Fino alla metà dei '90 del secolo scorso (cioè una ventina d'anni fa) una e univoca era l'“auctoritas” in ambito sanitario locale: i medici condotti.
Che da poco avevano iniziato a essere chiamati “di famiglia”.
Si chiamava Piero Giovannucci, era il mio dottore.
Ciò che più mi appassionava, nelle poche volte in cui mi capitava di andarlo a trovare per una visita o un certificato sportivo, era la sala di attesa.
A sinistra, la porta dell'abitazione, a destra l'ambulatorio. Le barriere architettoniche non erano ancora diventate un aspetto urbanisticamente sensibile allora, per cui nessuno aveva ancora formalmente posto il problema di quei cinque-sei impervi gradini da scalare, per raggiungerlo.
Superata quindi la prima selezione darwiniana nell'ascesa, su una della decina di seggiole a disposizione in anticamera prendevi posto, attendendo educatamente il tuo turno.
Nulla di granchè diverso rispetto ad oggi, fatti salvi I distributori numerici tipo banco macelleria al supermercato, le ricette on-line e le prenotazioni telematiche, cose allora del tutto futuribili, impensabili.
Quando ti sedevi su una di quelle seggiole, fisicamente c'eri e fisicamente ci stavi. Faccia a facccia.
Per conto mio, perlopiù ad ascoltare le conversazioni dei presenti.
“Ciò, Maria, sèto che a me marìo ea settimana pasàda I o gà operà de appendice?”
“Dài, Santina... gàeo vùo tanto màe, ciò?”
“No, Maria, I ghe ga fàto on pàsto de nostàglia!” ( - “anestesia”, ndr. - )
“E ti, Giovanna, sìto 'ndà aea messa de chel frate de Sant'Angeo che I ga fàto prete, Padre Marco, de San Pòeo Basso?”
“Ah, cara: el xe come un vulcano in erezione, chél toso!” ( - in "eruzione”, ndr. - )
Uno dei temi più ricorrenti - e cosa, sennò? - erano tuttavia le diagnosi e le terapie in ambito sanitario.
Esattamente come oggi nei forum, nei blog, in Fb e nelle chat, le comunicazioni vertevano sul filo delle esperienze personali, nondimeno lungo il canale del “quéo me gà ditto che...”.
Una scenetta tra tutte, mi rimane indelebile nella memoria: quella in cui il volume vocale delle signore astanti - in pratica un gineceo clinico – aveva talmente infastidito il secondo esemplare maschio assieme a me presente in sala, da farlo erompere - purpureo in volto - in un esplosivo quanto apodittico: “Basta, fèmene!”.
Il secondo esemplare maschio presente in sala.
Da me lo diversificava l'età, la corporatura, e soprattutto quel vocione baritonale che era riuscito nello spazio di una semicroma a spezzare d'incanto il ciclo orgasmico della concitazione isterica femminea.
Caduto così nell'ambiente un silenzio surreale, l'anziano corpulento signore fece allora seguire una lapidaria sentenza, con una frequenza vocale probabilmente inferiore ai 65 Hertz:
“Co uno no sa gnènte, ghe pare de savére tutto”.
Allibito io e impermalosite di brutto loro, mi pare che lo stesso dottor Giovannucci si sia allora affacciato sulla porta, accompagnando il paziente uscente.
Immaginando forse che in quella quiete tombale la sequenza delle visite fosse, per quella mattina, terminata.
“Caspita” mi dicevo io tra me e me, allora studente universitario: “ecco uno che ha capito tutto”.
Chi non ricorda la fatica di preparare un esame, quei fatidici quattro testi obbligatori da imparare a menadito ogni volta, l'ansia il giorno dell'interrogazione, il ripassare fino all'alba le ultime nozioni?
Il sottoporsi alle forche caudine del professore, alle domande trabocchetto degli assistenti desiderosi solo - nel loro cinismo - di ben figurare?
Per chi ne sa di musica: imparare ad eseguire una sonata di Rossini alla fisarmonica con i bassi sciolti; o quelle dannate ipotetiche del terzo tipo nella grammatica della lingua inglese, con i tempi verbali da saper coniugare nel modo corretto...
Lo studio - qualunque studio serio - richiede tempo, disciplina, costanza, serietà, verifica sistematica, aggiornamento ininterrotto.
No doubt, at all.
Spesso, rinuncia a qualche serata con gli amici, sabati e domeniche passati sui libri, a testa bassa.
Eppure - mi dicevo - neppure queste donne devono aver del tutto torto a scambiarsi tante informazioni, alias ciàcoe. Soprattutto, a rassicurarsi vicendevolmente.
In questo coro non/scientifico ma di evidente mutuo-aiuto.
Anni dopo, mi sono imbattuto nella descrizione di uno dei più celebri “cognitive bias” noti in psicologia cognitiva e che inconsciamente condizionano I nostri giudizi e ragionamenti: l'effetto Dunning-Kruger.
I “bias cognitivi”, a differenza dei comuni errori di ragionamento, sono giudizi e valutazioni sistematicamente erronei, intrinseci al modo stesso in cui funziona la mente umana: ad esempio attenzione e memorizzazione selettiva, euristica della scarsità (se un bene viene dichiarato disponibile in quantità limitata diviene più appetibile), “cherry picking” o tendenza a presentare dati ed esempi esclusivamente in linea con la propria linea di pensiero, effetto alone (uno dei lati più inquietanti del conformismo sociale), teoria della dissonanza cognitiva (siamo ben disposti a sacrificare una verità se possiamo salvaguardare un'apparente coerenza), etc.
L'effetto Dunning-Kruger, in altre parole, nient'altro è che la clamorosa conferma della sentenza emessa in quella lontana mattinata dei metà anni '90 dal corpulento paziente maschio del Giovannucci:
“Co uno no sa gnènte, ghe pare de savére tutto”.
Se in ordinata mettiamo la stima delle proprie conoscenze e lungo l'asse delle ascisse l'effettiva competenza, assistiamo quindi ad un fenomeno curioso:
“Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio”.
E su questa scia Bertrand Russel, immenso logico e matematico:
“Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e indecisioni”.
Eppure – continuo a dirmi anni dopo – neppure le loquaci signore astanti in sala avranno avuto proprio del tutto torto (ipotetica del terzo tipo).
Cosa me lo fa pensare?
Che andavano a casa contente.
Saranno state le certificate diagnosi mediche dell'USL (allora) 14?
Oppure le terapie farmacologiche prescritte, su ricetta, dal dottore?
No, io credo piuttosto che tornassero (e tornino) a casa contente per aver potuto parlare.
Per aver potuto essere ascoltate.
Tra di loro.
E dal medico “condotto”.
Che, prima delle analisi di laboratorio, metteva il dialogo, l'attenzione, la richiesta di informazioni sulla famiglia, I figli, il marito...
Questo è ciò che il buon Piero Giovannucci, e ogni clinico che voglia essere efficace, sa e deve fare.
Questo è uno dei fattori più cruciali nella pratica terapeutica: l'ascolto, il tempo dedicato al paziente, la presa in carico non solo del suo corpo, bensì della sua storia, della sua emotività, delle sue paure.
Che sia tutto qui, il segreto della psicologia femminile?
Me ne guardo bene dall'affermarlo.
Vuto miga che sìa anca mi uno de quei che... “co no sa gnènte, ghe pare de vèr capìo tutto”?
- no woman, no cry -