Li vedevamo passare alti, quei cacciabombardieri. Dalla spiaggia di Jesolo, nitidi e tridimensionali, come il rombo di tuono dei loro reattori. Era il 1998, e la Francia di Zinédine Zidane stracciava in finale un Brasile orfano del miglior Ronaldo. Universalmente, il "Fenomeno". Che viceversa era parso ubriaco, a vederlo scendere barcollando dalla scaletta di quell'aereo.
In Italia – as usual - le tifoserie si dividevano tra chi asseriva giusto mandare le bombe a fermare gli scempi delle bande paramilitari di Ratko Mladic e Radovan Karadzic, altrimenti inarrestabili nel loro genocidio; altri si stracciavano le vesti, in nome di sforzi di pace impotenti - oramai - a fronte delle fosse comuni di Srebrenica, al meno che animale assedio di Sarajevo, alla cinica roulette omicida degli " snipers", i cecchini sui tetti degli edifici.
Le realtà umane sono ambivalenti. Sempre. Dentro, e fuori. Non c'è esperienza sulla terra che non possa venire osservata, valutata e compresa da almeno due punti di vista diversi. Talora antitetici.
Sondaggi recenti rivelano che il 50% dei serbi non ritiene siano stati commessi crimini da parte delle forze jugoslave durante i conflitti balcanici degli anni '90, e ben due terzi degli intervistati ritengono Mladic e Karadzic eroi patriottici.
Il guaio è che il mito nazionalista, come quello della purezza razziale, corrisponde a strutture di personalità malate, dal punto di vista psicanalitico.
Se nella xenofobia (cioè l'avversione indiscriminata nei confronti degli stranieri e di tutto ciò che proviene dall'estero) il Desiderio è trasformato in ostilità, nel razzismo l'altro è privato dell’interesse erotico, affettivo e mentale che normalmente si rivolge a un proprio simile. Nel razzismo, anche nella variante inconsapevole del “Io non sono razzista ma...” l'altro-uomo viene ridotto a una condizione di indesiderabile alienità animale, impostagli come costitutiva, congenita.
A livello comunicativo e di propaganda, poi, il gioco è facile. In condizioni socio-economiche di recessione, dove il benessere di qualche anno prima non risulta più disponibile, diventa virale diffondere paura e insicurezza. Adolf Hitler nel marzo del 1933 ha preso il potere con il 43,9% dei voti. Una settimana prima un incendio aveva distrutto il Reichstag, il parlamento tedesco. L'episodio, architettato ad arte dai nazisti, serviva esattamente allo scopo di ottenere un nemico cui contrapporsi con la “forza”. Incolparono un balordo “comunista”. Giustificarono poi la necessità dell'annullamento delle libertà democratiche, di espressione e di opinione.
E tutto il resto che ne seguì.
La strategia del creare un persecutore ad-hoc, un “invasore”, funziona sempre.
In questo meccanismo, i soggetti più fragili e immaturi (un noto giornalista, utilizzando il suo linguaggio non-psicologico ma probabilmente più efficace, li chiama gli “imbecilli”) costituiscono territorio fertile per inoculare il dispositivo paranoide: "La colpa è loro!” “Addosso!” “Tutti a casa!” “Sputtaniamoli tutti”.
Oggi, giusto vent'anni dopo, scorro i volti dei ragazzi che ieri si sono combattuti la finale della Coppa del Mondo, edizione 2018. Mi mettono simpatia.
Mentre quei bombardieri attraversavano i cieli sopra l'Adriatico stavano nascendo.
O tiravano i primi calci ad un pallone, in qualche cortile o angolo di mondo.
Quelli in casacca biancorossa: più di qualcuno ha una storia di profugo, esiliato, sfollato alle spalle.
Che grinta, che determinazione. Hanno dominato la gara, specie nella prima parte, anche se alla fine la partita l'hanno persa.
Gli altri, probabili futuri eroi di una mitologia moderna, attuali alfieri della nazione che ha prodotto gli ideali illuministitici della Libertà, Fraternità e Uguaglianza. Verrà loro conferita la Legione d'onore.
Perlopiù figli di un'Africa che ha trovato accoglienza, integrazione, sviluppo e successo nel cuore di Madre Europa.
Un pensiero mi passa per la testa. Che più di qualcuno di questi ragazzi, prima di diventare così bravo a rincorrere una palla e spedirla in rete, in qualche modo ha prima dovuto imparare a scappare.
Che loro, o i loro genitori, una qualche forma di “fame” (ma sì, oggi ci piace chiamarla “motivazione”, o “stimolo”) l'hanno sperimentata.
Di necessità.
Come diceva, quel californiano?
“Stay hungry, stay foolish”?
- ebony and ivory -