
Lo stato di emergenza da Coronavirus, voglio dire.
Quando ne verremo fuori, da questa situazione in cui ci siamo improvvisamente scoperti così vulnerabili, tutti-allo-stesso-modo?
Qualcuno ce lo sta ricordando, che l’uscita non sarà così rapida.
Prendo pari-pari da un’analisi di Antonino Michienzi, che leggo in rete e trovo molto chiara, efficace. Messo così, sinteticamente per punti, il concetto risulta chiaro:
1. se #stiamoacasa il virus non muore. Non basta. Stare a casa e azzerare i contatti sociali serviva a contenere l’epidemia, non a spegnerla. Molti hanno riposto una fiducia fideistica in questa misura, invocando uno stato di polizia, interpretando la chiusura quasi come un sacrificio attraverso cui redimersi e quanto più grande la sofferenza tanto maggiore l’efficacia e così via. Purtroppo, non è così;
2. possiamo spegnere tutti i casi in Italia ma finché ce ne saranno altri in giro per il mondo, il virus SARS-CoV-2 non ce lo saremo levato dai piedi. Il mondo in cui viviamo è uno solo: siamo tutti nello stesso acquario. L’idea di rimanere chiusi dal resto del mondo è teoricamente possibile. Ma l’idea di rinunciare a qualunque tipo di viaggio all’estero (per lavoro, mica solo per turismo) o viceversa di bloccare ogni tipo di ingresso – a tempo indeterminato – è difficilmente praticabile. Il fatto poi che in moltissimi casi la malattia scatenata da questo virus presenti pochissimi sintomi, significa che tutti noi potremmo esserne affetti senza accorgercene. E quanto più ci allontaneremo dall’emergenza tanto più tenderemo a dare poca importanza a sintomi lievi. Quindi, anche quando il Ministero della Salute ci dicesse che non ci sono più casi in Italia, è quasi certo che il virus sta ancora passeggiando con noi e tra di noi e che da un momento all’altro emergerà in qualche persona che presenterà sintomi gravi;
3. grosso modo - prosegue Michienzi - ogni epidemia è come un incendio: finché ci sono alberi da bruciare il fuoco si propaga passando da un albero all’altro. Noi siamo gli alberi che il fuoco (il virus) usa per propagarsi. L’unico modo per impedire al fuoco di propagarsi è sottrargli gli alberi o renderli ignifughi. A sottrarli ci abbiamo provato con lo #stiamoacasa. Per renderli ignifughi (cioè immuni all’infezione) ci sono due opzioni: il vaccino o l’immunità sviluppata come conseguenza della malattia. Ora, il vaccino non lo abbiamo (e non siamo ancora in grado di prevedere in che tempi diverrà disponibile) mentre sull’immunità naturale non sappiamo se si sviluppa e quanto duri (1 mese? 1 anno? Una vita?). Se anche si sviluppasse e fosse duratura, però, il fatto che da un mese siamo chiusi in casa ha fatto sì che una porzione enorme della popolazione non sia entrata in contatto con il virus e che quindi sia ancora suscettibile all’infezione. Insomma, ci sono milioni di alberi secchi pronti a prendere fuoco non appena entrassero in contatto con una scintilla.
Queste sono grosso modo le ragioni per cui #stiamoacasa è necessario, ma non sufficiente a superare l’emergenza.
E allora?
Come risolvere l’equazione “paura del contagio/necessità di ricominciare a vivere”?
La nostra mente è capace di ragionamenti piuttosto contorti, quando andiamo in ansia.
Cerchiamo soluzioni complicate quando basterebbero atteggiamenti più semplici, elementari.
Talvolta, costruiamo inutilmente delle vere e proprie fobie.
Ti racconto la storia di Mario. Mario Littlewood.
La sua famiglia vive in America, oramai più di due generazioni. Antiche radici di pescatori nati a Sottomarina, tant’è che l’originario “Boscolo” si vide trasformato, appunto, nel più consono “Littlewood”, una volta integratisi a tutti gli effetti, e con successo, nel Nuovo Mondo. E nella sua economia.
Mario gestiva una fiorente attività di commercio all’ingrosso del pescato, nella mitica San Francisco Bay.
Ma la sua passione era un’altra. Lo era sempre stata, tanto da considerarla una vocazione, quasi.
Mario era appassionato d’arte. Specie del Rinascimento Italiano. Firenze, gli Uffizi, il suo sogno proibito.
Perché proibito, mi dirai? C’era un problema. Un grosso, problema. Ma grosso davvero.
Mario “Boscolo” Littlewood soffriva di attacchi di panico. Un disturbo di grado invalidante, con dei veri e tratti fobici nei confronti del volo in aereo. Vabbè, che c’entra con l’arte, mi stai obiettando.
Pischello che non sei altro, secondo te un miliardario italo-americano, self-made man, gli Uffizi si accontenta di guardarli su Youtube? Credi non desideri sopra ogni cosa riuscire a infilarsi una buona volta in quel dannatissimo aereoplano, vincere la paura di morire, di precipitare, scovando il coraggio per il viaggio di ritorno verso la terra dei suoi avi, e correre dritto al corridoio vasariano, a Palazzo Vecchio, ai Boboli?
Era una vera e propria nevrosi fobica, quella di Mario. Sviluppatasi e ingigantitasi dopo gli attentati dell’undici settembre 2001, l’attentato alle torri gemelle con quei due jet che, uno dopo l’altro, si erano infilati dentro i grattacieli, provocando l’ecatombe.
Più precisamente, l’ossessione che lo inchiodava era che nell’aereo qualcuno potesse piazzarci una bomba. Da far esplodere in volo.
Te l’ho detto, era anche uno che coi soldi, l’economia, i numeri ci sapeva fare, Mario. I calcoli, li maneggiava molto bene. Perciò si mise a telefonare, una ad una, a tutte le compagnie aeree degli Stati Uniti che gestivano i voli verso l’Italia. E poi quelle europee, e poi quelle arabe, e di tutto il mondo. Era diventato un vero e proprio incubo, per le centraliniste. Voleva conoscere, con precisione chirurgica, il numero di incidenti subiti da ciascuna compagnia aerea a causa di un’esplosione avvenuta a bordo.
Perlopiù, lo mandavano a quel paese.
Finché ebbe la fortuna di incontrare un agente di viaggio – come lui – appassionato di calcolo delle probabilità. Un agente di viaggio – come lui – probabilmente affetto da qualche forma di disturbo ossessivo compulsivo. L’operatore stavolta gli rispose prontamente: “Una probabilità su centomila”.
Mario ci pensò su un attimo, e poi chiese: “Scusi, e due, di bombe? Quante probabilità ho di trovare due bombe contemporaneamente, sullo stesso aereo?”.
L’agente, per nulla intimorito, gli rispose: “Mi lasci mezz’ora di tempo che devo impostare un calcolo esponenziale. Mi richiami tra mezz’ora esatta”.
Mario richiama, dopo trenta minuti spaccati.
“Ecco il risultato: si tratta di una probabilità su 100.000.000. Una probabilità su cento milioni, che lei possa trovare due bombe sullo stesso aereo”.
“Perfetto, prenoto subito il volo per Venezia, aeroporto Marco Polo!” fa Mario, entusiasta.
Te la faccio breve: sai com’è finita?
Mario Boscolo venne arrestato all’imbarco di San Francisco, al check-in della TWA. Aveva una bomba in borsa.
Una bomba? L’oggetto che così tanto temeva?
Si, una bomba. Sosteneva, con la massima convinzione, che così agiva per il bene di tutti.
Perché? Semplice, dal suo punto di vista: riduceva di gran lunga l’ipotesi di trovare un'altra bomba sull’aereo.
E’ un aneddoto che Giorgio Nardone, specialista e maestro in Terapia Strategica, ha inserito in uno dei suoi libri. Illustra bene come molto spesso noi costruiamo la realtà sulla base della nostra immaginazione, più che sui dati di fatto, specie quando l’impresario si chiama: paura.
Mi stai dicendo che anche quando avremo disponibile (speriamo presto, prima possibile) un vaccino, ci sarà qualcuno che si sottrarrà all’obbligo, “per paura” dei possibili effetti collaterali?
Come darti torto. Avviene già oggi, nei confronti di epidemie ancor più pericolose, come il morbillo, non lo vedi? E’ il ragionamento di Mario “Boscolo” Littlewood: piuttosto di correre un possibile rischio, seppur ultra-remoto, mi assicuro una certezza. Che poi sia una certezza “di Pirro”, cioè legata al controllo, più che al risultato, questo è ciò che la mente va a produrre, quando la nebbia dell’ansia sale e oscura gli irti colli della ragionevolezza.
In conclusione, ciò che voglio dirti è questo: la fiducia si basa sul rischio. E’ inevitabile: la vita comporta infinite tonalità di colore, e transizioni d’intensità. La vita non è solo bianco/nero. O al massimo sfumature di grigio. Il controllo su ogni cosa ci è umanamente interdetto: si tratta di mera illusione. Il risultato, quando non accettiamo questa inesorabile legge del vivere, sono le storie alla Mario Boscolo, o le fobie paranoidi alla “no vax”.
E l’altra è questa: a volte una paura viene sconfitta in un solo modo, paradossale: da un’altra paura, basta sia più grossa.
E’ probabile arriveremo a condizioni socio-economiche, per una notevole percentuale della popolazione, simili ai periodi post-bellici. Dove i bisogni primari (cibo, vestiti, abitazione, reddito) si imporranno su tutto il resto. Hai visto la corsa “all’arme” (l’impennata nella vendita di pistole e fucili) in una nazione “disperata” come gli USA? Disperata perché manco il servizio sanitario nazionale, per il quale tanto si era battuto e speso l’ex presidente Barack Obama, viene assicurato? Si assiste al ritorno allo stato selvaggio, primordiale. In situazione di minaccia alla sopravvivenza, la regola che si impone è “mors tua, vita mea”.
Quindi: agli scienziati, fornire soluzioni cliniche.
Ai governanti, indicazioni chiare e coraggiose.
Oh: basterebbe anche solo non ci sciacallassero ancora, sul redditizio (per loro, a livello elettorale) tema della paura. Adesso che gli immigrati sono retrocessi inesorabilmente in secondo piano, anzi sono quelli che ci aiutano e soccorrono in modo così prezioso (vedi Inghilterra post-Brexit, e non solo): medici, infermieri, operatori, corrieri, assistenti, operai…
Ai genitori e agli educatori, la capacità di “prendersi cura”. Che vuol dire informare correttamente, e sostenere, e rassicurare, e accompagnare, e portare – tanta – pazienza, non di rado. Considerando che anche i genitori e gli educatori sono in primis degli esseri umani. Fatti anch’essi (anche noi, cioè) di emozioni, sentimenti, desideri e paure. Vulnerabili, quindi. In condizioni estreme, “Più che 'l dolor, poté 'l digiuno”: te la ricordi, quella?
Coraggio, quindi, e avanti tutta. Bomba o non bomba, come cantavano due giovanissimi Antonello Venditti e Francesco De Gregori, sul finire degli anni ’70.
- ma il coccodrillo, come fa? –