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BONTEMPO

29/3/2020

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“Questa xe a storia del Sior Intento,
che dura poco tempo,
che mai no se destrìga:
vùto che tea conta, o vùto che tea diga?”

“Che tea diga!”

“Bene, allora: questa xe a storia del Sior Intento,
che dura poco tempo,
che mai no se destrìga:
vùto che tea conta, o vùto che tea diga?”

“Che tea conta!”

Cercavo di cavarmela così, quando ogni sera le mie figlie, da piccole, mi chiedevano di raccontar loro una storia, prima di addormentarsi.

“Uffa! Ma che storia è, sempre questa?”...

Lo ammetto. Mica che funzionasse granché.
Ero rapidamente costretto a virare su Esopo (qui andavo sul sicuro: quella del “Fanfarone” era in cima alla Top Ten), sul Gabbiano Jonathan Livingston (nella variante locale aveva preso dimora sopra il campanile di Sant'Angelo di Piove, invidiato dall'amico Fletcher, il chioggiotto) o su Righetta la Chiocciolina Vagabonda (questa totalmente autografa).

La storia del Sior Intento.
Dicono questo “tempo sospeso” di isolamento e interruzione di ogni attività dovuto alla drammatica mondiale pandemia da Covid-19 potrebbe insegnarci qualcosa.
Di sicuro, il prezzo in termini di vite umane rimarrà irrisarcibile, non rimborsabile.
Piuttosto oscure le previsioni anche rispetto al mondo del lavoro. All'occupazione, alla sorte di molte aziende e dei loro dipendenti; agli artigiani, i commercianti, le società di servizi.

Se c'è una cosa di cui ora siamo talmente ricchi da poterci considerare dei veri e propri capitalisti, è il tempo.
“Che mai no se destriga”.

Esattamente quel bene che fino a ieri pareva la merce più rara. Quel correre affannoso, che mai non ci bastava, che ogni attività, incombenza, responsabilità, financo quella cosa piacevole, quello spazio libero, tuttavia... “che dura poco tempo”.

Vùto che tea conta,
o vùto che tea diga?

Bah, se ne usciremo migliori, o peggiori lo lascio prevedere ai vari opinionisti, con relativi commentatori, in auge sul web e nelle televisioni.
Ciò che io riscontro, dalla mia postazione di ascolto psicologico, è parecchia frustrazione. Che in qualcuno sfocia in irritabilità, diminuita capacità di tolleranza, a volte aggressività reattiva. Fino ai correlati di somatizzazione clinica: attivazione del sistema neurovegetativo in termini di ipertensione, sindromi ansiose, screzi depressivi dell'umore.
In altri, al contrario, questa situazione elicita i lati migliori del carattere. Probabilmente perché sono già pre-disposti a questo esito, mi dirai. E non hai tutto i torti.
Guarda ai volontari della Protezione Civile. Guarda alla solidarietà diffusa, anche anonima, sotto traccia, di chi si prende cura di qualche vicino di casa anziano, o disabile, o per mille motivi in difficoltà. Ovviamente guarda ai medici, a tutto il personale sanitario, dagli assistenti agli operatori, agli addetti alle pulizie. Alle cassiere dei supermercati. A chi non può – e non vuole – esimersi dal contatto con il pubblico. Che a volte sbraita, insulta, spinge. Altre, cerca semplicemente un contatto umano. Uno sguardo. Una parola, per rassicurazione.

Il passaggio cruciale sta proprio qua.
Lo vogliamo chiamare discernimento?

Vogliamo lasciar cadere - in primo luogo dentro noi stessi - la tendenza a reagire alla frustrazione con l'aggressività, sia pur solo verbale?
Vogliamo non “entrare in simmetria” con l'impazienza, lo sguardo paranoide che vede nell'altro un possibile untore, trasgressore, minaccia alla tua sopravvivenza?
Ce la faremo, a non cadere vittime di quel terribile contagio cognitivo, che tutti ci riguarda, per cui il “male” ha una visibilità percettiva sempre sproporzionatamente maggiore del “bene”?
L'albero che cade disastrosamente, la foresta che cresce silenziosa...

Discernimento.
Magari mettiamolo a braccetto con la pazienza, va'.
Una delle virtù più formidabili.

Undici febbraio 1990. Un uomo viene scarcerato dopo 27 anni di dura detenzione.
Un criminale? Un omicida?
No, un uomo che nella sua terra si era battuto per i diritti civili. Per la libertà, per l'uguaglianza.
Contro le discriminazioni. Contro quella forma di ansia difensiva, quel meccanismo nevrotico inibitore del pensiero e dell'intelligenza che a livello civile prende forma sotto questo nome: apartheid.
Ventisette anni di carcere. Di isolamento. Di sottrazione di quel bene cui aveva consacrato l'esistenza.

Il suo nome?
Nelson Mandela.
Divenuto libero cittadino e Presidente dell'African National Congress, Mandela concorse contro De Klerk per la nuova carica di presidente del Sudafrica. Le elezioni le vinse, diventando il primo capo di stato di colore. De Klerk fu nominato vice presidente. Rimase in carica dal 1994 al 1999, guidando con politiche basate sul rispetto, la non-violenza, la riconciliazione civile e nazionale la transizione dal vecchio regime basato sull'apartheid alla democrazia.
Istituì un tribunale speciale, la cosiddetta Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Ne trovi il racconto anche il bellissimi film, come “In My Country” del 2004 e l'epico “Invictus” del 2009, del grande Clint Eastwood.

Emblematica la poesia, un testo scritto a fine '800 da William Ernest Henley, che si ripeteva mentalmente, giorno dopo giorno, dentro quella cella. Ad alleviare gli stenti della carcerazione, l'ingiuria della segregazione dovuta al colore della propria pelle, il pensiero dell'ingiustizia, della sopraffazione.
Quel tempo infinito e indeterminato, che - c'è da immaginarlo - pareva non passare mai.

“Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo che va da un polo all'altro,
Ringrazio gli dei qualunque essi siano
Per la mia indomabile anima.

Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d'ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo di collera e lacrime
Incombe solo l'orrore delle ombre.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima”.


          - dimmi quando tu verrai -

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IL PRINCIPIO DI ARCHIMEDE

26/3/2020

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Sembra assolutamente paradossale, ma funziona davvero: se vuoi sbarazzarti di uno stato ansioso, sforzati di provocarlo. Apposta.
È una delle tecniche più stimolanti (e divertenti) che ho imparato, negli anni di formazione. Si deve a Giorgio Nardone e Paul Watzlawick. L’hanno formulata, validata  e perfezionata in più di trent’anni di pratica clinica.
Si chiama “prescrizione del sintomo”.
 
Te lo ricordi, José Mourinho? Piaccia o no, durante gli anni in cui ha allenato in Italia è stato maestro indiscusso nell’arte di conquistare il successo creandosi un nemico. Apposta.
The “Number One” nell’arte dell’opposizione.  Un fenomeno di antipatia, e carisma: inventati ad hoc dei nemici, e ciò moltiplicherà gli anticorpi immunitari all’interno della tua squadra, nei tuoi uomini. Più li farai sentire assaliti, perseguitati, più diverranno capaci di polverizzare qualunque avversario.
Serrare le fila viene in automatico, quando ti senti aggredito.
 
Si, vabbè. Mi dirai che anche in politica, degli imitatori più o meno riusciti… ne abbiamo.
Come darti torto?
Cambia semplicemente il nome. Quando al posto del campionato di calcio in gioco ci sono la vita delle persone, degli esseri umani in fuga da carestia, guerre e persecuzioni, o la sofferenza dei bambini, si chiama banalmente “sciacallaggio”.
 
E Jean Paul Sartre?
“Ci sono voluti i nazisti per farci apprezzare il valore della libertà”.
Citazione che riprendeva l’altro giorno anche Massimo Recalcati in un articolo su Repubblica, analizzando gli effetti che le forzate limitazioni imposte dall’epidemia Covid-19  possono produrre in termini educativi e di consapevolezza.
 
Archimede di Siracusa, vissuto nel terzo secolo avanti Cristo, è stato indubbiamente uno dei più grandi matematici e fisici della storia. Non solo un teorico: a lui si devono alcune invenzioni tra le più geniali in ambito scientifico e ingegneristico. Dai, le abbiamo studiate alle scuole medie: il principio delle leve, che ci ha fornito la possibilità di costruire macchine capaci di spostare grandi pesi con piccole forze, da cui la frase anedottica: “Datemi un punto d'appoggio, e vi solleverò la Terra”.

Per non parlare del divertentissimo stratagemma degli “specchi ustori” (quanto mi faceva ridere!) tramite i quali pare abbia difeso le coste di Siracusa dagli assalti dei romani durante la seconda guerra punica. Sfruttando le leggi della riflessione parabolica, concentrava i raggi solari sulle navi del nemico. Dieci, venti, cinquanta specchi di bronzo o rame, lucidati e concavi, puntati in modo da focalizzare sul legno delle imbarcazioni assalitrici l’energia radiante. Oh: prendevano fuoco in pochi minuti!
 
Ma la cosa che ricordo ancor oggi con maggior interesse è il celebre “Principio di Archimede” che così recita: “Ogni corpo immerso in un fluido (liquido o gas) riceve una spinta verticale dal basso verso l'alto, uguale per intensità al peso del fluido spostato”.
Te lo dico apertamente: dopo più di trent’anni di esperienza professionale, mi sono accorto che vale tanto nella psicologia delle relazioni, quanto in fisica.
 
Cosa voglio dire?
Ascolta: hai mai provato a predicare a un adolescente svogliato l’importanza di studiare?
O sciorinare a quel tuo amico, accanito fumatore, che deve smettere?
E al tuo/a partner, dimmi che non ti sei mai trovato a elencare  la serie di cose che NON deve fare. Che DEVE capire. Che tu al suo posto mai e poi mai ti comporteresti in quel modo…
Fallimento totale. Sull’intero fronte.
Riesci a smentirmi?
Spesso, ottieni la reazione opposta. Uguale e contraria.
Come il Principio di Archimede, appunto.
 
Ne stiamo riscoprendo di cose, in questa quarantena forzata da Coronavirus.
 
Tipo cosa significhi vivere h24 - senza poter uscire - in un appartamento di 70 metri quadri con tre figli piccoli. Compiti, capricci, lagne, bisogni, noia, richieste insistenti e insoddisfacibili:
“Voglio uscire!”
“Non si può!”
“Perché tu si e io no?”
“Perché no!”
“Uéh...”
 
Ricerche condotte in Cina e in Canada (pubblicati online il 26 febbraio scorso dalla prestigiosissima rivista scientifica Lancet, mica Novella 2000) mostrano come 4 settimane di quarantena dovute alla SARS nel 2003 siano bastate a generare nel 28% dei genitori sintomi da stress post-traumatico.  In psicologia clinica lo si definisce PTSD: è quello, per fare un esempio, sperimentato dai molti militari al ritorno dal fronte. Lo stesso studio ci dice che 3 anni dopo la fine della quarantena, il 10% dei soggetti sottoposti al provvedimento dimostravano sintomi di depressione acuta, legata al trauma non curato del periodo di isolamento.
 
Abbiamo scoperto - ma ormai lo si scrive in tutte le salse - che strapaghiamo e “santifichiamo”, adorandoli nelle liturgie non solo domenicali, i calciatori, e adesso comprendiamo quanto aver tagliato le risorse alla sanità pubblica sia stata una politica idiota e autolesionista. I medesimi studi sopra citati evidenziano come il 34% del personale medico e infermieristico sviluppa stress post traumatico dovuto al mix fra isolamento forzato e l’eccesso di lavoro a cui era sottoposto prima di essere contagiato.
 
Abbiamo scoperto la possibilità di veder uscire nostro padre, nostro zio, nostra nonna in ambulanza e già sapere che non li rivedrai mai più tornare a casa. Che neanche un funerale ti verrà concesso. E allora ti assalgono i rimorsi. Per quelle volte che non avevi tempo, non avevi voglia, per la pazienza che ti facevano perdere…
 
Abbiamo scoperto che i casi di abuso infantile e violenza sull’infanzia aumentano considerevolmente durante i periodi di sospensione forzata della frequenza scolastica (The Lancet, ieri 25 marzo 2020).
 
Poi, la paura per il futuro. Per le conseguenze economiche, e relazionali. Una signora l’altro giorno mi confidava: “Sa, un mio amico l’altro giorno mi ha detto: lascia che ti saluti adesso, perché se ce la caveremo, con che coraggio torneremo ad abbracciarci ancora?”
 
Come ne usciamo, da questo sortilegio?
Proviamo a chiederlo a Lacan, lo psicanalista eretico. Ci soccorre, anche lui, con un paradosso: "Amare è dare ciò che non si ha".
Si, hai letto giusto: “ciò che NON si ha”.
 
Bah, che stramberia, mi dirai. Queste cose possono far contento solo Lao-Tsu, quel filosofo del sesto secolo avanti Cristo, il quale sosteneva che il vuoto era importantissimo. Più del pieno, addirittura. Portava l’esempio del vaso: che te ne fai, di un vaso il cui artigiano avesse modellato riempiendo di argilla anche il suo interno?

"Amare è dare ciò che non si ha".
Eh, che poi se ti metti a dare ciò che hai-pensi-sai, capita pure che all’altro non interessi, o non sia ciò di cui ha effettivamente bisogno. E quindi lo respinge, inevitabilmente, in base al principio di Archimede.
 
“Amare è dare ciò che non si ha”.
Pensaci bene, dimmi se non è vero. Cosa chiedi, alla persona che ami, dopo un lungo periodo di separazione (viaggio, malattia, quarantena…)? Dopo che il destino, il lavoro, la necessità vi ha tenuto distanti? Non chiedi forse: “Ti sono mancato?” “Ti sono mancata?”
 
E cosa vuoi sentirti dire se non: “Si, mi sei mancato. Tanto, tantissimo. Da morire”.
 
Non è esattamente questo, “Ciò che non si ha”?
La mancanza svela quale sia, il dono più importante.
Il vuoto, l’assenza, rivelano il valore supremo delle cose. E delle persone.
 
Chissà se ce ne ricorderemo, quando i giorni ritorneranno “pieni”.
 

       - Il cielo in una stanza -

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DAGLI ALL'UNTORE!

19/3/2020

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Che a quell’età non avesse gran voglia di studiare, lo sapevamo tutti.
Anch’io ne sono stato diretto testimone. Gli fungevo all’epoca da animatore - oggi si direbbe “educatore” - e mai in vita mia, finché campo, scorderò la scena in cui vidi suo padre rincorrerlo furioso, sopra il tetto della casa.
 
Scorrevano gli anni di Mazinga Zeta, Ken Shiro, Goldrake.
E Michael Jackson sfondava i piccoli altoparlanti delle radioline a furia di girarci, a tutto volume.
 
Oh: non ci crederai, ma l’altra sera in pizzeria (prima che scattasse il decreto governativo #IoRestoaCasa) mi ha detto che in questi giorni si sta leggendo i Promessi Sposi!

Poco ci mancava che dallo shock io scivolassi sotto il tavolo.

“I Promessi Sposi, tu?”
“Si, me li ascolto”
“Come, te li ascolti?”
“Dallo stereo dell’auto, in formato audiolibro, andando al lavoro”
“Ahnn…”
 
Oh, robe da matti! E non solo I Promessi Sposi. Avresti dovuto sentirlo con che passione, e dovizia di particolari, mi andava descrivendo la scena della “Colonna Infame”. Te la ricordi, la vicenda, no? Quella del processo intentato a Milano durante la terribile peste del 1630 contro due presunti untori. Ritenuti responsabili del contagio pestilenziale, tramite misteriose sostanze, in seguito a un'accusa - infondata - da parte di una "donnicciola" del popolo, Caterina Rosa.
 
"Il sospetto e l'esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni". 
Così declamava, l’amico in pizzeria, citando alla lettera Manzoni.
E poi un'altra: "La falsa coscienza trova più facilmente pretesti per operare che formole per render conto di quello che ha fatto". 
 
Robe da matti. Robe da matti.
Ci mancava solo il Coronavirus - pensavo - per riportare all’attualità i fenomeni che in psicologia della percezione definiamo come “framing”, “illusioni probabilistiche”, “riluttanza a falsificare” and so on.

Ti cito un esperimento. Un classico, in psicologia sociale. Quello di Kahneman, Slovic e Tversky, pubblicato nelle riviste scientifiche nel 1974.
“Un villaggio sta per essere investito da una rara forma epidemica e le autorità sanitarie prevedono che moriranno 600 persone. Per fronteggiare la calamità allestiscono quattro programmi”:
Programma A: adottando questo programma si salveranno 200 persone.
Programma B: in questo caso c’è 1/3 di probabilità che si salvino 600 persone e 2/3 di probabilità che nessuno si salvi.
Programma C: adottando questo programma moriranno 400 persone.
Programma D: in questo caso c’è 1/3 di probabilità che nessuno muoia e 2/3 di probabilità che muoiano
600 persone.
 
Come si vede, il programma B è statisticamente equivalente al programma A: infatti 200 persone sono 1/3 di 600.
Anche il programma D è statisticamente equivalente al programma C: infatti 400 persone sono 2/3 di 600.
 
Notiamo poi che i programmi C e D portano agli stessi risultati dei programmi A e B, solo che in un caso tali risultati  sono  espressi  in  termini  di  sopravvivenza, mentre nell’altro in termini di mortalità.
 
Dovendo scegliere fra i programmi A e B, voi quale preferireste?
E dovendo scegliere fra C e D?
 
Chiedendo a un gruppo di soggetti sperimentali di scegliere fra i programmi A e B, Kahneman e collaboratori constatarono che nel 72% dei casi le persone optavano per il programma A.
Chiedendo a un altro gruppo di soggetti di scegliere fra i programmi C e D, nel 78% dei casi le persone optavano per il programma D.
 
Ciò significa che nel primo caso (programmi A e B, riferiti alla sopravvivenza) i soggetti tendevano a privilegiare, piuttosto che la soluzione probabilistica, quella sicura. Invece nel secondo caso (programmi C e D, riferiti alla mortalità) i soggetti tendevano a privilegiare, piuttosto che la soluzione sicura, quella probabilistica.
Il modo in cui era stato presentato  il  problema  (framing)  aveva dunque chiaramente influenzato le opzioni.
 
E poi la ricerca del capro espiatorio. Te lo ricordi, sempre Manzoni, al capitolo 32?
“Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de' mali, e irritati dall'insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire. (...) Le piace più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi”.
E quindi:
“Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta”.

Prendiamo direttamente Facebook una testimonianza contemporanea. Si chiama Paola (nome di fantasia) e lavora in fabbrica. È una di quelle persone che non possono stare a casa, insomma, e scrive:
«Sono stanca. Psicologicamente e fisicamente stanca. Esco dal lavoro e mi fermo al semaforo rosso. Ho giù il finestrino, mi godo il sole. Sento un urlo: “Stai a casa, assassina! Dovete stare a casa sennò ci uccidete tutti!". Mi giro e dalla cascina che costeggia la strada, una tizia alla finestra sta gridando. Proprio rivolta a me». La donna alla finestra l'ha vista fuori casa e la sua reazione è violenta. «Una tizia che non mi conosce, che non sa nulla della mia vita, non sa perché sono fuori casa, si sente in diritto di gridarmi le sue frustrazioni dalla finestra. Non ci siamo mai viste prima ma lei, sicura tra le mura domestiche intenta a salvare il mondo, giudica me, l'assassina fuori casa senza motivo».

Se  esci diventi un assassino. In automatico.
 
Meccanismi antichi. Vecchi come il mondo, o per meglio dire, nati con gli esseri umani. Che siamo noi - te l’eri scordato? – fatti di una pasta la cui farina si chiama emozioni, bisogni primari e un pizzico di razionalità che dovrebbe far da timone nei processi cognitivi e decisionali.
 
Diciamolo: Internet ci aveva illuso. I “Social”, poi…
Ci eravamo visti godere una sorta di “superpoteri”. Mail, chat, collegamenti istantanei e riscoperta dei compagni di classe dell’infanzia, possibilità di esprimere pareri su politica, scienza, medicina e arti in tempo reale, un pubblico costantemente a tua disposizione… roba da Jeeg Robot, da eroi dei fumetti. Quasi onniscienti, oltre che onnipotenti.
Adesso invece, ai tempi del contagio, ci scopriamo più simili a Lady Oscar. Che, perduto Andrè, il suo innamorato e già debilitata anch’essa nel fisico dalla tisi, cade e muore durante i tumulti della rivoluzione francese.
 
Presunti untori che vengono denunciati attraverso i post di Facebook; processi decisionali influenzati da emozioni primarie come la paura, la rabbia.
Incapacità in qualcuno di distinguere la differenza tra poter usufruire di una libertà e abusarne. Vale per i runners, e per chi li giudica indiscriminatamente. Come avviene spesso, il rischio è quello che la libertà, se non coniugata alla responsabilità, venga tolta a chiunque. Eppure fare attività fisica è una questione di salute. A livello fisico, mentale, emotivo e immunitario.

Cosa sto dicendo, in conclusione?
 
Ci aiuta a comprenderlo Stephen Karpman, un analista transazionale americano (sempre pragmatici, questi yankee). Propone uno schema rappresentato da un triangolo, in cui a ogni vertice corrisponde un ruolo.
I tre ruoli sono: Persecutore, Salvatore, Vittima. Lo chiama triangolo drammatico. Secondo l’autore, ognuna di queste posizioni permetterebbe di soddisfare alcuni bisogni del nostro Ego.
  • Vittima (schema “povero me!”): la persona che recita questo copione ottiene attenzione, perché sia Persecutore che Salvatore si concentrano su di lei. Inoltre, il ruolo di vittima soddisfa il bisogno di dipendenza e permette di evitare l’assunzione di responsabilità. La vittima non è sempre realmente una vittima, ma agisce come tale. I suoi sentimenti hanno a che fare con il sentirsi oppresso, accusato, senza speranza. Questa persona appare incapace di prendere decisioni, di risolvere problemi e trovare soluzioni.
  • Persecutore (schema “è tutta colpa tua!”): il persecutore è controllante, critico, oppressivo e giudicante. Si sente superiore e “bullizza” la vittima. In questo modo evita i propri sentimenti e le proprie paure.
  • Salvatore (schema “ti aiuto io!”): il salvatore accorre in aiuto della vittima. Ciò gli permette di mettersi in buona luce e sentirsi moralmente superiore, giusto, ma anche di evitare i propri problemi e sentimenti. Questo personaggio si sente frustrato e in colpa se non riesce a salvare gli altri. Le sue azioni hanno comunque effetti negativi, perché permettono alla Vittima di rimanere dipendente e al Persecutore di continuare ad attaccare.
I ruoli non sono fissi, ma intercambiabili. È possibile passare da un ruolo all’altro e giocarne più di uno contemporaneamente, a seconda dei contesti e delle situazioni.
 
Viviamo in un mondo che non sarà - non è già più - quello di prima.
Non lo è il lavoro. Non lo è l’economia.
Il pianeta Terra - non dimentichiamolo, al di là e dopo l’epidemia Coronavirus - sta scivolando lungo la rapida dell’autodistruzione. Pensa al riscaldamento globale, alla distruzione delle foreste pluviali, ai cambiamenti climatici.
 
Che ci serva davvero un Supereroe?

O non sia preferibile, e più conveniente, coltivare la consapevolezza di che “gioco” stiamo mettendo in atto, nel palcoscenico della vita? Da quale ruolo (Persecutore, Vittima, Salvatore) agiamo abitualmente, ed emettiamo i nostri proclami?
 
Magari prenderci del tempo per riflettere, prima di scrivere nei Social.
 
Magari evitare la ricerca compulsiva di informazioni. Si chiama “infodemia”:  ci porta a ignorare i dati oggettivi e la nostra capacità di giudizio può affievolirsi.
 
Ridurre la sovraesposizione alle informazioni dei vari tg, web, giornali, che generano ansia su ansia: inutile a una gestione efficace del problema. Le semplici informazioni dalle fonti ufficiali sono sufficienti:
- Ministero della Salute: http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus
- Istituto Superiore di Sanità: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/
 
Fermarsi, osservare i propri pensieri; dare un nome alle proprie emozioni e stati d’animo.
 
Provare paura, rabbia, frustrazione è quanto di più umano esista. Specie in periodi come questi.
 
Evitare, infine, di “leggere nel pensiero” e di giudicare gli altri. Dietro un comportamento sta sempre un “mondo” di motivazioni e una storia esistenziale, perlopiù a noi ignota.
 
E farsi anche aiutare, no, quando ne abbiamo bisogno?
     
        - si trasforma in un razzo missile  -

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MARMOTTE BATTE CORONA 20 - 19

17/3/2020

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In questi giorni di marcato distress causa epidemia da COVID-19, più di qualcuno mi chiede quali siano le richieste e i bisogni che le persone manifestano sul piano psicologico.

Nel mio campo di esperienza professionale, sostanzialmente tre:
  1. Ansia generalizzata e comportamenti fobici rispetto al timore del contagio;
  2. Aspetti depressivi legati alle perdite;
  3. Frustrazione e nervosismo per la limitazione delle libertà individuali e degli spazi di movimento.

In pratica:
  1. La paura ha un oggetto. è un’emozione primaria, riguarda un elemento identificabile: Il fuoco, le altezze, la velocità, le bestie feroci, ecc… è fondamentale per la nostra difesa e sopravvivenza: se non la provassimo, non riusciremmo a metterci in salvo dai rischi. Qui invece stiamo combattendo un nemico invisibile, che al pari di una truppa di terroristi sa infilarsi nell’incognito e nell’imprevedibilità. Da qui l’ansia generalizzata e il panico. Il rischio di contagio viene generalizzato percependo ogni situazione come rischiosa ed allarmante.
  2. Le perdite fanno parte della vita. Razionalmente, lo sappiamo tutti. Accettarle sul piano emotivo, invece, è altra cosa. Richiede tempi, riti, evocazione di memorie, narrazioni e ristrutturazioni. Non poter vivere la celebrazione del funerale, ad esempio, quale esperienza corale del lutto, aggiunge dolore alla perdita. Altrettanto drammatica l’impossibilità di una assistenza ospedaliera, di una vicinanza fisica (ed emotiva) come anche una semplice visita, cui le disposizioni legate alla limitazione del contagio costringono;
  3. Il terzo punto mi invita ad un racconto: la vita delle marmotte. Lo trovo un utilissimo esempio di come possiamo superare questa prova impegnativa e preoccupante. Prendo pari-pari una descrizione etologica offerta da “guidedolomiti”, un bel sito specializzato e divulgativo su questi nostri “Monti Pallidi” che incorniciano il Nord Est d’Italia, Patrimonio Mondiale Unesco.

Le marmotte vivono in gruppo. E lavorano in squadra.
Sono animali che amano prendere il sole, in società: di giorno vanno in cerca di cibo, di luce e calore. Giocano tra di loro, ma rimanendo sempre vicine alla propria tana, in cui rientrano la sera.
Quando sono impaurite, emettono un fischio caratteristico e molto acuto. Servendosi delle zampe e dei lunghi artigli scavano lunghe tane, con diverse stanze collegate da gallerie sotterranee. Le tane estive sono poco profonde e con molte uscite, quelle invernali sono invece costruite più scrupolosamente: praticamente hanno una galleria d’accesso che può essere lunga anche diversi metri e conduce ad una grande camera che viene rifornita di fieno. Possono ibernare in questi rifugi fino a sei mesi.

Il letargo della marmotta.
Si tratta di un animale estremo, in grado di vivere e riprodursi in un ambiente inospitale come può essere a volte l’alta montagna. A fine settembre, si ritrovano nelle loro tane e le preparano per affrontare il lungo periodo invernale. In queste tane possono stare da 3 a 10/15 marmotte. La marmotta va in letargo, a seconda della rigidità del clima, generalmente da ottobre ad aprile. Questo roditore possiede un sonno da record, che le consente di superare il freddo e il nevoso inverno delle alte quote.

Durante il letargo compie un vero e proprio miracolo fisiologico, la sua temperatura corporea scende da 35 a meno di cinque gradi, il cuore rallenta da 130 a 15 battiti al minuto e la respirazione diviene appena percettibile.
In questo periodo lentamente consuma le scorte di grasso corporeo accumulate nella bella stagione e per sei mesi dorme profondamente accanto al resto della sua famiglia. Si sveglia sporadicamente, in genere, solo quando la temperatura all’interno della tana scende sotto i cinque gradi. Sopravvivere all’inverno è comunque molto difficile. È stato evidenziato come la socialità sia un elemento determinante per la sopravvivenza.

Alcuni dati dimostrano che i cuccioli hanno più possibilità di farcela quando vanno in letargo con i genitori e con i fratelli maggiori. Quando invece nella tana mancano il padre e la madre oppure è scomparso un genitore, nel 70% dei casi la prole non supererà i rigori della stagione fredda. Quella della marmotta è, quindi, una termoregolazione sociale: più si è, più possibilità ci sono di sopravvivere, soprattutto per i piccoli, che hanno dimensioni che non permettono loro di accumulare un sufficiente strato di grasso prima dell’arrivo del freddo e, per questo motivo, hanno bisogno di essere scaldati dagli adulti. Questi ultimi presentano una maggiore perdita di peso corporeo quando all’interno della tana ci sono i nuovi nati dell’anno.

Quando si avvicina un predatore, la regola è fuggire. E per farlo in fretta, le marmotte hanno escogitato un sistema efficace: la prima che fiuta il pericolo dà l’allarme e in pochi secondi il gruppo si rifugia nella tana.
La tecnica è semplice. La “sentinella” si alza ritta sulle zampe posteriori, nella posizione a candela, spalanca la bocca ed emette un grido simile a un fischio, provocato dall’espulsione di aria attraverso le corde vocali, che secondo gli studiosi è un vero linguaggio.

Sei mai stato sull’altipiano del Mondeval? È un luogo magico, dal punto di vista naturalistico e ambientale. Un fascino immenso. Puoi salirci da Selva di Cadore o dal rifugio Città di Fiume, versante Pelmo. Oppure da Passo Giau, dirigendoti verso Forcella Ambrizzola, a 2277 metri di altitudine. Ci sono stato l’ultima volta la scorsa primavera, a disgelo inoltrato. Iniziava il risveglio delle marmotte. Ho provato ad immaginare cosa possa significare destarsi da un sonno durato sei mesi. Mettere il naso fuori dalla tana, e lasciare che le narici si impregnino con il profumo umido dell’erba, gli aromi del pino mugo e il frigore cristallino dell’aria rarefatta in quota.

Ho provato a immaginare cosa si possa provare a sortire da una notte così lunga e senza tempo, sollevar pian piano le palpebre e trovarsi d’improvviso travolti e abbacinati dalla bellezza inarrivabile del panorama. Gira lo sguardo da sinistra verso destra e ti compaiono - altissime e solenni avanti a te - le cime delle Tofane, le Cinque Torri, la Marmolada, lì sotto in fondo alla valle Cortina d'Ampezzo, il Sorapis, il Cristallo, la Croda Rossa, il Monte Pelmo e la Civetta.

Ecco, io credo che quando usciremo da questa sorta di incubo che è l’epidemia del Coronavirus e torneremo a riempire le piazze, lungo le strade, dentro le chiese e nelle sagre di paese, le sensazioni potranno in qualche modo esser simili.

A patto che in questo “inverno fuor di stagione” cui siamo consegnati, ci comportiamo bene.
Uniti, compatti, solidali. Tutti per uno, uno per tutti.
Sull’esempio delle marmotte.

Ce la faremo?
 
     - e guardo il mondo da un oblò -

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    Noneto Circin

    La parola, il suono, l’immagine, sono l’oggetto dei miei interessi nel tempo libero. 
    A volte, tentano di diventare voce. 
    Nella scrittura, nella musica, nella fotografia. 
    Per passione, per divertimento.
    Insomma, per una delle cose più serie nella vita: il gioco. 
    Tramite i tasti di un pianoforte, una penna che scorre veloce, le lenti di un vecchio obiettivo. 

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