
L'ho capito terminato il liceo.
Ripensandoci, anche grazie alla Bixio, a Zago e al buon Patrese.
Grazie comunque, Lorena.
- andavo a cento all'ora -