che dura poco tempo,
che mai no se destrìga:
vùto che tea conta, o vùto che tea diga?”
“Che tea diga!”
“Bene, allora: questa xe a storia del Sior Intento,
che dura poco tempo,
che mai no se destrìga:
vùto che tea conta, o vùto che tea diga?”
“Che tea conta!”
Cercavo di cavarmela così, quando ogni sera le mie figlie, da piccole, mi chiedevano di raccontar loro una storia, prima di addormentarsi.
“Uffa! Ma che storia è, sempre questa?”...
Lo ammetto. Mica che funzionasse granché.
Ero rapidamente costretto a virare su Esopo (qui andavo sul sicuro: quella del “Fanfarone” era in cima alla Top Ten), sul Gabbiano Jonathan Livingston (nella variante locale aveva preso dimora sopra il campanile di Sant'Angelo di Piove, invidiato dall'amico Fletcher, il chioggiotto) o su Righetta la Chiocciolina Vagabonda (questa totalmente autografa).
La storia del Sior Intento.
Dicono questo “tempo sospeso” di isolamento e interruzione di ogni attività dovuto alla drammatica mondiale pandemia da Covid-19 potrebbe insegnarci qualcosa.
Di sicuro, il prezzo in termini di vite umane rimarrà irrisarcibile, non rimborsabile.
Piuttosto oscure le previsioni anche rispetto al mondo del lavoro. All'occupazione, alla sorte di molte aziende e dei loro dipendenti; agli artigiani, i commercianti, le società di servizi.
Se c'è una cosa di cui ora siamo talmente ricchi da poterci considerare dei veri e propri capitalisti, è il tempo.
“Che mai no se destriga”.
Esattamente quel bene che fino a ieri pareva la merce più rara. Quel correre affannoso, che mai non ci bastava, che ogni attività, incombenza, responsabilità, financo quella cosa piacevole, quello spazio libero, tuttavia... “che dura poco tempo”.
Vùto che tea conta,
o vùto che tea diga?
Bah, se ne usciremo migliori, o peggiori lo lascio prevedere ai vari opinionisti, con relativi commentatori, in auge sul web e nelle televisioni.
Ciò che io riscontro, dalla mia postazione di ascolto psicologico, è parecchia frustrazione. Che in qualcuno sfocia in irritabilità, diminuita capacità di tolleranza, a volte aggressività reattiva. Fino ai correlati di somatizzazione clinica: attivazione del sistema neurovegetativo in termini di ipertensione, sindromi ansiose, screzi depressivi dell'umore.
In altri, al contrario, questa situazione elicita i lati migliori del carattere. Probabilmente perché sono già pre-disposti a questo esito, mi dirai. E non hai tutto i torti.
Guarda ai volontari della Protezione Civile. Guarda alla solidarietà diffusa, anche anonima, sotto traccia, di chi si prende cura di qualche vicino di casa anziano, o disabile, o per mille motivi in difficoltà. Ovviamente guarda ai medici, a tutto il personale sanitario, dagli assistenti agli operatori, agli addetti alle pulizie. Alle cassiere dei supermercati. A chi non può – e non vuole – esimersi dal contatto con il pubblico. Che a volte sbraita, insulta, spinge. Altre, cerca semplicemente un contatto umano. Uno sguardo. Una parola, per rassicurazione.
Il passaggio cruciale sta proprio qua.
Lo vogliamo chiamare discernimento?
Vogliamo lasciar cadere - in primo luogo dentro noi stessi - la tendenza a reagire alla frustrazione con l'aggressività, sia pur solo verbale?
Vogliamo non “entrare in simmetria” con l'impazienza, lo sguardo paranoide che vede nell'altro un possibile untore, trasgressore, minaccia alla tua sopravvivenza?
Ce la faremo, a non cadere vittime di quel terribile contagio cognitivo, che tutti ci riguarda, per cui il “male” ha una visibilità percettiva sempre sproporzionatamente maggiore del “bene”?
L'albero che cade disastrosamente, la foresta che cresce silenziosa...
Discernimento.
Magari mettiamolo a braccetto con la pazienza, va'.
Una delle virtù più formidabili.
Undici febbraio 1990. Un uomo viene scarcerato dopo 27 anni di dura detenzione.
Un criminale? Un omicida?
No, un uomo che nella sua terra si era battuto per i diritti civili. Per la libertà, per l'uguaglianza.
Contro le discriminazioni. Contro quella forma di ansia difensiva, quel meccanismo nevrotico inibitore del pensiero e dell'intelligenza che a livello civile prende forma sotto questo nome: apartheid.
Ventisette anni di carcere. Di isolamento. Di sottrazione di quel bene cui aveva consacrato l'esistenza.
Il suo nome?
Nelson Mandela.
Divenuto libero cittadino e Presidente dell'African National Congress, Mandela concorse contro De Klerk per la nuova carica di presidente del Sudafrica. Le elezioni le vinse, diventando il primo capo di stato di colore. De Klerk fu nominato vice presidente. Rimase in carica dal 1994 al 1999, guidando con politiche basate sul rispetto, la non-violenza, la riconciliazione civile e nazionale la transizione dal vecchio regime basato sull'apartheid alla democrazia.
Istituì un tribunale speciale, la cosiddetta Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Ne trovi il racconto anche il bellissimi film, come “In My Country” del 2004 e l'epico “Invictus” del 2009, del grande Clint Eastwood.
Emblematica la poesia, un testo scritto a fine '800 da William Ernest Henley, che si ripeteva mentalmente, giorno dopo giorno, dentro quella cella. Ad alleviare gli stenti della carcerazione, l'ingiuria della segregazione dovuta al colore della propria pelle, il pensiero dell'ingiustizia, della sopraffazione.
Quel tempo infinito e indeterminato, che - c'è da immaginarlo - pareva non passare mai.
“Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo che va da un polo all'altro,
Ringrazio gli dei qualunque essi siano
Per la mia indomabile anima.
Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d'ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
Incombe solo l'orrore delle ombre.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima”.
- dimmi quando tu verrai -