posto spostando sguardo
SITOMATO
  • BLOG
  • Fotogrammatiche
    • MARI e MONTI
    • CàVARSE FòRA
    • DEEP IN MY EARTH
    • RAIxE
    • Pi GRECO
    • IL CENTRO DEL MONDO
    • DRIO I CANAL
    • IL PRIMO AMORE
    • ACQUA SANTA
    • IL PICCOLO FARISEO
    • PICCIRIDDU
    • L'ABITO NON FA IL PROFUGO
    • PAESI BASSI, CORTESIA IN QUOTA
    • BAYERN, MÜNCHEN. WILLKOMMEN!
    • WIR SIND BERLINER
    • CHEOPE & DINTORNI
    • ALONSO, TE CONSO.
  • Storie
    • TU COME STAI?
    • IL DOLORE DEGLI ALTRI
    • ALTAVIA NUMERO UNO
    • FINCHE’ MORTE CI SEPARI
    • TODO PASA
    • IL CIELO SOTTOSOPRA
    • IL CAPODANNO DEL CRICETO JOE
    • IL FILTRO DELL'OLIO
    • IL RIPOSINO DELL'IMPERATORE
    • ROLLIN' ON THE RIVER
    • CAPITANO MIO CAPITANO
    • JACK LAROCCIA
    • IL MESTIERE PIU' GRANDE
    • HONKY TONK, MY FRIENDS
    • BAO, BAO, PINO.
    • ERBA DI CASA MIA
    • TUTTI INNOCENTI, O QUASI
    • I RAGAZZI CON LA BICICLETTA
    • I HAVE A DREAM - L'AUTOEFFICACIA DEL GRAFOLOGO
    • E' TUTTA UNA QUESTIONE DI EQUILIBRIO
    • NON TIRATE LE MARCE
    • CAMPIONI DEL MONDO
    • IL BUONO, IL BRUTTO e IL CATTIVISTA
  • Persone
    • Volti
    • Giorgio
    • Flavio
    • Mariangela
  • Shots
  • RHYMES

VIVA LE NONNE!

30/12/2018

0 Comments

 
Foto
“La polvere, Giovanna, la polvere.”
“Si, Eulalia. La polvere. Come una volta. Certo.”
“E il paltano?  Quello argilloso, dei Colli Euganei? Rosso come l’inferno e viscido più di una saponetta dentro i tasselli degli pneumatici artigliati, mica te lo sarai scordato?
“Ah, Eulalia. Eulalia…”
“Vabbè, dai. Mica ricominceremo ancora con queste nostalgie, proprio adesso che siamo giunte in capo a questo fiordo, quassù nella lontana Islanda?”
“Ma te le vedi, Eulalia, le motorette d’oggi sporcarsi i raggi, macinare chilometri allo sfinimento e beccarsi tanta pioggia come quella che abbiamo addosso? A quelle sbarbine, basta arrivare davanti a un bar, imbellettarsi un po’, allargare la ghiera del fanale in uno smile, e farsi quel benedetto cavolo di selfie.”
“Soprattutto pubblicarlo - all’istante-  su Motogram o Motobook, altrimenti a che serve, esistere?”
“Ah, beh. E i motorini, allora? Tutti depilati, oooopsss…  - elaborati - con quella voce da garruli eunuchi, una botta di decalcomanie sul serbatoio, i parafanghi, il parabrezza, dappertutto che… come si chiama, quel modello belga, dal motore ibrido… Naingolan, forse? Che fa due chilometri e dopo ‘sta fermo un mese? Ah, Eulalia mia, non ci sono più i motori di una volta”.
“Già. Manco le mezze cilindrate, Giovanna cara. Ma te la ricordi, la Morini Tre-e-mezzo?”
“Sta zitta, va. Che ancora non l’ho digerita, quella. La odio. Te lo devo raccontare ancora, come mi ha portato via il centauro? Era così bello... prestante… ah, motore, motore, mio… ancora mi manca da morire, sai?”
“E' il minimo. Il minimo, Giovanna.  Datti una regolata. Ancora ci soffri? Sei proprio fuori giri! Che quella marmittona della Tre-e-mezzo se la faceva con chiunque, lo sai, no? E tutti che gli girava la testa, ogni volta che la vedevano passare. Che biella… ma quanto biella… Morini, amorino mio… e tutti a sgocciolarle dietro”.
“Beh, biella era biella davvero… e pure sexy conturbante, con quella posa sempre a V, divaricata al vento.”
“Mondo pistone, Giovanna. Mondo pistone!”
”Vabbè, Eulalia. Parliamo d’oggi. Dell’attualità. Di questi quattro tempi moderni”
“Ho conosciuto un nuovo centauro, l’altro giorno. Si è fatto trasportare fino a Reykjavík”
“Audace e spericolato come Gaston Rahier, Eulalia mia? Quel pilota che sulla nostra sella gli abbiamo fatto vincere due volte la Parigi-Dakar, negli anni ‘80?”
“No, Giovanna, no. Uno più tranquillo. Un uomo posato. Fa lo scrittore, adesso. Prende con calma cose, fatti e persone. Pensa che è pure un ex-magistrato. In un suo recente romanzo, intitolato “Il bordo vertiginoso delle cose…”
“Vertiginoso, Eulalia? Che parola pauroserrima! Ma te lo ricordi, quel tornante sullo Stelvio, che stavi per tirare dritta fuori strada… che burrone! Mica per sterzo! Mamma mia, che sbandata avevi preso!”
“Il bordo vertiginoso delle cose, si. Parla anche di motociclette, come noi. Si sente che è uno che ne sa. Di una Benelli 125, parla…”
“Ah, e adesso, cosa sta scrivendo, il tuo fascinoso centauro?”
“Beh, il libro più recente mi pare sia un dialogo a due voci, tra lui e un insegnante alle scuole superiori, dottore in filosofia. Si intitola “Con i piedi nel fango”.
“Nel fango? Come noi!”
“Si, come noi, Giovanna. Come me e te. “Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità”, s’intitola.“
“E che ci hai trovato, di bello?”
“Ah… tante cose, Giovanna, vecchiona mia. Tanta roba, davvero. Ad esempio, dati statistici alla mano, sostiene che il mondo di oggi è migliore di quello del passato. Cita a proposito un famoso storico israeliano, Harari. Tu pensa, ad esempio, che oggi muoiono 24.000 persone al giorno per fame o cause ad essa correlate; vent’anni fa, mentre noi spadroneggiavamo nei deserti sahariani vincendo i rallies motociclistici, erano 41.000, i morti per fame al giorno, nel mondo.”
”Ventiquattromila morti per fame al giorno nel mondo ogni giorno… è un dato sconvolgente, ma impressionante, in senso positivo, è anche il decremento…”
”Senti poi questa, Giò: “Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni”, così scrive.”
”Ma questa frase non era di De Gasperi, lo statista trentino; oh, ma che belle strade e sterrati abbiamo percorso nell’incantevole Alto Adige?“
”Infatti. Ascolta adesso la seconda parte, meno famosa: un politico pensa al successo del suo partito, lo statista a quello del suo paese.”
”Beh, oggi in realtà il politico medio non pensa nemmeno alle prossime elezioni: pensa al prossimo sondaggio o alla prima risposta da dare su Facebook o Twitter.”
”Bleaahh, Giovanna! E dire che a me e te, manco Motogram o Motobook fanno un baffo, se non s’era capito…”
”Baffo, Eulalia? Dici che sia già tempo di ripassare dall’estetist… ooops: meccanico per il tagliando?”
”Aspetta, Giovanna. Tempo al tempo. Due tempi ai due tempi. Quattro tempi (come noi) ai quattro tempi. Niente anticipo.”
”Vabbè, Eulalia, se adesso però ti rimetti a parlare in motorese, anche qui, davanti all’oceano… sai che non lo sopporto più. Mi fai svalvolare, così, di brutto!”
”Calmetta, Giovanna. Calmetta. Noi due, vecchiette a modo, non possiamo permetterci il lusso di perdere il controllo. Il giusto grip. A queste generazioni di motorette che stanno crescendo, chi ci pensa? Chi indicherà loro la giusta direzione? Niente scoppi d’ira, quindi.”
“S’è fatto tardi. Rimettiamoci in strada, che è ancora lunga, per ritornare a casa.”
”A casa? Intendi Monaco di Baviera? In Germania, dove siamo state partorite?”
”Secondo te, Eulalia, uno può sentirsi a casa solo dove è stato messo al mondo? Dove è semplicemente cominciata, la sua corsa?”
”Non lo so, Giovanna. A me sembra che - tanto più negli ultimi tempi - la gente per strada ci guardi strano… ci consideri vecchie, o che ne so… “fuori”… roba “diversa”, insomma.”
”Eulalia cara, lo sai: te l’ho detto più volte, te lo ripeto sempre: nessuno è straniero, quando ne conosci la storia. Nero, giallo, bianco o rosa. Bello o brutto, giovine o vecchietto, alto o basso. Nessuno è straniero, inutile, diverso, quando ne conosci la storia. E noi due, di storia, ne abbiamo da vendere.”
“Parli come una statista, Giò!”
“Sta’ zitta, che mi monto la testa.”
“Beh… statiste forse ancora no, ma delle gran… stradiste, questo sì!”
 ”Brum, Eulalietta bella!”
“Brum-Bruuum, Giò!”
”Andiamo?”
”Partenza, Giò!”
 
          - una terra promessa –


0 Comments

IL SALAME SUGLI OCCHI

16/12/2018

0 Comments

 
Foto
 Chissà perché alcune cose le capisci solo dopo i quarant'anni.
Mica che prima non le sapessi. No, non sto dicendo questo.
E' che è sempre solo l'esperienza, la miglior “professoressa”.
Aiutata da qualche buona lettura, of course.

Tipo il fatto che vivere è cambiare. 
Che quella “cosa” chiamata amore (mi piace paragonarlo a un continente, che ad ascoltare storie e vicende, casi umani e disturbi clinici, va da Madre Teresa a Rocco Siffredi) evolve, si trasforma, si interrompe, ti converte e capovolge, sometimes.

John Bowlby.
Si, l'ho veramente apprezzato solo dopo la mia quarta decade di vita.
Prima ero cresciuto nutrito a Sigmund Fred e cognitivismo, ben conditi da qualche lauta immersione nelle terapie strategiche di origine nordamericana. Poi riscopro questo inglese, con la sua disarmante concretezza. Il suo approccio etologico, cioè basato sull'osservazione naturalistica, lo studio del comportamento dell'animale e dell'uomo seguendo gli stessi criteri con i quali viene condotta la ricerca in altri campi della biologia. Senza partire da modelli filosofici o sovrastrutture interpretative a-priori.

Il concetto è semplice: si chiama Attaccamento.
L'attaccamento non è una scelta. E' un motore, una forza vitale che orienta tutta la vita degli individui. Innesca la ricerca della prossimità. Da quando veniamo al mondo fragili e indifesi, bisognosi di ogni cosa e di ogni cura, a quando ci innamoriamo e rendiamo quella persona la cosa più preziosa al mondo. Unica, irrinunciabile. Senza di lui/lei, ci par di morire. 

Poi di fatto giunge davvero, inesorabile e spietata per chiunque, l'ora della morte. 
Per chi amiamo, per chi ci ama. Per noi. 
Si, l'amore è una questione di sopravvivenza. 
Hai mica fatto caso come  espressioni del tipo: “Ti amerò per sempre”; “Non ci lasceremo mai”; “Me & You forever” contengano – tutte – una sfida all'eternità?

La sua opera principale, John Bowlby l'ha intitolata così: “Attaccamento e Perdita”. Medico, psicologo, psicoanalista. Tre volumi sul rapporto madre-bambino, che si rivela il paradigma dei futuri stili, anche nelle relazioni adulte di coppia: attaccamento sicuro, ambivalente, evitante.

Insomma, per farla breve, mi sono ritrovato tra le mani in questi giorni un libro, scritto da un veterinario comportamentista. Una rivelazione. Tra le pagine migliori che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi: “Anche gli animali amano” di Claude Béata. Un francese. Che poi sia anche sessuologo, lo si capisce seguendo le sue appassionanti descrizioni e considerazioni.

Tipo questa: 
“Allora, cerchiamo di riassumere: dopo l'alchimia dei primi secondi dell'incontro, eccoci qua. La connessione è stabilita. Vi state innamorando. Questa persona, qualche secondo fa ancora sconosciuta, vi sembra preziosa e differente. La sua voce, il suo odore, la forma delle sue mani, il suo sguardo vi fanno sentire bene come non mai (un  fiotto di dopamina invade il nucleo accumbens). E, anni dopo, sarete ancora capaci di descrivere ciò che indossava quel giorno, la sciarpa che aveva annodata al collo, ciò che aveva bevuto, il colore della carta da da parati  del luogo luogo in cui vi siete incontrati (è l'aumento del tasso di noradrenalina nei centri della vigilanza che vi rende ipersensibili al contesto e ai dettagli). Ma questo non basta a caratterizzare lo stato amoroso: bisogna anche diventare ciechi nei confronti dei difetti. Quella pronuncia blesa, il fatto che sia di bassa statura mentre a voi piacciono gli spilungoni, le dicerie che vi sono giunte all'orecchio, tutto ciò che avrebbe dovuto essere redibitorio sparisce semplicemente (il tasso di serotonina è crollato nelle zone corticali dello spirito critico). Eccovi ipnotizzati da questa voce calda, da quegli occhi di velluto, da un profumo che per anni risveglierà il vostro desiderio, da una pelle che siete sicuri sarà dolce al tatto (sensibilizzati dalla dopamina, i recettori dell'ossitocina adesso sono stimolati e cominciano a stabilire il legame).  Vi sentite bene, euforici e ciò sarà ancor più vero dopo aver fatto l'amore, se non sarà successo nulla che guasti la festa (l'ossitocina e le endorfine si associano in quel momento). A partire da questo istante, eccovi agganciati! E non uso questa parola a caso: le endorfine, lo sapete, sono degli analoghi endogeni della morfina,della famiglia dell'eroina. Dal momento in cui siete di nuovo soli, non avete che un'idea in testa: ricominciare, ritrovare colui o colei il cui contatto scatena questo stato di beatitudine, la cui assenza provoca un dolore”.

Nel corso del tempo, l'innamoramento tende a sfociare nell'attaccamento. Mica si può restare drogati tutta vita, no? O meglio: anche qui, l'assuefazione e la tolleranza  (fenomeno per cui l'individuo consumatore deve aumentare progressivamente la dose per ottenere lo stesso effetto) la vincono. 
L'attaccamento ha un orizzonte, che è il distacco. La fascinazione della madre per il bimbo piccolo, l'annichilimento dello spirito critico per gli innamorati: tutto ciò ha un termine che corrisponde all'accesso alla maturità dopo l'adolescenza, per il ragazzo; alla transizione riuscita tra due forme di relazioni positive (l'innamoramento prima, la stabilità dell'amore emozionale, poi), per le coppie di lungo corso. 

La sai quella del trentesimo presidente degli Stati Uniti che si reca in vistita con la First Lady a una fattoria sperimentale patrocinata dal governo? Un fatto realmente accaduto,  mica no. Calvin Coolidge, si chiamava. Da qui, quello che in psicologia viene denominato, appunto, l'”effetto Coolidge”. La storia vuole che la moglie di questo importante personaggio notasse un gallo che si accoppiava molto frequentemente. Chiedendo al fattore quanto spesso avvenisse il fatto, le venne risposto “dozzine di volte al giorno”. “Lo dica al signor Coolidge,” replicò la First Lady. Il Presidente, informato della cosa, chiese a sua volta: “Ma ogni volta con la stessa gallina?”. “No,” rispose il contadino, “ogni volta con una gallina diversa”. “Lo dica alla signora Coolidge!” disse il Presidente. 

Vabbè, per oggi ne ho scritte abbastanza.

     - ah, la felicità -

0 Comments

SORRISI e CANZONI, DI PIÙ

1/12/2018

0 Comments

 
Foto
Lo sai perché le lancette degli orologi, nelle pubblicità, segnano sempre le 10,10?
No?

Prova a controllare in qualsiasi gioielleria o – se ti fa più comodo – cerca in qualche sito tipo Amazon o eBay.
Adesso, subito, nel medesimo display dove stai leggendo questo post.
Visto?

Il motivo, te lo spiega la Gestalt (che significa “psicologia della forma”). E' la posizione delle braccia aperte. E' l'espressione del sorriso.

Vuoi mai che, per invitarti all'acquisto del prodotto, l'immagine vada a solleticare gli angoli bui e tristi del tuo inconscio ove abitano le paure, le chiusure, la diffidenza sospettosa?
No, queste strategie lasciale ai politici del Quaquaraquà. Tipo quelli attualmente in auge.

Non mi metto a descrivere, adesso, le ragioni per cui fin dai primi anni del 1900, negli Stati Uniti, la psicologia è stata largamente utilizzata nel marketing.
Tutto sommato, le regole-base rimangono sempre le stesse: capire e soddisfare bisogni e desideri del proprio target; far leva sulle emozioni utilizzando storie e immagini che parlino al cuore e alla pancia; mostrare che altri hanno già acquistato quel prodotto o stanno già facendo quella cosa; dichiarare che ne rimane una disponibilità limitata o che la possibilità di ottenerlo a condizioni vantaggiose è solo per un determinato periodo di tempo, ecc...

No, non è questo che mi interessa, stasera.
Mi piace piuttosto pensare al fatto che la direzione verso la felicità è quella dell'apertura, non della chiusura. Si, come la storia delle lancette dell'orologio. Anzi, di più.

René Arpad Spitz. Austriaco naturalizzato statunitense. Si occupa dapprima di bambini ospedalizzati. Poi arriva a descrivere quelli che conosciamo come i “tre organizzatori” dell'Io: la comparsa del sorriso attorno al secondo mese di vita del neonato, la reazione di angoscia di fronte al volto di un estraneo all'ottavo, la comparsa del “NO” sistematico attorno ai due anni.

Cosa organizzano, di bello, questi comportamenti?
La struttura della personalità, hai detto niente!

La comparsa del sorriso (attorno ai due-tre mesi) segna il passaggio dalla sola necessità di soddisfazione dei bisogni istintuali alla percezione che “fuori” esiste un mondo: il principio di realtà inizia a funzionare.

La reazione di angoscia di fronte a un viso che non sia quello della madre o di una figura nota, attorno all'ottavo mese, segnala una prima capacità di riconoscimento e di discriminazione tra figure “sicure” e quelle che non lo sono (tutti gli altri).

Il “NO” eretto a sistema (due anni, circa) si basa su alcuni riflessi innati, tipo quello cefalogiro (il bambino si dirige o allontana verso il capezzolo del seno o il biberon a seconda della propria fame o sazietà). Nello stesso tempo il “no” costituisce la prima acquisizione concettuale puramente astratta del bambino: gli consentirà l’accesso al mondo simbolico, come le parole che progressivamente va conoscendo e acquisendo.

Certo, chiunque sia diventato genitore per aver messo al mondo dei figli propri, o adottando un bimbo destinato all'insignificanza, che è la stessa cosa, sa bene quanta pazienza occorra al mestiere.

Quanto più efficaci risultino i sorrisi (“rinforzi positivi”, li chiamano i comportamentisti) rispetto alle sberle e alle “messe in castigo”.
Come sia arduo, talvolta, affrontare, gestire, rassicurare ed educare questi benedetti “NO” che i bimbi producono, per partito preso...

Penso a come, in fondo, tutti noi veniamo al mondo grazie a una scintilla.
D'amore, di passione, d'incoscienza o tutte queste cose miste assieme, che scattano - chissà come e perché - tra un uomo e una donna.
Una sfida all'estinzione della specie. Alla sterilità.
Alla morte, per dirla tutta.

Nasciamo programmati all'apertura, alla propulsione, all'espansione.
Al sorriso, alle braccia aperte.
Poi dobbiamo attraversare le crisi (“crisi” = “passaggio”) della crescita. Che significa sopravvivere a qualche frustrazione. Utilizzarla come materiale di costruzione. Imparare dalle difficoltà. Sfuttarle per affinare intelligenza, intuito, sensibilità. Cuore e sentimenti, magari.

Invece qualcuno non ce la fa, e si lascia ghermire dalle paure, dall'ansia, dal panico sociale.
Dallo spavento di fronte alle diversità.

Come dici?
Che ci sono mestieranti specializzati in questo senso, e pure prendono voti alle elezioni, in tempi di crisi economica e sociale?

Beh, non è una novità. Pensa che Hitler, nel 1943, è andato al potere con il 43% dei consensi.
Sfruttando esattamente – Goebbels docet – questi meccanismi.

Qualcuno si accontenta di questo. Gli basta così.
Tu, invece, hai capito perché a me piace, la pubblicità dell'orologio?

https://www.youtube.com/watch?v=MamyDyLlAeY


0 Comments

BOTTE DA ORBI

15/9/2018

0 Comments

 
Foto
Non ero mai riuscito a capire come i pugili non ce la facessero a rialzarsi, sia pure dopo un titanico fendente che li aveva fatti stramazzare al suolo. Pensavo fosse una finzione, più o meno cinematografica. Davvero.

Hai presente Maggie, in "Million Dollar Baby"?
Li stende tutti, in pochi istanti. Poche zampate, di quelle giuste, magari sul naso, e l'avversaria a terra, senza scampo. Immobile. Stordita. Fessa.
Fino a quando incontra Billie, "The Blue Bear".
Il finale è tragico. Il film, magnifico.

Si, credevo fosse tutta una sceneggiata.
Fino a quella volta in cui, incespicando sugli sci, ho battuto la testa, cadendo sulla nuca.
Per fortuna avevo il casco.
È una brutta sensazione, decisamente.
Il cervello invia l'ordine: "Rialzati!". “Subito!”.

Le gambe non rispondono. Se ne infischiano, altamente.
Deve passare un po' di tempo. Quello necessario alle vie neurali per riconnettersi.

Lo spiegano così: quando la testa è soggetta a una accelerazione molto violenta, il cervello, che non è “fissato” nella scatola cranica, oscilla leggermente e questo provoca un rilascio massiccio di neurotrasmettitori. Se il trauma è abbastanza forte, le aree cerebrali interessate sono talmente tante da provocare un sovraccarico per il lavoro del cervello che fa quello che fa un computer quando si imballa: riparte dopo un "reboot”.
Durante questo reboot il cervello è sostanzialmente incapace di gestire qualunque cosa non sia completamente automatica come il respiro o il battito cardiaco: in particolare l’equilibrio e il tono dei muscoli volontari vanno a farsi benedire e crolli, come un sacco di patate.

Da certe botte ti rialzi, e tutto sommato passa presto.
Altri colpi rimangono dentro più a lungo.

Alcuni, addirittura, riaffiorano.

Lo si chiama PTSD.
“Disturbo Post Traumatico da Stress”, nella dicitura italiana.
L’American Psychiatric Association (APA) dà un elenco dettagliato dei sintomi che lo costituiscono. Compaiono solitamente entro tre mesi dal trauma. In qualche caso anche più tardi. Sono classificabili in tre categorie:
• episodi di intrusione: le persone affette da PTSD hanno ricordi improvvisi che si manifestano in modo molto vivido e sono accompagnati da emozioni dolorose e dal ‘rivivere’ il dramma. A volte, l’esperienza è talmente forte da far sembrare all’individuo coinvolto che l’evento traumatico si stia ripetendo.
• volontà di evitare e mancata elaborazione: l’individuo cerca di evitare contatti con chiunque e con qualunque cosa che lo riporti al trauma.
• ipersensibilità e ipervigilanza: le persone si comportano come se fossero costantemente minacciate dal trauma.

Se ne esce?
Certo che si.
Con i rimedi giusti.
Qualcuno con cui parlarne. Nel contesto appropriato. Si chiama "elaborazione del trauma" .

Anche con un sostegno farmacologico, quando serve.

Ah, e con un pizzico di ironia, magari. Che non guasta mai, anzi.

La sai quella del tizio che doveva sottoporsi a una rischiosissima operazione chirurgica, per la quale il tasso di sopravvivenza era di un paziente su cento?
Si reca – al terror panico – dal chirurgo che, con fare serafico, gli fa:
“Caro signore, stia sereno”.
"Come, stia sereno: il tasso di sopravvivenza a questo intervento è di un paziente su cento!".

“Stia assolutamente sereno, le dico: ne ho operati novantanove questo mese, e sono tutti morti”.

- todo pasa -

0 Comments

E SCUÒE ALTE (HIGH SCHOOL SUPERLATIVES)

4/9/2018

2 Comments

 
Foto


Alla cassa per il pagamento automatico, ospedale di Piove di Sacco.
Una banale rx toracica, niente di che.
La solerte signora di una certa età, volontaria, sicuramente pensionata o ex-casalinga a buon punto nel percorso junghiano di individuazione verso l'Eroe, si spende a spiegare al paziente che mi sta davanti la procedura che prevede lettura ottica del codice a barre - inserimento del contante o della carta di credito - digitazione del pin.

Ma chi l'ha detto che questi “immigrati digitali” risultino meno valenti dei nativi?

Che poi, quando ti rechi all'ospedale “sotto casa”, e in aggiunta hai un fratello farmacista, i tempi di percorrenza – al minimo – si quadruplicano. Trovi mezzo mondo, che ti conosce. E ti ferma. E ti racconta.

Ecco, dovevate vedere l'espressione nella faccia del quarantenne - probabilmente un rappresentante purosangue dell'indigeno medio – quando ha appurato basito che i consigli della nonnina funzionano davvero! Che l'aveva tolto d'impaccio, come per magia!
“Siora, pare quasi che ea gàbia fàto e scuòe alte, ea!”

Niente, mentre aspetto che la febbre scenda, sorrido divertito di fronte ai paradossi dell'esistenza.
Mi piace pensare con quanta facilità, non appena ci troviamo in situazioni di bisogno (qui il vernacolo del profondo veneto prevederebbe un'altra espressione, molto più pregnante, epperò la netiquette che adotto nei social me la impedisce) tante categorie di giudizio semplicemente si rovescino.
Sulle persone, sul mondo, sulla politica.

Ricordo quanto ho letto in un post di un amico musicista (uno di quelli bravi, ma bravi davvero, e meritatamente famoso, per questo) quando scriveva che la cosa più probabile che ci possa capitare è di morire su un letto dove se n'è appena andato un albanese, magari assistito da una badante rumena, curato da un medico del Camerun.
E allora in quel momento, anche ricordando De Andrè, sarà una sola la parola che ci uscirà di bocca, forse con l'ultimo fiato.
Non saranno quelle idiote, trasudanti risentimento ed egoismo, che si leggono in certi post.
No, non saranno quelle.

Sarà una sola: “aiutami”.
“Aiutami”.

E qui mi fermo, un po' perché la febbre sta salendo di nuovo, un po' perché è sempre e solo l'esperienza che insegna. Non i discorsi o le orazioni via social, come questa mia.

“Usus Magister Egregius” diceva Plinio il Giovane, avvocato, scrittore e magistrato romano.

Come dargli torto?

- un viaggio incredibile -


2 Comments

E I MARO'?

29/7/2018

0 Comments

 
Foto
La scena, è quella vissuta mille volte.
Due bimbi, un giocattolo nei pressi.
I mocciosi giocano a qualcosa. Non importa cosa.
A un certo punto, uno adocchia un balocco, finallora inosservato.
Ci corre incontro, se lo acchiappa.
Solo a quel punto l’altro piglia a frignare - più forte e stridulo se d'intorno scorge un adulto - dando stura alle lagne:
“Perché lui sì e io no?”
“Maestra, l’ho visto prima io!”
“Prima i Vittorianiiii !”
(Vittorio è il nome di battesimo del frignante, l’altro all’anagrafe fa Italo, ndr.)
 
Ecco, ho appena finito di scrivere la ndr., che il marmocchio con il giocattolo in mano, ben stretto e saldo, principia a rivendicare:
“E-allora-gl'Italiani?”.
 
L’invidia è il desiderio, patologico e senza età, di possedere ciò che ha un’altra persona, non per le qualità di quel bene, ma semplicemente perché è dell’altro.
In psicanalisi, Jacques Lacan lo descrive come una delle declinazioni del Desiderio: il desiderio invidioso. L’oggetto (automobile, casa, vestito, smartphone-ultimo-modello) non ha valore in quanto tale, bensì perché goduto da un altro.
Che, per ciò stesso, si trasforma in rivale.
Una guerra tra poveri (nevrotici), molto spesso.
 
Nel linguaggio giornalistico, con be·nal·trì·ṣmo si definisce l'atteggiamento di chi elude un problema sostenendo che ce ne sono altri, più gravi, da affrontare.
 
L’esperienza clinica fornisce quotidianamente conferma su quante persone siano sempre più sole e inseguano frustrate la propria autoaffermazione, senza dar valore al legame con l’altro.
«La psicoanalisi insegna che dietro il gesto di Caino che uccide Abele c’è Narciso: l’invidia, cioè, nasce dall’attaccamento eccessivo al proprio Io. Per chi è infatuato di sé, l’altro crea disturbo e genera aggressività», ricorda Massimo Recalcati.
 
Si, è vero: talora sono condizioni oggettive di bisogno, di povertà, a generare l’invidia.
“Una sedia a rotelle fatta viaggiare a una velocità ingovernabile”. Così Lacan raffigurava un'economia non-sostenibile, che già cinquant'anni fa considerava destinata fatalmente a scoppiare.
 
Ma davvero l’esito obbligato di tutto ciò è inevitabilmente l’astio, l'odio, l’invidia rancorosa?
 
Mio padre, che negli anni ’60 del secolo scorso - quelli del boom industriale - ha fatto fortuna come imprenditore, dopo essere partito come semplice operaio alla “Torpado”, la fabbrica di biciclette, mi raccontava spesso della sua infanzia.
Di come mio nonno, fattore agricolo nella campagna veneta, rimasto improvvisamente senza lavoro, rammendasse silenziosamente e di nascosto di notte, con pezzi di cartone, i buchi nelle suole delle scarpe dei tre figli. Perché al mattino potessero camminare fino a scuola. Mi raccontava, mio padre, delle scarse fettine di salame tagliate con religioso scrupolo dalla nonna, tutta la famiglia in silenziosa attesa attorno alla tavola. Poca polenta, e così sottili e trasparenti, quelle fettine, “che ci vedevo la faccia di mia sorella dall’altra parte”.
Gli anni della guerra, della miseria, della fame, sì.
Eppure un posto a tavola lo si trovava sempre, per chiunque, se necessario.
Sfollati dalle città, causa le bombe. Fuggivano da distruzione e morte.
O i reduci dal fronte, sulla via del ritorno a casa, in lunghe file a piedi, una volta che i combattimenti ebbero a cessare.
 
Si chiamava solidarietà.
Si chiamava consapevolezza di quanto preziosa fosse la libertà.
Tanto quanto il cibo, forse più.
 
Ben l’aveva sperimentato l’altro mio nonno, Remo Rossi.
Gestore di una bottega di “casoìn” (alimentari, in dialetto veneto) in un paesino chiamato Bronzola, frazione di Campodarsego, provincia di Padova. Catturato in un rastrellamento dai fascisti, per rappresaglia, assieme ad altri nove.
E a mia mamma, allora una ragazzina undicenne, che si era aggrappata ai pantaloni del padre mentre lo portavano via, urlando tutta la sua disperazione.
Li hanno tenuti chiusi, gli uomini, per dieci giorni nella caserma di Camposampiero.
Li avrebbero fucilati, tutti, se i partigiani non avessero rilasciato colui che avevano catturato.
 
Che bene prezioso, la libertà di pensiero e di espressione. La libertà di usare la propria testa. Di dissentire con un regime fatto di arroganza e protervia, di squadrismo vigliacco e bullista che avrebbe portato, nel giro di pochi anni, l'Italia allo sfacelo civile ed economico. Alla sconfitta politica e umanitaria.
 
Si, una brutta bestia, il benaltrismo. Un suicidio dell’intelligenza.
Eppur virale, quando alla solidarietà e alla fratellanza si sono sostituiti il narcisismo e lo sterile culto delle apparenze.

Quando la spinta al godimento diventa compulsiva e non conosce limiti, quando l´avidità non ha più fondo, è la stessa idea di comunità che viene meno. Per dirla in termini psicoanalitici, è la pulsione di morte che prevale e travolge la dimensione del legame sociale.

Uno strumento eccellente, oggi, il benaltrismo, per il qualunquismo populista. Che così da vicino riprende la retorica comunicativa che fu l'arma tossica e letale del ventennio fascista.
Come di ogni totalitarismo, del resto.
Sono nomi precisi, oggi, quelli delle agenzie generatrici di fake-news date in pasto a quegli utenti (o “webeti”, come li chiama Enrico Mentana) che le condividono senza il minimo senso critico: Sputnik News Italia, legata ai sevizi russi di dis-informazione, per citare una delle più attive sul fronte politico, o le varie WasArrested, Channel23news, Fakelot, Clonezone,  Fodey, BreakingNews Generator che consentono a chiunque di confezionare “ad hoc” pagine dalla veste giornalistica credibile, qualunque sia il livello di falsità o calunnia inseritovi.

Il be-nal-tris-mo mi ricorda anche un ingenuo giochetto non-sense che ci si divertiva a fare all'età delle scuole medie, quando volevi prendere in giro le ragazzine - fingendoti più intelligente - e chiedevi loro: “Ascolta, bellezza: corre più forte il treno, o è più bianco il latte?”
Inutile dilungarsi su come finisse la scenetta, non appena la graziosa superava l'attimo di smarrimento, dietro quegli occhioni basiti.
Male, finiva, decisamente molto male.
Finiva che partivi credendoti figo, e finivi sapendoti “mona”, per usare il termine veneto più pertinente, seppur non sempre traducibile in lingua italica con univocità di significati.
 
Ah, sai cosa mi ripete sempre mia mamma, che di anni oggi ne ha ottantasei?
Così, mi dice:
“Se mi chiedete qual è stato il giorno più felice di tutta  mia vita, quello in cui ho provato la gioia più grande di tutte,  è stato quello in cui ho visto arrivare i carri armati americani nelle strade di Bronzola. Eravamo tutti pazzi. Pazzi di gioia”.
​

    - non farti cadere le braccia -

0 Comments

FOOTBALL CLUB

16/7/2018

0 Comments

 
Foto
Avevo poco meno di quarant'anni. Quell'età in cui tutto l'arsenale di energie, motivazioni, soddisfazioni lavorative e traguardi a-un-passo-da-conseguire ha i colori di un mezzogiorno siciliano. 
Li vedevamo passare alti, quei cacciabombardieri. Dalla spiaggia di Jesolo, nitidi e tridimensionali, come il rombo di tuono dei loro reattori. Era il 1998, e la Francia di Zinédine Zidane stracciava in finale un Brasile orfano del miglior Ronaldo. Universalmente, il "Fenomeno". Che viceversa era parso ubriaco, a vederlo scendere barcollando dalla scaletta di quell'aereo. 

In Italia – as usual - le tifoserie si dividevano tra chi asseriva giusto mandare le bombe a fermare gli scempi delle bande paramilitari di  Ratko Mladic  e Radovan Karadzic, altrimenti inarrestabili nel loro genocidio; altri si stracciavano le vesti, in nome di sforzi di pace impotenti - oramai - a fronte delle fosse comuni di Srebrenica, al meno che animale assedio di Sarajevo, alla cinica roulette omicida degli " snipers", i cecchini sui tetti degli edifici. 

Le  realtà umane sono ambivalenti. Sempre. Dentro, e fuori. Non c'è esperienza sulla terra che non possa  venire osservata, valutata e compresa da almeno due punti di vista diversi. Talora antitetici. 
Sondaggi recenti rivelano che il 50% dei serbi non ritiene siano stati commessi crimini da parte delle forze jugoslave durante i conflitti balcanici degli anni '90, e ben due terzi degli intervistati ritengono Mladic e Karadzic eroi patriottici. 

Il guaio è che il mito nazionalista, come quello della purezza razziale, corrisponde a strutture  di personalità malate, dal punto di vista psicanalitico.
Se nella xenofobia (cioè l'avversione indiscriminata nei confronti degli stranieri e di tutto ciò che proviene dall'estero)  il Desiderio è trasformato in ostilità, nel razzismo l'altro è privato dell’interesse erotico, affettivo e mentale che normalmente si rivolge a un proprio simile. Nel razzismo, anche nella variante inconsapevole del “Io non sono razzista ma...” l'altro-uomo viene ridotto a una condizione di indesiderabile alienità animale, impostagli come costitutiva, congenita.

A livello comunicativo e di propaganda, poi, il gioco è facile. In condizioni socio-economiche di recessione, dove il benessere di qualche anno prima non risulta più disponibile, diventa virale diffondere paura e insicurezza. Adolf Hitler nel marzo del 1933 ha preso il potere con il 43,9% dei voti. Una settimana prima un incendio aveva distrutto il Reichstag, il parlamento tedesco. L'episodio, architettato ad arte dai nazisti, serviva esattamente allo scopo di  ottenere un nemico cui contrapporsi con la “forza”. Incolparono un balordo “comunista”. Giustificarono poi la necessità dell'annullamento delle libertà democratiche, di espressione e di opinione. 
E tutto il resto che ne seguì.

La strategia del creare  un persecutore ad-hoc, un “invasore”, funziona sempre. 
In questo meccanismo, i soggetti più fragili e immaturi (un noto giornalista, utilizzando il suo linguaggio non-psicologico ma probabilmente più efficace, li chiama gli “imbecilli”) costituiscono territorio fertile per inoculare il dispositivo paranoide:  "La colpa è loro!” “Addosso!” “Tutti a casa!” “Sputtaniamoli tutti”.

Oggi, giusto vent'anni dopo, scorro i volti dei  ragazzi che ieri si sono combattuti la finale della Coppa del Mondo, edizione 2018. Mi mettono simpatia. 
Mentre quei bombardieri attraversavano i cieli sopra l'Adriatico stavano nascendo.
​O tiravano i primi calci ad un pallone, in qualche cortile o angolo di mondo.

Quelli in casacca biancorossa: più di qualcuno ha una storia di profugo, esiliato, sfollato alle spalle.
Che grinta, che determinazione. Hanno dominato la gara, specie nella prima parte, anche se alla fine la partita l'hanno persa.

Gli altri, probabili futuri eroi di una mitologia moderna,  attuali alfieri della nazione che ha prodotto gli ideali illuministitici della Libertà, Fraternità e Uguaglianza. Verrà loro conferita  la Legione d'onore.
Perlopiù figli di un'Africa che ha trovato accoglienza, integrazione, sviluppo e successo nel cuore di Madre Europa. 

Un pensiero mi passa per la testa. Che più di qualcuno di questi ragazzi, prima di diventare così bravo a rincorrere una palla e spedirla in rete, in qualche modo ha prima dovuto imparare a scappare.
Che loro, o i loro genitori, una qualche forma di “fame” (ma sì, oggi ci piace chiamarla “motivazione”, o “stimolo”) l'hanno sperimentata. 
Di necessità.

Come diceva, quel californiano?
“Stay hungry, stay foolish”?

 - ebony and ivory -

0 Comments

LA BELLA VITA

2/6/2018

0 Comments

 
Foto
Che meraviglia.
Questo sto pensando, scalando il sentiero nel bosco.
La natura, che si rigenera.
Sempre nuova, eppur eternamente uguale a se stessa. 
Gli aghi dei pini che si aggiungono ai precedenti. Li sorpassano. Li scavalcano.
Più chiari, luminosi: segno della linfa nuova.
​Freschezza, forza, energia indomabile.
Come la pelle dei neonati.
Come i capelli delle ragazze di vent'anni.
Belli, si.

Ma che fatica, sto sentiero... non me lo ricordavo così ripido.

La cosa che più mi piace di questi sempreverdi è che non distruggono le parti che li hanno preceduti. Vi crescono sopra, semplicemente.
Con gratitudine, mi verrebbe da pensare.
Senza il tratto di ramo precedente, nemmeno potrebbero stare al mondo.
Non sentono il bisogno di demolire, aggredire e criticare per partito preso, come capita agli umani.

Un pensiero balzano - che sia per via del fiatone, mentre “combatto” contro la pendenza? - mi si affaccia alla mente. 
Me lo ispira un saggio di Steven Pinker, docente di psicologia cognitiva a Harvard, che ho letto ieri. Dati alla mano documenta come - contrariamente a quanto si pensi - il rischio di morire per mano di un proprio simile è statisticamente 60 volte inferiore rispetto al Basso Medioevo. Democrazia, libertà di espressione, diritti delle donne sono state tutte conquiste che hanno dimostrato la loro efficacia nella pacificazione della società.
Eppure la demagogia ha gioco facile nel rappresentare i rischi indotti dallo “straniero”, dal “burocrate”, dalle “lobbies” complottiste. Si tratta di un'illusione psicologica, evidenziata dai lavori di Daniel Kahneman, nei quali è stato dimostrato che valutiamo la probabilità di un'avvenimento in funzione della facilità con cui riusciamo a rappresentarcelo mentalmente. Vedi gli incidenti aerei: quando un aereo si schianta veniamo ricoperti da un diluvio di immagini, molte di più rispetto agli incidenti stradali che mietono un numero enormemente superiore di vittime. Così il nostro cervello si riempie di scene terrificanti riguardanti le cadute degli aerei, mentre non ci facciamo spaventare dall'idea di salire in automobile.

E allora mi scappa un sorriso.
- non ho detto gioia -

In mezzo al fiatone, si.
Poi penso a come siamo diventati un po' tutti “leoni da tastiera” che sfogano l'aggressività sui Social  con una violenza verbale a volte parossistica, quando invece a quattr'occhi, a distanza ravvicinata, saremmo persone mansuete e incapaci di far male a una mosca. 
E, come ricorda Marco Cattaneo nell'editoriale dell'ultimo “Mind – Mente & Cervello”, l'anonimato, l'assenza di emozione della parola scritta, la distanza fisica e psicologica siano tutti fattori che rendono gli scambi più impersonali, e più bellicosi.

Già. 
Come la disponibilità a lasciarsi sedurre da promesse irrealizzabili e aspettative di pura illusione.
Epperò funzionali a ciò che piacerebbe sentirci dire.
Ma questo pensiero lo spengo, subito. 
Altrimenti mi vien da girarmi, e tornare giù subito, in discesa.

Come dici? 
Sarebbe più facile?

Hai ragione.
- non ho detto gioia -

https://youtu.be/s-rulfPyxuM

0 Comments

TAGLIARSI LE VENE

28/5/2018

0 Comments

 
Foto
Si, è un comportamento diffuso. 
In adolescenza, l'indice di prevalenza delle condotte autolesionistiche (significa: la diffusione statistica del fenomeno) è del 15-20%, con un'età di esordio attorno ai 13-14 anni.
I curatori della quinta edizione del DSM (Il manuale descrittivo dei sisturbi mentali, American Psychiatric Association, 2013) hanno deciso di inserire nell’ultima edizione le categorie diagnostiche di “Autolesionismo non suicidario” (NSSI: not suicidal self injury) e “Autolesionismo non suicidario non altrimenti specificato” (NSSI-NAS) nella categoria dei disturbi diagnosticati generalmente per la prima volta nell’infanzia, fanciullezza e adolescenza.

La domanda – inquietante – è sempre la stessa: perché i ragazzi si fanno del male? 
Se si chiede a uno di questi adolescenti perché si tortura così, tramite ferite autoinferte, per incisione e scarificazione, egli generalmente ha difficoltà a rispondere, salvo dire che in fin dei conti tutto ciò lo consola. Mentre il successo sociale, scolastico e relazionale è sempre labile, provvisorio, aleatorio - come del resto tutto quello che nella vita dipende dalla risposta degli altri - il dolore e la sofferenza provocati dall'autodistruzione sono sempre a portata di mano. 

Ecco come si svela, in un'ottica psicanalitica, l'apparente paradosso: per il suo effetto consolatorio e rassicurante. Rassicura e conforta il fatto che l'Io ritrovi un ruolo attivo di fronte alla minaccia di essere sopraffatto dagli altri. (Ovviamente, se qualcuno cercasse di imporre all'adolescente le sofferenze che si infligge da solo, egli si ribellerebbe con tutte le sue forze).

Il terreno di coltura per tutto ciò, a livello psicologico-evolutivo ma potremmo ben dire anche nella sfera socio-politica, è il monte di delusioni accumulate, proporzionali all'intensità del desiderio sottostante.
“Meglio farsi del male da soli, che temere l'aggressione degli altri”. 
Erik Erickson la definiva “identità negativa”. Negativa, ma pur sempre un'identità. 

“Chi trova un NEMICO trova un tesoro”, quando l'Io è fragile, non dimentichiamolo. 
Per certuni l'unica forma di autoaffermazione è l'insultare e accusare qualcun altro. 
Cercare “la colpa” sempre all'esterno da sé, sviluppando quel senso paranoide di persecuzione che tanto serve a rammendare brandelli di autostima inesistente e gradi di insicurezza che non di rado sfociano in debilitanti sintomatologie di ansia e panico.

Freud ben spiegava come il masochismo contenga una componente erotica, legata cioè al Principio del Piacere: l'autolesionismo lenisce la sofferenza, come una vera e propria anestesia delle emozioni. Paura, tristezza, angoscia vengono cancellate dalla sensazione corporea (fame nell'anoressia, dolore fisico nelle automutilazioni) in una spirale che conduce a forme di dipendenza, quasi inestricabile.

Personalmente credo che un elemento ancora più forte riesca a spiegare come mai – anche a livello adulto, anche a livello relazionale e sociale – talvolta abbracciamo la logica del “tanto peggio, tanto meglio”: il bisogno di autocontrollo, di guadagnare una posizione attiva. 
L'uso contemporaneo dei Social, dove anche gli analfabeti ritengono di poter disquisire indifferentemente e con competenza di epidemiologia, diritto costituzionale, fisica nucleare e logiche di finanza, lo sta a dimostrare. In questo caso non entra in gioco il piacere, né tantomeno un progetto di crescita esistenziale, o politico, o relazionale. In gioco c'è solo il bisogno compulsivo di un'autostimolazione per sentirsi vivi.

Per un adulto che vive vicino a un ragazzo in età evolutiva (genitore, educatore, allenatore...) è talvolta difficile capire le motivazioni sottostanti ai comportamenti autodistruttivi. Sconcertano, non di rado irritano, indispongono. E' necessario comprendere che non si tratta di una scelta volontaria, contrariamente a quanto crede l'adolescente. 
Autoinfliggersi delle ferite, ribellarsi all'autorità scegliendo la via dell'indipendenza, talvolta dell'isolamento, protestare “contro” a prescindere, negando ai propri stessi occhi il fatto che senza supporto e dipendenza (fisica, economica, di tutela) non si sopravvive, sono tutte manifestazioni comportamentali utili a sentirsi vivi e soffrire (emotivamente) un po' meno.

Tocca a noi adulti non lasciare gli adolescenti prigionieri di queste condotte compulsive e coatte, stereotipe e ripetitive. Tocca ai padri proporre dei fermi “NO” assieme a interminabili occasioni di dialogo, proposte alternative di espressione del disagio (la musica, l'arte, lo sport...) e soluzioni utili a riconquistare fiducia in se stessi e negli altri.
Saranno (saremo) questi padri sufficientemente  forti e autorevoli? 
Carismatici, e pazienti?
Ce la possiamo fare.

 - tu sei buono e ti tirano le pietre -

0 Comments

GUARDA CHE NON SONO IO

25/2/2018

1 Comment

 
Foto
Si, è tempo di promesse. 
Sarà tutto nuovo, tutto diverso, tutto migliore!
Parlo delle prossime votazioni politiche nazionali, ovviamente.

Chi cerca di apparire forte seminando paure, al vento. 
Raccoglierà tempesta, certamente, ma per adesso i più ingenui ci credono. 
I più frustrati, i più poveri. Non solo di “soldi”: più spesso di umanità, di cultura, di senso critico. 
I più bisognosi di sicurezza. Quella che non trovano o non mai hanno costruito dentro di sé. 
Quelli che hanno bisogno di sentirsi dire “un cattolico per chi deve votare”. 
Miserere.

Altri si regaleranno un pugnetto d'anni di “eroica” opposizione. 
Grandi ideali, zero potere. 
Zero probabilità di guadagnare un consenso sufficiente a governare, ma vuoi mettere come ci sia più gusto (e oltremodo più facile) limitarsi a denunciare, scandalizzarsi, protestare e stracciarsi le vesti cantando “Bella Ciao” piuttosto che assumersi la responsabilità delle scelte, delle decisioni a maggioranza (si chiama democrazia, Bellezza) dei tagli alle spese, necessari e inevitabili?

Dei piccoli farisei e della loro adolescenziale sindrome paranoide (le colpe sono tutte-sempre-solo degli altri) ho già scritto. A me, danno solo noia.

Si, il prossimo 4 marzo ci illuderemo ancora una volta di votare secondo valutazioni razionali.
In realtà, come ci ricorda Paul Ekman:
“L'emozione cambia i modi in cui gli individui vedono il mondo e interpretano le azioni compiute dagli altri. Le persone non cercano di opporsi alle ragioni per le quali provano una particolare emozione: cercano, piuttosto, di confermare la stessa. Si valuta ciò che sta accadendo in conformità con l'emozione che si sta provando.”
Questione di tifoseria, ancora una volta. 

Sono i classici argomenti che ritroviamo nei corsi di psicologia sociale, e psicologia della personalità. 
Il tema dei “decisori” inconsci nelle nostre scelte. 
Il tema dell'identità:
  • come sono
  • come mi vedo
  • come voglio mi vedano.

Per esprimere “come mi vedo” basta che mi metta allo specchio. 
In psicologia, che compili un questionarietto “self-report”. O autoriferito, per dirla in italiano. Comodo, facile, veloce. Anche al computer. Anche on-line. 
Il profilo che ne esce, è sempre accattivante. Nella forma, perlomeno. Istogrammi colorati, ranghi percentili. Come la statura che i pediatri misurano ai bambini.
Così capisci subito sei sei, ad esempio, “estroverso o introverso” nella media/sopramedia-sotto media. E così via, lungo diversi tratti di personalità. Leadership. O resistenza alla frustrazione; socievolezza; tendenza all'ordine e alla precisione, eccetera.

Il come (voglio) mi vedano, basta farselo dire da qualcuno. 
I politici, lo chiedono ai sondaggi.

Ma davvero, tutto ciò corrisponde al nucleo vero dell'identità, al “come sono” veramente? 
In profondità?
Gli psicologi usano tecniche perlopiù psicanalitiche, per ricondursi a ciò. 
Quelle dell'“Analisi dell'Io”. 

Un frate francescano, attorno alla metà del secolo scorso, ha sviluppato invece un metodo di conoscenza attorno ad uno dei più raffinati (e automatizzati) comportamenti tipici dell'essere umano: la scrittura. Il gesto grafico.
Si, sto parlando della grafologia. 
Nell'opinione più diffusa, una disciplina in bilico tra arti occulte e divinazione.
Viceversa, sottoposta al vaglio epistemologico (l'epistemologia è quella disciplina che si dedica alla valutazione dei fondamenti metodologici e alle strutture logiche della scienza) la grafologia si dimostra  una tra le più interessanti “scienze umane”. 
Evandro Agazzi, filosofo docente all'Università di Genova, ha fornito in quest'ambito contributi di rilievo. 

Il frate francescano si chiamava Girolamo Moretti. 
Visse nelle Marche, vivace territorio che attorno a Urbino ha visto svilupparsi i maggiori centri di studio del comportamento scrittorio, anche a livello di corsi universitari. 
“Tendenze sortite da natura”, così egli definì quei tratti di personalità che è possibile evidenziare dall'analisi dei segni grafici (ne contempla poco meno di un centinaio) e dalle loro combinazioni in “categorie” (la Pressione, il Calibro, le Larghezze, l'Inclinazione assiale, il Ritmo, l'Accuratezza, ecc...).

Cosa voglio proporvi adesso?
Un'analisi delle scritture dei vari “tromboni” politici in onda in questi giorni nelle piazze e negli schermi televisivi? 
Certamente no: per questo rivolgetevi a qualche buon grafologo. Ce ne sono, sempre più. Mi riferisco a quelli seri, formatisi con almeno tre anni di studio, pratica e tirocinio nelle scuole accreditate.

Voglio semplicemente dire, in primis a me stesso: non sarebbe bene guardare al di là delle maschere, delle apparenze, delle facciate, quando rivolgiamo a qualcuno il nostro sguardo, la nostra attenzione?
Sapendo che ciò che vediamo nella realtà, in fondo, è semplicemente ciò che vogliamo vedere, spinti da bisogni perlopiù emotivi?  
Tutto sommato, carnevale è finito da qualche settimana.

Cosa dici?
No? Non è possibile?
Ah, già, hai ragione: domenica prossima ci sono le elezioni.

https://www.youtube.com/watch?v=jE7A4c66DtE

1 Comment

GIU' IL SIPARIO

4/2/2018

0 Comments

 
Foto
La visita a una mostra di maschere lignee in un paesino montano durante le festività del carnevale - bellissimi volti caricaturali realizzati da artisti locali - mi riporta alla definizione di “persona” fornita da Jung: dal latino Persōna Persōnam, ovvero la maschera che gli attori indossavano durante le rappresentazioni sceniche. Un riflesso del personaggio interpretato dall'attore. Ne riprendeva i lineamenti, lo caratterizzava. Lo inseriva, appunto, in un ruolo. 
Jung definisce Persona il nostro aspetto esteriore, il nostro ruolo sociale, che regola le relazioni più superficiali. 

A ciò si contrappone l'Ombra. E' la nostra parte nascosta, talora rimossa. 
A volte viene percepita come un insieme di aspetti  inaccettabili  e avvolti  in  emozioni negative quali l’aggressività, l’invidia, la pigrizia, la gelosia, la vergogna. 
Molto frequentemente si tende a proiettarla su un ‘nemico’,  tentando così di neutralizzarla e magari combatterla: il diverso, l'immigrato, l'avversario politico...
Ciò non risolve alcunché, in quanto il nostro lato oscuro si farà inevitabilmente risentire, magari attraverso un sintomo nevrotico come una somatizzazione, uno stato depressivo, un attacco di panico, o cronicizzandosi in uno stile di pensiero fortemente paranoide.

L’unica possibilità di integrazione dell’ombra è che questa venga messa a confronto  con la propria coscienza. Ciò espone molto spesso a un conflitto. Ci si può trovare bloccati in un dilemma interno.   Scopriamo che le nostre proprie forze sono insufficienti a risolverlo razionalmente.

Un conflitto che viene sciolto  nel momento in cui  recuperiamo dentro di noi  la nostra etica. L’etica non coincide necessariamente con la morale. 
La morale è costituita da parametri esterni: religiosi, culturali, familiari, sociali, che sono stati introiettati e rimangono attivi dentro di sé.
L’etica invece, è la voce interna della coscienza, totalmente soggettiva, quella che Jung chiama  ‘vox dei’ o voce interiore. 
La voce interiore può essere parzialmente o anche totalmente antitetica alla morale, ma è ciò che corrisponde a quell’individuo nella sua specifica soggettività.

La pratica dell’etica richiede coraggio e maturità. 
Significa sopportare il peso del dubbio.  
Come scrive Jung: “il rischio dell’errore e a volte l’incomprensione del prossimo  ci può abbandonare alla solitudine. Tuttavia esso è un dovere irrinunciabile poiché si tratta di un valore interiore, la violazione del quale non è uno scherzo e ha, alle volte, gravi conseguenze psichiche”.

Il lato positivo è che l'integrazione dell’ombra porta alla liberazione di una grande quantità di energia e a potenziali creativi.
Insomma: se mettere la maschera è piacevole e talvolta necessario, guardare bene dentro se stessi, mettendo a nudo anche le parti di sé meno piacevoli, è addirittura vitale.

- Gotta Serve Somebody -

0 Comments

FACCIA DA LADRO

9/1/2018

0 Comments

 
Foto
Prendendo un caffè in un bar, l'altro giorno, lo sguardo mi è caduto sulla pagina di un libro aperto sul bancone. Un almanacco della serie "un pensiero al giorno". Generalmente non presto molta attenzione a queste frasi, invece quella in agenda era imperdibile:

“Un uomo aveva perduto del denaro, e pensò che l’avesse rubato il figlio del suo vicino.
Lo guardava e gli sembrava che il suo portamento fosse quello di un ladro, che la sua espressione fosse quella di un ladro, che tutti i suoi gesti ed i suoi movimenti assomigliassero a quelli di un ladro. 
Poco dopo, l'uomo ritrovò il suo denaro in una  canna da drenaggio di bambù. 
Guardò ancora il figlio del vicino e né i suoi movimenti né i suoi gesti erano più quelli di un ladro”


Insegnando Teorie della Personalità, spesso mi interrogo su questi temi, e mi piace sottoporli agli studenti a lezione. Suscitano sempre  grande interesse e dibattito.
La parabola di Lao Tsu contiene dei veri e propri “classici” della psicologia: il tema dell'attenzione selettiva, la formazione del pregiudizio, la categorizzazione tipologica.

Credo varrebbe la pena non trascurare mai una domanda a se stessi, quando formuliamo un giudizio o una valutazione sul comportamento altrui: qual'è il mio stato emotivo in quel momento?
Ovverosiacioè: quali bisogni, ne abbiamo sempre a quattro livelli: 

1. fisico
2. emotivo 
3. mentale
4. esistenziale/spirituale

stanno soffrendo perché non gratificati, in quel momento?

Risolvere prima queste questioni, migliora la vista.
Garantito.

- se sei brutto ti tirano le pietre -  

0 Comments

CHI SI VEDE

27/12/2017

0 Comments

 
Foto
Fuori nevica. Anzi, non smette.
Da ieri notte sta cadendo senza tregua, copiosa e abbondante. 
​
V'è per certo che se lo spazzaneve non girerà prima di sera, non ci sarà modo di tornare. 
Le strade sepolte da più di mezzo metro di coltre bianca, soffice come nuvole in quota.
Niente di grave: la stube è accesa, legna non manca.
I boschi d'intorno, quassù, ammutoliti come in un presepio, la notte di Natale.

Niente di meglio che questa cornice, isolata e amena, per riprendere in mano uno dei migliori  amici.
Un libro. Certe vecchie compagnie non tradiscono mai.
“Elogio dell'inconscio. Dodici argomenti in difesa della psicoanalisi”, di Recalcati.

Più che una difesa corporativa, la difesa di un'etica della responsabilità, di una teoria critica della società di cui ancora oggi ve n'è un gran bisogno. 
Con Freud, l'Io “non è più padrone in casa propria”.  
Nel senso che un'altra ragione esige di essere riconosciuta; lo spossessa dei suoi poteri, lo obbliga ad ascoltare una voce diversa: quella dell'inconscio. Un sapere che non ha nulla di mistico o di abissale, non è senza fondo. 
Semplicemente, è rivelatore infallibile della verità del Desiderio.

Alcuni passaggi sono lampi di luce:
“Uno degli insegnamenti capitali dell'esperienza analitica è che solo l'”impuro” sa genuinamente perdonare e provare autentica gratitudine perché può saper distinguere la gratitudine e il perdono da ogni forma di giudizio morale in quanto ha conosciuto, nella sua analisi, il reale del male come una parte di sé. I “puri” sono invece tendenzialmente supponenti, tendono a rigettare l'impuro nell'Altro, preferiscono difendere l'identità preziosa della propria persona anziché contaminarsi con l'esperienza del desiderio”.

Qual'è la caratteristica maggiore del desiderio freudiano?
La sua indistruttibilità.
Non può essere governato, misurato, addomesticato, esorcizzato.
Non può essere distrutto.

Tuttavia, a differenza dell'istinto animale, pulsionale, il desiderio umano non punta al suo soddisfacimento immediato, quanto alla realizzazione di legami, imprese, relazioni con l'Altro.

Il desiderio esige di non essere dimenticato, e il prezzo di questa dimenticanza si chiama sintomo.
In un certo senso, nella lettura di Lacan, il termine desiderio appare sovrapponibile a quello di “vocazione”.

Ok, lancio uno sguardo fuori dalla finestra.
Ormai è buio, tuttavia le ombre della sera non riescono a prendere il sopravvento sul chiarore di questa neve scintillante; basta la luce di un lampione, laggiù in fondo alla strada.
Specie a queste quote, l'aria sottile si stringe molto volentieri a braccetto con una minima scintilla o chiarore, godendo di una trasparenza che conosco solo in questi posti.
Forse assomiglia alla verità del linguaggio inconscio. 
All'inevitabilità di certi sogni, al sortilegio di alcuni lapsus. 
Al mistero di certe dimenticanze o atti apparentemente “impulsivi”.

Arde ancora qualche brace, nella stube. 
Vi getto un altro tronco, a ravvivare il fuoco.
​
Non so se desidero davvero passi lo spazzaneve, prima di notte.

​   - riders on the storm -

0 Comments

CHI BUFALA AVVELENA ANCHE TE

10/12/2017

0 Comments

 
Foto
Un ventisettenne, descritto come particolarmente introverso e isolato, compra di nascosto una quantità di Tallio - veleno topicida particolarmente tossico - con la deliberata intenzione di sterminare i propri familiari, nel suo delirio definiti “impuri” e fonte di tutti i mali. 
Riesce a farne fuori tre.

Un'agenzia russa di San Pietroburgo (l'ex Leningrado) diffonde ad arte fake news al fine di condizionare consultazioni democratiche in Europa e in Italia, ad uso dei partiti “antisistema”. 
Quelli del “mandiamoli a casa tutti”, del “ci hanno rovinati”, del “è tutta colpa loro”.

Dal 2015 la East StratCom, la task force messa in piedi dalla Ue per andare a caccia di bufale made in Russia, ha catalogato 3.300 false notizie diffuse in 18 lingue. 
Esempi? Il presunto referendum pronto per essere indetto in Irlanda all’indomani della Brexit,  la possibilità che una vittoria del sì al referendum nei Paesi Bassi sull’accordo UE-Ucraina avrebbe provocato una serie di attentati in Olanda, le improbabili dichiarazioni salvifiche di Putin sull'economia italiana, ecc...

L'ingenuo - altri usano il termine webete - beve.
Generalmente chiuso nella propria stanzetta, al di fuori di qualunque confronto o impegno politico diretto. Una sorta di godimento auto-erotico, spesso compulsivo, teso alla ricerca della “notizia” più velenosa di tutte. Più distruttiva, più accusatoria.

E poi distribuisce (oggi si dice: “linka”). 
Tramite copia-incolla, colto da un apostolico afflato al convincimento altrui.
Ben lungi dal premere prima un paio di tasti sul medesimo suo smartphone, giusto a titolo di verifica sulla verità e attendibilità di quanto sta per diffondere.
Cioè inquinando. Avvelenando. 
Attuando in tal modo una vera e propria “coazione a ripetere”. Tossicissima.

Cosa accomuna psicologicamente questi sorseggi di frustrazioni, appoggiati al collaudato meccanismo dello sguardo paranoide?

Lo sproporzionato potere che ha l'inquinamento, sulla pulizia.
La scandalosa facilità con la quale per uccidere un uomo basta un istante, mentre per costruire una vita, un'intelligenza, nove mesi più infiniti altri scalini da salire.
Per macchiare un candido  lenzuolo è sufficiente una cacca di mosca.
Per ammazzare un uomo - azzerare un'esistenza - uno stupido proiettile.

Il 1920 segna una svolta fondamentale nel pensiero di Sigmund Freud.
Sono gli anni successivi al terribile primo conflitto mondiale. Freud era troppo anziano per parteciparvi, ma non i suoi figli maschi: Oliver, Ernst e Martin. 
I primi due combatterono sin dall’inizio e per tutta la durata della guerra, mentre Martin fu richiamato in un secondo momento. Poi fu dato per disperso. In realtà era prigioniero in Italia; fu in seguito liberato, nell’Ottobre 1919.

Freud scopre in quegli anni che l'equilibrio psichico gioca su istinto alla vita (eros) e istinto alla morte (thanatos).
I due hanno pari importanza. 
L'uomo non cerca solo il piacere, ma in fondo agogna la propria morte come ritorno allo stato iniziale di non vita.
Cioè a quello stato “assoluto” da cui tutti originiamo.
Una sorta di nirvana orgasmico, la cui ricompensa sembrerebbe consistere nell'estinzione di ogni disagevole tensione.

Altri, dopo di lui, hanno descritto la spinta alla "felicità nel male" come animata da un desiderio di godimento che nella distruttività trova una forma di piacere.

Vivesse oggi, credo Sigmund non trascurerebbe certo i Social Network, oltre all'interpretazione dei sogni, i lapsus e gli atti mancati.
E forse, prima di una lunga psicoterapia, consiglierebbe come “rinforzo dell'IO” un semplice ordinario click a un sito tipo: “www.bufale.net”. 

   - cos'hai messo nel caffè -

0 Comments

SHOT MACHINE

4/10/2017

0 Comments

 
Foto
Un “signor nessuno” prenota un stanza d'hotel, al trentaduesimo piano.
Attende l'inizio di un concerto di musica country.
Si affaccia alla finestra.
Quindi dà avvio a una roulette russa sul piazzale sottostante, gremito di spettatori, a colpi di mitragliatore automatico.

Risultato: una sessantina di morti, qualche centinaio di feriti.
Dove?
A Las Vegas.

Come sempre ci si chiede: “Possibile nessuno si sia mai accorto di niente, prima?”

C'è una dinamica, che gli psicanalisti conoscono molto bene: il bisogno di controllo. 
Ha a che fare non solo con il disturbo ossessivo di personalità, ma anche con le più comuni forme d'ansia, generalizzata o nelle diverse varianti del timore panico.

Il gambling - o dipendenza da forme di gioco d'azzardo - rappresenta uno degli scenari più eloquenti dove tentativo di controllo e inesorabile perdita di esso si inseguono a ruota, capovolgendosi senza requie.
Con esiti devastanti, ben lo sa chi ne abbia a che fare. 
Personalmente, o per conto di qualche familiare.

Un signor nessuno (lo si fosse conosciuto almeno un terrorista, un pazzo certificato, uno spietato criminale anafettivo... nulla di tutto ciò) si consacra alla storia, al prezzo di decine di morti innocenti.

Vari le voci accorse a  spiegare l'inspiegabile, almeno con le categorie della razionalità: eccessiva facilità nella diffusione delle armi negli USA, cromosoma Y legato all'aggressività  maschile, letture giornalistiche e sociologiche degli eventi, più o meno verosimili.
Nulla di tutto ciò appare sufficientemente esaustivo - a dispetto della logica cartesiana e dell'etica aristotelica, come sempre - a spiegare l'inspiegabile. 

Dicono che tal signor nessuno fosse un frequentatore dei casinò, nella città del Nevada conosciuta come la patria del “divertimento”.
Un luogo dove il godimento abbraccia inestricabilmente l'autodistruttività.

Sembra di risentire la lezione di Lacan, quella a commento della “pulsione di morte” freudiana: 
il piacere (jouissance) attraverso il dolore, attraverso ciò che è contrario alla vita.
Un godimento maledetto. Al di là del principio di conservazione dell'esistenza.

Esempi eclatanti: la tossicomania, il masochismo, la ludopatia, il sabotaggio autolesionistico.
Una possibilità totalmente sconosciuta, nell'istinto animale. 
Appartenente in esclusiva alla specie umana. 
Alle dinamiche dell'inconscio, tipiche dell'homo “sapiens”.

Faccende di potere, di predominio.
Di controllo perverso, appunto.

Il signor nessuno è diventato qualcuno.
Con qualche centinaio di colpi - d'azzardo alla vita risultato la morte - si è reso indimenticabile.

Al mondo, alla storia. Al dolore.
Possiamo dirlo?
Alla ricerca di un senso.

    - blowin' in the wind - 

0 Comments

STASERA MI BUTTO

30/6/2017

0 Comments

 
Foto
Poche storie: se cerchi un compendio degli intrighi amorosi e la più varia rassegna dei comportamenti sessuali praticati dagli umani, non tuffarti in qualche serie televisiva americana o nelle incerte sfumature di un romanzetto anglosassone mainstream.
Punta dritto alla mitologia greca! 
Classico non delude, mai.

E' del 2009, questo luminosissimo museo ai piedi dell'Acropoli. 
Progettato nella ristrutturata versione attuale da un architetto svizzero, Bernard Tschumi, consente allo sguardo di balzare in un lampo dalle statue esposte ai piani direttamente al marmo pentelico dello splendido Partenone, e a quello dello sfavillante tempio di Atene Nike, trenta metri a fianco. Attraverso enormi pareti, interamente di cristallo.

V'è da dire che qui ad Atene è rimasto ben poco dei due frontoni, considerati i capolavori di Fidia e della scultura greca classica in generale, dato che in gran parte questo preziosissimo materiale se lo sono accaparrato gli inglesi, negli anni del colonialismo. 
Patrimoni non di uno stato, ma dell'umanità. Attualmente visibili al British Museum di Londra.

In ogni caso, anche dalle ricostruzioni, chi vedi spiccare maestoso al centro del gruppo scultoreo?
Zeus, non esattamente il ritratto del buon padre di famiglia.

Tanto per dirne una, sposato ufficialmente con la sorella Era, la Giunone dei romani, trovò il tempo di mettere incinta - tra diverse altre - anche l'altra sorella Demetra; che partorì Persefone, la dea delle stagioni.
Per tacere delle sue relazioni omosessuali, come quelle con Ganimede o Euforione.
Insomma, un vero e proprio queer (tanto per farsi capire dai Millennials) ante litteram.
Zeus, il capo delle divinità dell'Olimpo. 

La vita amorosa, nell'antica Grecia, è raffigurata in molti e diversi modi. Statue, vasi, dipinti.
Gli dei e gli eroi appaiono pieni di debolezze e sbagliano, e soffrono, in amore, allo stesso modo dei mortali. Trovi filosofi profondamente immersi nelle loro elucubrazioni che cercano l'amore, il piacere della vera felicità.
Trovi donne in solitudine, ma desiderose del bene più agognato: il matrimonio, la famiglia.
E donne libere di offrire i loro corpi in uno scambio o dietro pagamento, in un quadro giuridico strettamente definito. Al pari della pedofilia.
Poi le prostitute del tempio, le cortigiane, le concubine; donne di scarsa cultura, donne di grande cultura, donne potenti, donne miserabili.
Omosessuali, cisgender e transgender.

A fronte di tanta eccedenza, chiunque si occupi oggi a livello professionale di sessualità può confermarlo: una delle urgenze contemporanee si chiama “calo del desiderio”.

Ma come? 
Nell'era web, del tutto-in-rete?
Mica siamo più negli anni '60, dove se da ragazzino bramoso cercavi di raccattare qualche sparuta informazione, illustrazione o indicazione sul tema del "come si fa", oltre al classico passaparola (“feedback”, per i Millennials) dovevi per forza recarti furtivo in qualche lontana edicola. O approfittare del mensile taglio di capelli dal barbiere del paese - pagato dalla mamma - dove le rivistine porno, perlopiù a fumetti, infallibilmente  giacevano a disposizione sul tavolino, davanti alle poltroncine d'attesa. A “portata di mano”, insomma...

Che poi, "calo del desidero", che significa? 
Vuoi bene al tuo partner, ma non provi la stessa attrazione fisica di un tempo?
Hai voglia di fare l'amore, ma temi che non andrà poi secondo quanto tu o il tuo partner si aspetta?
Hai una attività sessuale anche frequente, ma non riesci a provare piacere?

Sembra impossibile, ma è così: la consulenza e la terapia sessuale vedono attualmente in cima alla classifica le richieste di coppie che si lamentano perché “non è più come prima”.

Dall'antica Grecia all'era delle neuroscienze, possiamo finalmente dire di avere a disposizione qualche strumento in più per comprendere- e migliorare - problematiche moderne all'interno di temi eterni, ricorrenti già dai tempi di Omero: la passione, l'impegno, l'intimità.

Conosco una giovane e brillante ricercatrice americana, che lavora negli States come consulente formatrice: Emily Nagoski del Kinsey Institute. Ha pubblicato su questi argomenti dei dati molto interessanti. Ad esempio quelli sul funzionamento del cosiddetto sistema “freno-acceleratore” nel cervello emotivo.

Da un suo recente e consigliabilissimo lavoro, pubblicato anche in Italia con il titolo originale: "Come as you are", traggo la descrizione di come funziona la corteccia mesolimbica. Questo il nome di una delle strutture cerebrali la cui scoperta ci ha consentito una delle distinzioni scientifiche più produttive in ambito sessuologico: quella tra “desiderio sessuale” e tre sue diverse componenti: 
  • godimento
  • aspettativa
  • voglia

Pensa a una più che ricorrente scena di questo genere. Chiamiamoli anonimamente, per esigenze di blog rispetto privacy nella protezione dell'identità, Fabio e Marisa.

Primo tempo: inizio della convivenza.  
Fabio raggiunge Marisa che è già a letto. Si godono le coccole di fine giornata, mentre parlano dei progetti per il giorno successivo. La mano di Fabio inizia a vagare lungo tutto il corpo di Marisa, attivando in lei aspettativa e godimento in quanto lei si trova in uno stato d'animo amorevole e rilassato. Inevitabilmente, si risveglia in lei anche la voglia. Così iniziano a baciarsi, anche le mani di Marisa partono in esplorazione e... da cosa nasce cosa.

Secondo tempo: due mesi dopo che Marisa ha partorito.
Fabio va a sdraiarsi a letto accanto a Marisa, svegliandola da un raro e prezioso momento di sonno profondo. Ha voglia di coccole e di parlare dei loro progetti per il fine settimana. Marisa si gira verso di lui lasciandosi abbracciare e, mentre parlano un po', la mano di Fabio inizia a vagare lungo il corpo di Marisa. Un corpo privo di sonno, in allattamento, cambiato nell'aspetto, ancora in  cicatrizzazione chirurgica post-partum e i piedi mezza misura più grandi rispetto a un anno prima. Un corpo continuamente palpeggiato dalle manine di un bebè.
Il tocco di Fabio su questo strano, nuovo corpo attiva in Marisa un'aspettativa... che la riempie di paura: voglia di evitare il sesso. Così lei si volta dall'altra parte dicendo: “Oggi no, tesoro”.
Fabio pensa, e in questo momento forse tutti i lettori maschi con lui: “Non capisco, un tempo era fantastico”.
Stessa stimolazione, diverso contesto. Quindi: diversa risposta da parte delle strutture del cervello emotivo (pallido ventrale, nucleo accumbens, amigdala, nucleo parabrachiale del tronco encefalico). 

Ecco ciò che distingue l'aspettativa (il prevedere) dalla voglia (il desiderare) e dal godimento (apprezzare). 
Le tre componenti del “desiderio sessuale”. 
Si tratta di funzioni separate. 

Si può desiderare senza apprezzare (smania), prevedere senza desiderare (paura, evitamento) o qualunque altra combinazione.
Quando siamo eccitati, le strutture cerebrali possono interpretare praticamente qualunque cosa come stimolante.
Al contrario, quando siamo sotto stress la mente legge tutto come potenziale minaccia.

Per la maggior parte delle persone, il contesto più favorevole al sesso è: basso livello di stress + alto livello di tenerezza + clima esplicitamente erotico.

Si può quindi lavorare sul desiderio sessuale nella coppia, favorendo un suo risveglio?
Assolutamente si, of course!

Ma in questo post ho già scritto troppo.
Dai greci, ai neuroni.

Arrivederci a un prossimo.
Stay... loved!

- ventiquattromila baci -

0 Comments

FUGA DALLA LIBERTA'

26/3/2017

0 Comments

 
Foto
150 lire. In assegno. Anzi, “miniassegno”.
I soldi di carta, che a metà degli anni '70 ci servivano tra l'altro per comprare la merenda.
Il  mitico “pan con l'uva” che il fornaio distribuiva giù in cortile,  all'ora dell'intervallo.

Era un assalto. Una lotta all'ultimo gomito. 
Per questo l'impresa veniva commissionata, a turno. 
All'inizio pensavo fosse proprio il motivo per cui sentivo parlare di “lotta di classe”.
Occhio per occhio. Canino per canino.
Uno per tutti, tutti per uno.

Quel giorno toccava a me. Apposta mi ero piazzato più vicino possibile alla porta, pronto a scattare come Pietro Mennea allo sparo della finale dei 200 piani. 
La Bixio, la prof. di lettere, non aveva però ancora terminato la sua orazione sul Petrarca.

“Soffrite con gioia”, amava ripetere il cinico Zago, il prof. di ginnastica, sotto quel suo baffetto stronzo. Giubbetto attillato, anch'esso alla Freddie Mercury.
Niente a che vedere con Boschini, l'insegnante dell'anno precedente, che alla succursale negli impianti sportivi dell'Antonianum ospitava nelle sue (e nostre) ore l'amico Riccardo Patrese, il patavino campione nella Formula Uno. 
Che goduria, vederlo arrivare su quella fighissima 131 Abarth color aragosta!
Sul campo di pallone non si rivelava tuttavia un asso quanto lungo l'asfalto dei circuiti mondiali. Ricordo un libidinosissimo “tunnel” che gli somministrai, e una ciclopica successiva testata in un colpo di testa mal calcolato, cinque minuti dopo.
Forse pensava di stare a Montecarlo, con il casco ancora in testa.

Si, ho sofferto, ma con scarsissima gioia.
Non tanto in quella occasione: un certo godimento nel vedere il campione delle quattroruote stramazzare nella polvere, come un ciclista domenicale, confesso di averlo provato.

Fu l'altra, di volta. 
Quando la professoressa Bixio, al suono della campanella e il mio piede destro già di molto proposto fuor dall'uscio, mi gela e paralizza, apostrofandomi stizzita: “Ma insomma, Contin! Io non ho ancora finito con Petrarca! Dov'é il rispetto?”

Credo di aver attraversato in volto tutti i colori dello spettro elettromagnetico.
Dal lilla violetto fino al vermiglio.
Mi sarei nascosto saltando dritto in braccio alla materna Lorena Bison, sparendovi due banchi più in fondo.

Vabbè, quante storie, per un pan con l'uva!
Pur sempre di bisogni primari si trattava, no?
E dire che erano gli anni delle lotte anarchiche, dei picchetti fuori dal portone del liceo la mattina degli scioperi. Ricordi di mandibole rotte, di sirene delle jeep con su i “celerini” chiamati a ripristinare l'ordine.
Neri patavini contro rossi internazionali. Autonomia Operaia. Il congresso di Bologna nel 1977 alle grida di slogan tutt'altro che epidermici: “Zangherì, Zangherà (Zangheri l'allora sindaco della città felsinea) il congresso si farà!”.
Oppure: “Lotta dura, per la verdura!”

Una volta al mese in Italiano, però, con la Bixio si discuteva in classe la lettura di un libro.
Ricordo benissimo “L'arte di amare” di Erich Fromm. Mi era piaciuto, davvero. Proprio tanto.

Solo qualche anno più tardi, del medesimo autore, ebbi modo di scoprire “Fuga dalla libertà”. 
Una folgorazione. Scritto nel 1941, attuale oggi più che mai.

Erich Fromm, psicanalista freudiano ortodosso, esponente di spicco della cosiddetta “Scuola di Francoforte”.
Dice che è faticosa, la libertà. Che non si può mai dare per scontata.
Paradossalmente, a qualcuno può spaventare così tanto da spingerlo a mettere in atto dei veri e propri inconsapevoli ”meccanismi di fuga”.

Il primo è la distruttività.
Il secondo, il conformismo.
Il terzo, infine, l'autoritarismo.

La distruttività. Una strategia che l'essere umano mette in atto per liberarsi da questo “fardello” che è la libertà. Usando violenza, supero il mio senso di impotenza, di svalorizzazione, di insignificanza andando “contro” qualcuno. 
L'altro serve da stampella al mio inconscio senso di mediocrità, se non di totale vacuità interiore. 
Non di rado, l'accompagna una razionalizzazione. Con la quale si giustifica l'aggressività che colpisce determinate persone o gruppi sociali, considerati ai propri occhi “meritevoli” di violenza, discriminazione, spregio.

Il conformismo. Qui il soggetto fugge dal proprio isolamento consegnandosi mani e piedi ai meccanismi che egli ritiene funzionali al sopravvivere in società. Per venire accettato dagli altri significativi, l'individuo procede all'annullamento del proprio sé. Attraverso la moda, le omologazioni del linguaggio, dell'acconciatura, del vestiario, degli “status symbol”. 

L'autoritarismo, infine, è un “gettarsi nelle braccia” di qualcuno di potente. Che ai propri occhi appare enormemente potente. Che dia sicurezza. Almeno apparente. Ciuffo arancione o radici bolsceviche che possieda,  poca ne fa, di differenza.
Fromm la definisce posizione “sadomasochista”. Perché la sofferenza patita non è il fine ultimo, ma un mezzo. Queste dinamiche di sottomissione e dominio sono funzionali ad entrambe le parti. 
Al “duce”, che ne guadagna in potere.
Al decerebrato (quanti se ne contano, a misurare la diuturna dose di post che vengono condivisi a partire da siti-bufala) che finalmente ha modo di sentirsi qualcuno, nell'”esercito di giustizia” di uno forte.

In questo post, se non lo si è capito, volevo parlare della libertà.
Il luogo comune su di essa, quello tipo “Baci Perugina”, recita che “dove finisce la tua, comincia la mia”. 
E viceversa.

A me piace un'altra distinzione: quella che si pone tra libertà da, la libertà di, libertà per.

Posso divenire libero “dal” carcere, il giorno dell'amnistia.

Sul piazzale antistante, chiuso il portone alle mie spalle, mi ritrovo libero “di” scegliere. 
Come Jake, mentre il Brother Elwood lo viene a prendere sulla Bluesmobile.
Mai rinunciare in partenza a queste libertà.

Nel momento in cui mi rimetto in gioco, tuttavia, la mia libertà è sempre funzionale a qualcosa. 
“Per” uno scopo. Se me la tengo in tasca, rimane inconcludente. 
Che allora io mi scopra “in missione per conto di Dio” o votato a sfuggire il lanciafiamme di un amore disilluso, mi conviene adoperarla, la mia libertà. 
Sapendo che ciò equivale - automaticamente e inevitabilmente - a rinunciare a una parte di essa. 
“Per” uno scopo.

Vivere, è scegliere.
​Libertà fa rima con responsabilità.

L'ho capito terminato il liceo.
Ripensandoci, anche grazie alla Bixio, a Zago e al buon Patrese.

Grazie comunque, Lorena.

- andavo a cento all'ora -

0 Comments

TI BEVE UN'OMBRA

11/2/2017

1 Comment

 
Foto
No, la questione non risiede in un bacaro di Cannaregio.
Neanche in qualche più classica ostaria, al fresco chiaroscuro di alcun romantico campiello.
Della città più suggestiva al mondo, è vero, la frase richiama l'assonanza a una più che consueta  espressione conviviale.

Suscitar sorrisi è del resto gioco facile, avventurandosi in qualche umoristica traduzione English - Venexian del tipo:
"It's not finger" (No xe dito)
"Your Mother Cow" (To mare vaca)
“I live in Longbridge” (Stago a Pontelongo) 
“I'm getting bored” ( - censurato - )

Il discorso che propongo è tuttavia ben men faceto: verte su uno dei più classici archetipi proposti da Carl Gustav Jung, lo psichiatra di Zurigo allievo dapprima prediletto e successivamente avverso a Sigmund Freud.

Archetipo: “rappresentazione mentale primaria, contenuta nell’inconscio collettivo che si manifesta in simboli universali presenti in tutte le culture ed in ogni epoca storica”. 
In sostanza, qualcosa di inesorabile, che esiste prima, durante e dopo la nostra venuta al mondo come individui, dotato di un significato valido in ogni parte del globo. 
Esempi?
La Madre, il Vecchio, il Bambino... la Juve (come delirio di onnipotenza per i tifosi bianconeri, ossessione persecutoria per quelli interisti).

Uno degli archetipi più forti è appunto quello dell'Ombra.

Usciamo ordunque dal bacareto e, saldato il conto all'oste per il buon “goto” de vin (dai contemporanei riconvertito in “spriss”) affacciamoci allo scoperto per ampliare lo sguardo verso gli orizzonti che l'analisi junghiana dischiude.
Così Carl Jung in “Psicologia e Religione” (1938-1940): “Ognuno è seguito da un’Ombra, tanto più nera e densa quanto meno è incorporata nella vita cosciente dell’individuo.” 

Incrociamo subito l'arcinoto Robert Louis Stevenson, che nel suo libro più famoso “Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde” descrive in modo magistrale un caso di scissione dell’Ombra, ovvero un rifiuto di questa, che continuerà a vivere una vita autonoma senza alcuna altra relazione con il resto della personalità. 
L’Ombra riguarda quegli aspetti relativi a colpe, vergogne, autosvalutazione, infantilismi, che generalmente si tende a proiettare su altre persone. 

Se Sigmund Freud riteneva che la nevrosi scaturisse dalla repressione della libido, cioè di quella fenomenale energia che la sessualità e l'aggressività umana contengono, Jung pensa invece che il disagio psichico - fino alla vera e propria malattia mentale - abbia altrettanta origine nella rimozione della dimensione religiosa. 

Ho letto molti commenti, in questi giorni, sul caso del prete padovano resosi responsabile di spregevoli nefandezze di abuso a sfondo erotico. Diverse analisi seguono il crinale sociologico, altre educativo-pedagogico, altre ancora morale-esortativo.
Non molte di queste riflessioni mi paiono invece considerare l'inevitabile compresenza, nella psiche umana, della dimensione Luce e di quella Ombra. 
Del buon grano e della zizzania, per esprimersi in termini evangelici.

Credo che agli  autori di questi articoli - come a me che in questo momento sto scrivendo - farebbe bene gettare anche uno sguardo interiore di autoconsapevolezza.
Rispondere in verità alla domanda se nelle pieghe delle proprie fantasie, dei sogni notturni, delle rappresentazioni mentali - proprio mentre si vanno a descrivere le gesta del turpe prete - non si possa riconoscere lo stesso demone. 
Ciò non significa che tutti ci troviamo sempre rischiosamente sul ciglio di una “messa in atto” di queste fantasie. 
Significa piuttosto che noi non potremmo parlarne, descriverle, commentarle se non abitassero già profondamente nella nostra mente sotto forma di immagini, pensieri, rappresentazioni.

Quando poi qualcuno disgraziatamente - come il prete padovano - arriva ad agirle a livello di comportamento, cade automaticamente in quel circuito di rinforzo che le neuroscienze ci hanno insegnato a chiamare “dopaminergico”.
Un'attivazione a quel punto anche biochimica, che sta alla base di ogni dipendenza. 
E qui “vanno a nozze” (lo so, espressione volutamente impropria”...) nel distorcere, cancellare, generalizzare eventi e comportamenti, tutti quei meccanismi di difesa noti come scissione, razionalizzazione, ipercompensazione, rimozione et cetera.

E' sotto gli occhi di tutti con quanta facilità ci si possa trasformare, nella posizione di chi giudica, in “leoni da smartphone” scagliandosi contro le colpe altrui. Si chiama “proiezione”.
Quando questo meccanismo è eccessivo, l’individuo rischia di identificarsi troppo con la sua parte “luce” e cioè con la persona che rappresenta. In altre parole, la maschera con la quale l’individuo gioca il suo ruolo nel mondo e con gli altri. 
Rimuovendo nel contempo la trave che sta nel proprio occhio, a discapito della pagliuzza altrui.

Si conosce poi un altro meccanismo dell’Io, chiamato "identificazione con l’ombra".
Si tratta della scelta di identificarsi con la parte più negativa di sé, di dare continuamente una cattiva impressione personale, creando sempre  degli ostacoli là dove esistono solo nella mente del soggetto.
Esempi ne incontriamo quotidianamente: a scuola nel ragazzo deprivato affettivamente che diventa autolesionista o sabotatore; sul posto di lavoro nel relazionarci con colleghi costantemente acidi e ipercritici perché frustrati professionalmente e/o economicamente; nel palcoscenico dei social media con i compulsivi dello "sputtaniamoli tutti", illusorio succedaneo a una radicale insoddisfazione esistenziale.

E' con questi scompartimenti della psiche che ritengo valga la pena confrontarsi. 
Come educatori, giornalisti, terapeuti. O come semplici commentatori.

Il lavoro clinico dello psicanalista, lo scavare nelle paure, nelle fobie, nelle dimensioni segrete e nei desideri delle persone, conferma quotidianamente l'efficacia del passaggio evangelico nel quale il Nazareno esorta il pubblico dei moralisti presenti alla lapidazione della donna sorpresa in adulterio (agito con un uomo, a quanto si può supporre) apostrofandoli così: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”.

Una provocazione non dissimile dalla constatazione di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, in “Memorie del sottosuolo”:
“Ogni uomo ha dei ricordi che racconterebbe solo agli amici. 
Ha anche cose nella mente che non rivelerebbe neanche agli amici, ma solo a se stesso, e in segreto. 
Ma ci sono altre cose che un uomo ha paura di rivelare persino a se stesso, e ogni uomo perbene ha un certo numero di cose del genere accantonate nella mente.” 


Morale della favola, utile a mio avviso in primis agli educatori:
“Non si diventa illuminati perché ci si immagina qualcosa di chiaro, 
ma perché si rende cosciente l’oscuro”.


Queste le “ipsissima verba” di Carl Gustav Jung, lungo una scia di pensiero terapeutico che lo stesso  Luigi Maria Rulla sj, psichiatra e teologo capostipite di schiere di formatori, ha definito “Integrazione”.
 
​
   - a wither shade of pale -

1 Comment

VIP - MIO FRATELLO SUPERUOMO

22/1/2017

0 Comments

 
Foto
Ero, credo, in prima media quando uscì questo film. Mi divertiva e mi diverte assai. 
Una spassosissima creazione del talento italico, a nome Bruno Bozzetto.

La trama:
I Vip sono una stirpe di superuomini che difendono il mondo dalle ingiustizie, già dalla comparsa della specie umana sulla terra.

Ad ogni generazione, il Vip di turno si innamora e sposa una superdonna in pericolo, ma l'ultimo Vip, Baffovip, fraintendendo il concetto di super con un supermarket, convola a nozze con la cassiera del supermercato.

Ne nascono due figli “Vip”. Tuttavia mentre il primo, chiamato Supervip, ha tutti i poteri del supereroe ereditati dal padre (l'ultra forza,la supervelocità, il volare come un jet), suo fratello minore Minivip può al massimo svolazzare a mezzo metro da terra con due alette striminzite. Emette solo il bagliore di un lumicino, visibile appena nelle tenebre della notte.

Per curare il complesso di inferiorità che questo fatto provoca a Minivip, un'équipe di psicologi gli consiglia una crociera per mare.

Insomma, la traduzione cinematografica di una questione vecchia come il mondo, della quale tra i primi a livello scientifico si occupò  Alfred Adler, figlio di un piccolo commerciante israelita.
​Nato a Rudolfsheim, quindicesimo distretto nel sobborgo di Vienna, il 7 febbraio 1870. Di bassa statura, salute precaria, soffrì di rachitismo. La condizione di isolamento e di immobilità imposta per motivi terapeutici gli propose già da bambino i problemi dell'inferiorità e della socializzazione.

Sono sempre stato profondamente convinto che dietro a ogni ideologia, sistema di pensiero, weltanschauung, ci stia sempre e prima la biografia del suo autore. 
La scelta della carriera medica, per Alfred Adler, fu precoce. Come studente non fu brillante. Compì nella capitale austriaca tutti gli studi, laureandosi nel 1895. Dapprima si specializzò in oftalmologia, ma poi, considerando troppo ristretto questo settore, optò per la medicina interna.

Nel 1902 conobbe Sigmund Freud, che Adler difese appassionatamente all'interno dell'associazione dei medici viennesi contro le critiche di antiscientismo che venivano mosse alla nascente e “scandalosa” psicoanalisi. 
Nel 1907 conseguì la specializzazione in malattie nervose. Del 1907 è anche lo studio sulla "inferiorità degli organi" e dell'anno successivo quella del saggio sull'"istinto di aggressione". 
All'interno del gruppo psicoanalitico la sua posizione di consolidò sino alla nomina, nel 1910, a presidente. 
Richiamato alle armi come ufficiale medico all'età di 44 anni, a seguito dell'esplosione della prima guerra mondiale, ebbe modo di osservare sul campo le reazioni psicopatologiche agli eventi bellici.

L'avanzata del nazismo in Europa e l'apertura da parte degli ambienti universitari statunitensi influenzarono la decisione del suo trasferimento definitivo in America; nel 1930 venne incaricato dell'insegnamento della psicologia alla Columbia University e nel 1932 gli fu conferito il titolo di professore anziano al Medical College di Long Island. 
Gli ultimi anni della sua breve vita lo videro impegnato nel lavoro di diffusione delle sue idee, che propagandava direttamente con conferenze, spaziando dai temi della psicoterapia alla criminologia e alla pedagogia. 

"La conoscenza dell'uomo" (del 1927) costituisce l'espressione più completa dei suoi principi teorici, fondamentalmente riassumibili in questo:
  • lo stato di salute mentale è caratterizzato da ragione, interesse sociale e auto-trascendenza;
  • quello di disordine mentale invece da senso di inferiorità, egocentrismo, senso di superiorità o bisogno di esercitare potere su altre persone;
  • gli psicoterapeuti adleriani dirigono l'attenzione del paziente sul fallimentare e nevrotico carattere delle proprie aspirazioni allo scopo di fargli superare il senso d'inferiorità. 

A Minivip, tornando al film, qualcosa non va per il verso giusto e  finisce, assieme ad un leone che poi si rivela essere Lisa (una studentessa di antropologia intenta a scrivere una tesi proprio sulla stirpe dei Vip), sull'isola di Happy Betty la regina dei supermercati HB. 
Questa donna arrogante, a capo di un'organizzazione segreta, ha progettato un folle piano per rendere l'umanità intera una massa di docili consumatori.

Dopo molte divertenti peripezie, sarà tuttavia proprio Minivip a salvare il mondo e far innamorare di sé una delle vittime di Happy Betty, dimostrando che sia lui che suo fratello sono super Vip che si equivalgono a vicenda.

Morale della favola: l'idealizzazione di un capo, o di un presidente, come “superuomo” è sempre direttamente proporzionale alla buca della frustrazione nella quale annaspi.
La fregatura? Laddove chiami “forza” ciò che è semplicemente “arroganza”, il boomerang è praticamente dietro l'angolo. 

Adori il duce di turno, alimentandolo con la tua nevrosi.
Meno te ne accorgi, più la buca s'ingrandisce.
Hai bisogno di chiamare il leader “Caro, Figo, Maximo...” proporzionalmente a quanto qualcosa dentro (si chiama inconscio) ti sussurra: “Quanto mi sento piccolo, ohibò”.

- tu vuò fa' l'americano -

0 Comments

TUTTO MIO

17/12/2016

0 Comments

 
Foto
Nome: Melanie.
Cognome: Klein.

Ultima di quattro figli di genitori ebrei ortodossi, ma non praticanti.
Cresce nella vivacità del clima culturale offerto da capitali come Budapest, Londra e Berlino nella prima metà del Novecento.
Una delle primissime ad allargare l'ambito della psicanalisi dalla terapia degli adulti allo studio clinico dei bambini.
Eppure di fase orale, anale, fallica se ne parlava da sempre, tra i seguaci di Sigmund Freud.

Forte anche della propria esperienza diretta, intuisce quanto la relazione con la madre rivesta un ruolo centrale e determinante per lo sviluppo psichico.
Nei primi giorni di vita l'essere umano vive in simbiosi con la madre. 
Non distingue il proprio corpo dal suo. 

In questa fase il bambino percepisce il seno materno come un prolungamento di se stesso. 
Quel calore, quel gusto, sapore, profumo è vissuto come un oggetto dotato di caratteristiche proprie e onnipotenti. 
Tutto il bello, il buono del mondo abita là, a portata di mano. Soprattutto di bocca, di suzione.

Nel contempo, quel luogo diviene la fonte della peggior frustrazione, di rabbia fino all'odio, qualora  non si renda disponibile. E' inconcepibile, fino ai 4-5 mesi di vita, che un oggetto cosi “Tanto” possa sottrarsi al desiderio onnipotente. Alla illusione che il mondo sia sì tondo, pieno, caldo, santo, profumato, accogliente e perfetto come se ne ha bisogno.

Melanie Klein definisce questa fase “schizo-paranoide”. 
Il bene tutto da una parte, il male tutto dall'altra. 
Senza mediazioni.
Senza compromessi.
O con me, o contro di me.

E' esattamente il vivere la situazione tipica della schizofrenia in cui l'identità è diffusa. 
Il sé e le relazioni appaiono solo buone o solo cattive, senza la capacità di integrarne gli aspetti. 
Terrorizzato dalla pulsione di morte, il bambino inconsciamente teme che il seno cattivo perseguiti il Sé buono e allo stesso tempo teme che il proprio Sé cattivo possa aggredire e danneggiare il seno buono. 
Da questa dinamica scaturisce inevitabile l'angoscia di persecuzione di tipo paranoide.

Solo nel secondo semestre di vita, attraversando la prima grande dis-illusione che la vita ci riserva, inizia il compito fondamentale: integrare le parzialità. 
Cominciare ad abitare il mondo, dove presenza/assenza, disponibilità/rifiuto, pieno/vuoto, bianco/nero, bene/male coabitano inscindibilmente.
Melanie Klein la chiama “fase depressiva”.
La via d'ingresso alla maturità.

Lo sai che quando mi guardo attorno, il godimento principale che noto tra la gente è quello di tipo distruttivo? 
Una bruttissima bestia.
Sfoglio Facebook e mi sento immerso in un astio-social che alimenta  gran parte dei post che mi scorrono davanti. Perlopiù link (alias: “copia-incolla”)  di siti-spazzatura, che parecchi condividono senza una briciola di commento critico personale, o almeno verifica della fondatezza delle informazioni fornite. Ma prova a dirlo con parole tue, no? Troppa fatica?

Leggo di politica, e constato che il movente libidico risiede più nel sabotare l'avversario che nella capacità di  affermare le proprie ragioni. La soddisfazione  più nel denigrare  chi la pensa diversamente, che nel saper negoziare soluzioni utili alla collettività.
In maggioranza, trattasi di bufale o eruttazioni distruttivistiche, fine a se stesse.

Un popolo di bebè ancora in ostaggio della fase schizo-paranoide?

Forse non è davvero così, forse è solo ciò che appare maggiormente.
Fa più rumore un albero che cade rispetto a una foresta che cresce, recita il noto adagio.

Passo casualmente davanti alla tv, e sento garrulo un tristo giornalista che – cognomen omen – già nella trascrizione anagrafica della propria identità vede registrata l'irrisolta sofferenza dei dolori che precedono il parto. 
Il tono della voce e' quello di un dibattimento interiore convulso, astenico, forzoso.
Lo ascolto; ricavo l'impressione che ne rimarrà invischiato per tutta la vita.
Una vis polemica totalmente incapace di dialogo, di relazione.
Uno sguardo che non incontra mai gli occhi dell'interlocutore, li evita sistematicamente.
Un'acidità verbale sterile e aggressiva, di tipo autistico.

Come quando uno morde, perché sta male dentro.
Le precise caratteristiche della fase sadico-orale secondo Melanie Klein.

Bah, speriamo un giorno si cresca, tutti, in civiltà e maturità sociale.
Chissà si punti più a costruirle, le relazioni, che ad abrogarle.

Potremmo magari scoprire, come Mowgli, che oltre il circolo chiuso della giungla c'è un villaggio reale, chiamato “degli uomini”.
Da amministrare, piuttosto che incendiare.

- fatti mandare dalla mamma - 

0 Comments
<<Previous
Forward>>
    Immagine

    Noneto Circin

    La parola, il suono, l’immagine, sono l’oggetto dei miei interessi nel tempo libero. 
    A volte, tentano di diventare voce. 
    Nella scrittura, nella musica, nella fotografia. 
    Per passione, per divertimento.
    Insomma, per una delle cose più serie nella vita: il gioco. 
    Tramite i tasti di un pianoforte, una penna che scorre veloce, le lenti di un vecchio obiettivo. 

    Clicca per impostare il codice HTML personalizzato

    Archives

    Agosto 2022
    Luglio 2022
    Febbraio 2022
    Gennaio 2021
    Dicembre 2020
    Novembre 2020
    Ottobre 2020
    Settembre 2020
    Agosto 2020
    Maggio 2020
    Aprile 2020
    Marzo 2020
    Dicembre 2019
    Ottobre 2019
    Agosto 2019
    Luglio 2019
    Giugno 2019
    Maggio 2019
    Marzo 2019
    Dicembre 2018
    Settembre 2018
    Luglio 2018
    Giugno 2018
    Maggio 2018
    Febbraio 2018
    Gennaio 2018
    Dicembre 2017
    Ottobre 2017
    Giugno 2017
    Marzo 2017
    Febbraio 2017
    Gennaio 2017
    Dicembre 2016
    Ottobre 2016
    Agosto 2016
    Giugno 2016
    Aprile 2016
    Marzo 2016
    Gennaio 2016
    Dicembre 2015
    Ottobre 2015
    Agosto 2015
    Luglio 2015
    Giugno 2015
    Marzo 2015
    Febbraio 2015
    Gennaio 2015
    Settembre 2014
    Luglio 2014
    Aprile 2014
    Ottobre 2013
    Settembre 2013

    Categories

    Tutto

    Feed RSS

© copyright dei fotogrammi protetto nei dati Exif 
nonetocircin@gmail.com