Le lesioni cerebrali, poi.
Eppure – piaccia o no – è “grazie” a questi handicap e traumi, se siamo riusciti a localizzare alcune funzioni della nostra mente. I modi cioè in cui impariamo, ricordiamo, proviamo determinate emozioni.
Siamo agli inizi del Novecento. Edouard Claparede ha una paziente che ha perso ogni capacità di creare nuovi ricordi. Chissà, forse in seguito a una scombinata caduta durante qualche passo di Charleston (quanto mi prende questo ballo ritmato, erede del ragtime: one-two-three… five-six-seven-eight). Bah, la storia non lo dice, se sia stata questa proprio, la causa.
Anyway, ogni volta in cui il medico entrava nella sua stanza, anche se l’aveva lasciata pochi minuti prima, doveva presentarsi di nuovo perché la signora non ricordava di averlo mai visto. Sconcertante, direte. Ebbene, si. Sconcertante. Guarda quanto poco basta per trasformare una persona, distruggere un’identità. Un’emorragia cerebrale, un incidente stradale, un dannato virus, o più semplicemente l’avanzare impietoso dell’età.
Edouard era uno scienziato curioso, prima che un clinico, tanto da ideare questo test: un giorno tese la mano alla paziente, nascondendo però una puntina nel palmo della propria mano. Ovviamente la signora, dopo la stretta, ritrasse subito la sua, di mano, a causa del dolore. Quando Claparede entrò nella stanza la volta successiva, la degente continuò a non riconoscerlo, ma rifiutò di stringergli la mano, anche se non sapeva spiegare il perché.
Caspita, una scoperta fondamentale. Il nostro cervello è fatto “a strati”, pensieri – emozioni – ricordi e riflessi seguono quindi circuiti differenti, sebbene normalmente risultino integrati.
Oggi sappiamo che il deficit di quella signora riguardava un danno ippocampale. L’ippocampo è una piccola struttura negli strati più interni della massa cerebrale, simile nella forma a un cavalluccio marino; da qui il nome. Questa della paziente di Claparede è stata forse la prima dimostrazione del fenomeno della memoria emotiva implicita. Che significa, “implicita”? Che è registrata nelle sensazioni, non nelle parole, nei concetti verbali.
La questione ancor più notevole è il fatto che a volte non è un incidente fisico a provocare fenomeni di questo tipo, bensì un trauma esistenziale. Per esempio nel Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD): il caso più noto degli effetti patologici di memorie registrate in modo implicito. Cioè immagini, ricordi, eventi solitamente non richiamabili alla coscienza, tuttavia in grado di attivarsi inconsciamente in seguito a un trauma, uno shock, come una cascata improvvisa e dirompente, e di condizionare in modo profondo la percezione, il comportamento e l’affettività di una persona.
Mi dirai che questo sconvolgimento nella vita di tutti causato dall’epidemia SARS-CoV-2, la quantità di decessi, la quarantena forzata, così come un terremoto, un attentato, eventi traumatici lo sono. Cui segue un distress emotivo, psicobiologico. Si, è così.
Come lo è stato (e con che proporzioni: molto maggiori) il secondo conflitto mondiale, causato dalla delirante follia nazifascista. Ne ricordiamo giusto oggi, in questi giorni, la Liberazione.
Come ne usciamo, come si guarisce, da questi eventi traumatici?
La prima risposta che la nostra mente fornisce, in automatico, si chiama “dissociazione”. E’ un riflesso primordiale, una sorta di “salvavita” che scatta da sè, come quando va via la corrente di casa perché un filo spellato ha “fatto contatto”, o troppi elettrodomestici li hai attivati tutti assieme. Il circuito “non ce la fa”. Si spegne. Salta l’interruttore. Si blocca tutto.
Non è questa, tuttavia, la strada giusta, non è questa la via della guarigione.
Un autore moderno, Daniel Hill, li chiama “Stati del Sé”. Avviene che il sistema della memoria, della percezione, dell’attenzione, della capacità di riflessione e giudizio, in seguito ai traumi emotivi vadano in “tilt”. Come la paziente di Claparede, che ritraeva la mano per paura del dolore, senza saperne più il motivo.
Mac Lean, un altro neuroscienziato, ci ha mostrato all’inizio dei ’60 del secolo scorso - giusto mentre i Beatles componevano “Love Me Do” - come nella scatola cranica noi umani ci portiamo a spasso ogni giorno non uno, ma tre cervelli. Il primo è quello “rettile” (midollo spinale, tronco encefalico, talamo, nuclei ipotalamici e ipofisari) deputato ai riflessi e agli istinti primari (fame, sete, sonno, istinto sessuale); il secondo cervello è quello “mammifero” (sistema limbico, in sostanza) un “computer” nel quale girano principalmente i “software” delle emozioni, come rabbia, paura, comportamento di autoconservazione; infine la neocorteccia o “terzo cervello” che si occupa dei processi superiori come la riflessione, il ragionamento logico, il pensiero astratto del sapere, le invenzioni, la fantasia.
Li leggi, i post su Facebook di gente oramai esasperata da problemi economici, angustie familiari (non se ne può più di stare reclusi in casa che si finisce a litigare per una mosca), paure per come sarà il futuro? Sono sfoghi, grida di angoscia che si fa protesta, spesso indirizzata a caos, verso tutto e verso tutti. Indistintamente. Senza discernimento. Capacità critica, di riflessione e giudizio.
E’ il distress. La reazione al trauma.
Come se ne esce?
Beh, la maniera buona esiste. Passa attraverso il recupero del senso di sicurezza, di integrità.
A livello terapeutico, si tratta di far dialogare l’emisfero destro, quello delle emozioni, con il sinistro, sede dei processi razionali e astrattivi. Si tratta di seguire fino in fondo il sentiero delle emozioni, che sono gli indicatori infallibili dei bisogni.
Un bisogno soddisfatto, dà gioia.
Un bisogno frustrato, rabbia e irritazione.
Un bisogno perduto, irrimediabilmente: tristezza, depressione.
Il bisogno primordiale, di sopravvivenza: te lo segnala la paura.
E di bisogni ne abbiamo, tutti, a vari livelli: bisogni fisici, emotivi, intellettivi… spirituali, pur non essendone sempre consapevoli.
Che significa recuperare un senso di sicurezza e di integrità nella vita concreta, quella della quotidianità?
Vuol dire guadagnare una prospettiva nella quale le capacità di gestire sé stessi (regolazione emotiva) si sposa con una migliorata resilienza. Vale a dire che uno è disposto a far fatica, a superare i momenti critici, se davanti ha una prospettiva di risultato, cioè se ci vede una “via d’uscita”.
Vuol dire far conto sempre più su sé stessi, piuttosto che alimentare aspettative sui comportamenti altrui. Per poi rimanerne delusi, frustrati, quando (spesso) non si realizzano.
Vuol dire coltivare “legami sicuri”: quelli che ti aiutano anche a rinunciare a un tornaconto immediato, se serve, in nome di un traguardo futuro. Pensa a quanto ci sta chiedendo il pianeta Terra, ad esempio. Lo stiamo soffocando - e noi con esso - inseguendo l’idolatria del profitto a tutti i costi. Degli egoismi nazionalistici. Del “vengo prima io!”.
Vuol dire gettare il cuore oltre l’ostacolo. Al punto da non considerare nemmeno la propria vita fisica il valore supremo, quando è in gioco quella dei tuoi figli, di una comunità, di una società.
Come settantacinque anni fa. Giusti-giusti. Era un venticinque di aprile.
E il “trauma” da cui i nostri nonni e genitori uscivano, era ben peggio del Coronavirus.
O Bella, ciao.
Che Liberazione!
- questo amore è una camera a gas -