Hai presente Maggie, in "Million Dollar Baby"?
Li stende tutti, in pochi istanti. Poche zampate, di quelle giuste, magari sul naso, e l'avversaria a terra, senza scampo. Immobile. Stordita. Fessa.
Fino a quando incontra Billie, "The Blue Bear".
Il finale è tragico. Il film, magnifico.
Si, credevo fosse tutta una sceneggiata.
Fino a quella volta in cui, incespicando sugli sci, ho battuto la testa, cadendo sulla nuca.
Per fortuna avevo il casco.
È una brutta sensazione, decisamente.
Il cervello invia l'ordine: "Rialzati!". “Subito!”.
Le gambe non rispondono. Se ne infischiano, altamente.
Deve passare un po' di tempo. Quello necessario alle vie neurali per riconnettersi.
Lo spiegano così: quando la testa è soggetta a una accelerazione molto violenta, il cervello, che non è “fissato” nella scatola cranica, oscilla leggermente e questo provoca un rilascio massiccio di neurotrasmettitori. Se il trauma è abbastanza forte, le aree cerebrali interessate sono talmente tante da provocare un sovraccarico per il lavoro del cervello che fa quello che fa un computer quando si imballa: riparte dopo un "reboot”.
Durante questo reboot il cervello è sostanzialmente incapace di gestire qualunque cosa non sia completamente automatica come il respiro o il battito cardiaco: in particolare l’equilibrio e il tono dei muscoli volontari vanno a farsi benedire e crolli, come un sacco di patate.
Da certe botte ti rialzi, e tutto sommato passa presto.
Altri colpi rimangono dentro più a lungo.
Alcuni, addirittura, riaffiorano.
Lo si chiama PTSD.
“Disturbo Post Traumatico da Stress”, nella dicitura italiana.
L’American Psychiatric Association (APA) dà un elenco dettagliato dei sintomi che lo costituiscono. Compaiono solitamente entro tre mesi dal trauma. In qualche caso anche più tardi. Sono classificabili in tre categorie:
• episodi di intrusione: le persone affette da PTSD hanno ricordi improvvisi che si manifestano in modo molto vivido e sono accompagnati da emozioni dolorose e dal ‘rivivere’ il dramma. A volte, l’esperienza è talmente forte da far sembrare all’individuo coinvolto che l’evento traumatico si stia ripetendo.
• volontà di evitare e mancata elaborazione: l’individuo cerca di evitare contatti con chiunque e con qualunque cosa che lo riporti al trauma.
• ipersensibilità e ipervigilanza: le persone si comportano come se fossero costantemente minacciate dal trauma.
Se ne esce?
Certo che si.
Con i rimedi giusti.
Qualcuno con cui parlarne. Nel contesto appropriato. Si chiama "elaborazione del trauma" .
Anche con un sostegno farmacologico, quando serve.
Ah, e con un pizzico di ironia, magari. Che non guasta mai, anzi.
La sai quella del tizio che doveva sottoporsi a una rischiosissima operazione chirurgica, per la quale il tasso di sopravvivenza era di un paziente su cento?
Si reca – al terror panico – dal chirurgo che, con fare serafico, gli fa:
“Caro signore, stia sereno”.
"Come, stia sereno: il tasso di sopravvivenza a questo intervento è di un paziente su cento!".
“Stia assolutamente sereno, le dico: ne ho operati novantanove questo mese, e sono tutti morti”.
- todo pasa -